FOGLIO LAPIS - OTTOBRE- 2020

 

Alcuni pesanti interrogativi chiamano in causa il sistema educativo - Perché la nostra classe dirigente, a cominciare dai politici, non appare all'altezza di quella che trasformò il Paese nel dopoguerra? - Perché lo spirito vincente che permise il boom economico pare sepolto nel passato?

 

Fra gli anni Cinquanta e i primi Sessanta del secolo scorso, l'Italia fece passi da gigante. Il Paese povero e rurale sul quale si era accanita la guerra più distruttiva della storia divenne un moderno Paese industriale. In uno di quegli anni la lira, la piccola lira risorta dalle ceneri, fu accreditata fra le più stabili monete del mondo, mentre il prodotto lordo cresceva a ritmi accelerati. Era il tempo in cui in pochi anni si realizzavano opere come l'autostrada del sole, almeno il tratto Milano-Napoli, in cui l'Italia era il terzo Paese, dopo Unione Sovietica e Stati Uniti, nella nascente esplorazione spaziale, in cui l'ENI dettava legge nel mondo degli approvvigionamenti energetici, almeno fino a quando un incidente aereo che nessuno può credere fortuito lo privò del suo innovativo presidente.

Che cosa è rimasto di quel tempo insieme vicino e lontano? Come mai una società così dinamica non ha saputo perpetuarsi, per esempio continuando ad esprimere, come faceva allora, una classe politica degna delle sfide che era chiamata ad affrontare? Si direbbe che gli italiani di allora fossero in grado di fare tante cose ma non la cosa essenziale, garantirsi una successione adeguata. Gli artefici del boom avevano alle spalle la dittatura e la guerra, certamente desideravano che ai loro figli fossero risparmiate quelle esperienze devastanti. Dunque è questo il punto? Forse questa legittima preoccupazione portò a eliminare la dura prova della gavetta, a ignorare le contraddizioni provocate da quell'impetuoso sviluppo, a indebolire il principio di autorità e la prassi della disciplina. E così la generazione successiva a quella del boom non seppe approfittare, per dirne una, della grande occasione rappresentata dall'introduzione della scuola media unificata, che finalmente provava a correggere lo storico divario fra la classe di chi comanda e quella di chi esegue.

Come si vede, quando si parla di qualità sociali il discorso tocca inevitabilmente il sistema educativo. Rispetto agli anni della ricostruzione, la scuola italiana di oggi è indubbiamente più egualitaria, anche se il superamento delle ineguaglianze è tutt'altro che completo. Ma al tempo stesso si è fatta più remissiva, più condiscendente, meno autorevole. Che sia questa la radice del declino nazionale? Forse è una delle concause, ma bisogna considerare che la scuola in fondo è lo specchio delle società che la esprime, così come la classe politica non è che quella scelta dai cittadini attraverso i meccanismi elettorali. Abbiamo insomma una scuola che riproduce i connotati sociali, e abbiamo i politici che ci meritiamo, visto che li scegliamo noi.

Recentemente un editorialista, commentando certi brutali episodi di violenza giovanile riportati dalle cronache, parlava di fallimento della scuola. Se ne parla, del resto, non necessariamente in riferimento alla violenza: se ne parla anche per spiegare la diffusa afasia dei nostri giovani, il loro disincanto, la loro voglia di fuga. Colpa della scuola? O non piuttosto del fatto che dopo la formazione si trovano proiettati in una società che non sa offrire lavoro, che avvolge in loro futuro in una nube d'incertezza? Di qui il fenomeno della “fuga dei cervelli”, che mortifica doppiamente le speranze di riscatto del Paese: perché ci priva dei migliori talenti giovanili e perché vanifica gli sforzi organizzativi e finanziari per la loro educazione. C'è poi un altro percorso, quello che una volta portava all'Italia il contributo umano e finanziario proveniente dal vasto mondo. Quel contributo si è assottigliato, non solo, ma contro l'arrivo ormai sporadico di quei capitali stranieri che una volta erano i benvenuti, e che pure si mostrano disposti ad affrontare i lacci e i laccioli della nostra burocrazia e del nostro sistema fiscale, ecco formarsi un'opinione ostile, che strepita in nome del sovranismo e di un dissimulato nazionalismo.

Come uscire da questa condizione? Possiamo cullarci nella speranza che la scuola possa esercitare una funzione salvifica? É possibile assolverla per insufficienza di prove dall'accusa di avere determinato il declino di questo Paese, ma deve contribuire ad arrestarlo, quel declino, e ad invertire la tendenza. La spettacolare ricostruzione degli anni Cinquanta e Sessanta fu resa possibile dal trauma della guerra? Ebbene se proprio serve un'esperienza traumatica ecco la pandemia da coronavirus: vediamo un po' se l'Italia, a cominciare dal suo sistema educativo finalmente riconosciuto come elemento prioritario, riuscirà a usare questo travaglio per ripetere il colpo di reni di allora. Si tratta, né più né meno, di preparare per i nostri ragazzi un futuro degno di essere vissuto.

 

                                                                 a. v.  

 

 


                                                  

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