FOGLIO LAPIS - APRILE - 2007

 
 

È accaduto in un aeroporto inglese: ai controlli di polizia una classe in gita è stata brutalmente sezionata – Da una parte i giovani italiani che potevano entrare, dall’altra i loro compagni immigrati costretti a tornare indietro – Nazionalità non gradite: questa la spiegazione delle autorità britanniche – Quei ragazzi avevano i documenti perfettamente in regola, e si trovavano sotto la responsabilità della scuola, rappresentata dagli insegnanti accompagnatori

 

 

Sui loro passaporti c’è scritto Albania, Burkina Faso, Peru, Ucraina. Tutte dizioni che non piacciono affatto ai poliziotti di frontiera di sua maestà britannica. Tanto che sei studenti di una scuola italiana, l’istituto tecnico Vittorio Emanuele II di Bergamo, sono stati rispediti a casa, proprio perché titolari di passaporti così. Ma prima erano stati sottoposti a una mortificante procedura poliziesca: impronte digitali, foto segnaletiche, alcune ore d’isolamento. Tutto questo perché originari di “paesi non graditi”, secondo la sconcertante spiegazione della polizia. È accaduto all’aeroporto londinese di Luton. Una classe di una quarantina di studenti-lavoratori, frequentatori di corsi serali, era appena atterrata e si apprestava alla sua escursione fra le bellezze della capitale inglese. Ma prima c’erano da sbrigare le formalità dei controlli di polizia, visto che la Gran Bretagna non aderisce agli accordi di Schengen sulla libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione europea.

Il caso è esploso proprio al controllo. No, questi qui non possono passare, hanno sentenziato gli agenti rigirandosi fra le mani i passaporti “alieni”. Vane le proteste degli interessati e dei loro compagni. Vano anche l’intervento degli insegnanti accompagnatori: questi ragazzi sono sotto la nostra responsabilità, inoltre hanno le carte in regola perché nell’organizzazione della gita abbiamo seguito alla lettera le istruzioni del consolato generale britannico di Milano. Niente da fare: i sei venivano trattenuti in aeroporto, schedati e guardati a vista. Dopo molte ore, venivano scortati dagli agenti su un aereo che li riportava al punto di partenza, lo scalo bergamasco di Orio al Serio. La preside dell’istituto, Gabriella Lo Verro, insiste sulla regolarità dei documenti e annuncia: chiederò che sia fatta chiarezza.

Ci sembra che il fatto si commenti da sé. Le discriminazioni sono tutte odiose, questa in particolare è anche inspiegabile, è avvenuta infatti in un paese dalle solide tradizioni di tolleranza, contraddistinto da una fra le più variegate società multietniche. Basti vedere l’articolo qui accanto, che riferisce lo sforzo di coniugare i concetti d’identità e di diversità nelle scuole d’Inghilterra. Siamo di fronte a comportamenti che, immaginiamo, hanno la loro profonda ragion d’essere nell’imperativo della lotta al terrorismo. Ma quale terrorismo? Quale minaccia possono costituire sei ragazzi integrati in una società europea, al punto da svolgervi un’attività lavorativa e da frequentarvi regolari corsi di studio, inquadrati in un gruppo numeroso posto sotto la responsabilità di alcuni insegnanti? Nessuna minaccia, è chiaro, semplicemente “nazionalità non gradite”.

Il male che il terrorismo ha fatto a chi lo ha subito non consiste soltanto nelle vittime, nelle devastazioni e nell’insicurezza che ormai da anni domina le nostre vite. Consiste anche nel peggioramento dei nostri costumi, nella tendenza all’imbarbarimento, nella libertà garantita soltanto alle “nazionalità gradite”, nelle norme d’eccezione, per tacere delle varie guerre preventive e della democrazia modello esportazione. Consiste in comportamenti non soltanto ingiusti ma anche goffamente controproducenti, perché il risentimento di chi li subisce potrebbe anche conoscere derive incontrollate. Il problema è chiaro, almeno a parole: come reagire al terrorismo senza regalare al terrorismo altri proseliti.

                                                               f. s. 

 

   


                                                  

 
 

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