FOGLIO LAPIS - SETTEMBRE 1999

 
 

Un ragazzo su nove non ha raggiunto la licenza media, uno su dodici non è andato oltre il quinquennio primario, uno su quindici ha addirittura interrotto gli studi prima della quinta elementare – Ecco alcuni fra gli sconcertanti risultati dell’indagine condotta su un campione di 3368 giovani di leva nelle province di Napoli, Bari e Catanzaro  

 

Sono 226, hanno diciotto o al più diciannove anni. Sono nati infatti nel 1981, alcuni di loro nel 1980. si sono dunque presentati in prima elementare nel settembre 1987, alcuni di loro l’anno prima. Possiamo immaginare la scena: i grembiulini nuovi, la tenerezza materna, la speranza in una istruzione capace di spalancare il futuro. Ma la loro carriera scolastica è durata pochissimo, non solo non hanno frequentato fino all’adempimento dell’obbligo costituzionale, ma non sono arrivati nemmeno in quinta. Quest’anno quei ragazzi si sono presentati alla leva militare e hanno confidato il loro fallimento scolastico (ma è “loro”, questo fallimento, o non è piuttosto della scuola?) ai formulari della nostra indagine conoscitiva. 

Non dice molto, una cifra assoluta: mettiamola dunque in rapporto con l’universo giovanile di cui quei ragazzi fanno parte. Nei mesi di febbraio e maggio 1999 si sono presentati alla visita di leva, nelle tre province scelte per l’indagine, 3368 giovani. I 226 che hanno dichiarato di non aver finito le elementari sono il 6,7 per cento di quel totale. Uno su quindici dunque, e anche un pochino di più. Ma non è che tutti gli altri quattordici se la passino poi così bene. Alla domanda sull’ultima classe frequentata la somma di coloro che hanno indicato la terza e la quinta elementare corrisponde all’8,4 per cento: uno su dodici, dunque, si è fermato prima di raggiungere la scuola media. E la dispersione è continuata anche dopo, in una specie di corsa a ostacoli spietatamente selettiva. Infatti alla domanda sul titolo di studio coloro che indicano la licenza elementare o “nessun titolo” raggiungono ò’11 per cento: il che vuol dire che nel nostro campione un ragazzo su nove non ha raggiunto quel diploma di scuola media che dovrebbe rappresentare la formale documentazione di un obbligo regolarmente adempiuto. 

E’ appena il caso di notare che ciò che rende questi dati allarmanti è proprio l’età delle persone alle quali si riferiscono. Fossero riferiti all’intero universo demografico, saremmo di fronte a inefficienze e inadempienze scaglionate nell’arco dei decenni. Si tratta invece di abbandoni scolastici che si sono verificati intorno alla metà degli anni Ottanta o poco dopo: siamo insomma di fronte non a un problema ereditato dal passato, anche se dal passato ne abbiamo ereditate le condizioni, ma a un problema dei nostri giorni. Un problema che abbiamo misurato su un campione assai rappresentativo della popolazione maschile di tre province meridionali. Notiamo anche di sfuggita come l’assenza da questo campione della componente femminile abbia probabilmente “migliorato” i dati: infatti certe forme di evasione scolastica, soprattutto nelle aree rurali, risentono ancora di un antico pregiudizio sessista. 

L’indagine ha anche permesso di registrare fra i giovani una imprevedibile “voglia di scuola”. La maggioranza degli interpellati ha infatti considerato la possibilità di continuare gli studi (e se non lo ha fatto è stato, nella maggior parte dei casi, perché è prevalsa l’alternativa del lavoro). Più di quattro ragazzi su cinque valuta positivamente l’esperienza scolastica e giudica utile quello che ha imparato fra i banchi. Quasi altrettanti sono i giovani che vorrebbero, per i loro figli, una scuola diversamente organizzata, mentre oltre i due terzi sono d’accordo sul prolungamento dell’obbligo. Più scuola dunque, ma diversa: se ci è permesso di spingere un poco l’interpretazione oltre i dati numerici, una scuola più amica, più ospitale, più attenta a mettere a proprio agio chiunque, per le più varie ragioni legate alla provenienza sociale o familiare, non riesce a tenere il passo del programma educativo, così come oggi viene solitamente svolto. 

Quasi la metà degli interpellati (44 per cento) segnala una frequente assenza dalle lezioni: e alla domanda sulle ragioni di queste assenze l’8,1 per cento risponde che invece che a scuola andava a lavorare. Presumibilmente questo dirottamento avveniva con il pieno consenso familiare: infatti alla domanda se la famiglia insistesse per una regolare frequenza scolastica il 19,1 per cento risponde senz’altro di no. Mentre se è vero che quattro famiglie su cinque non solo invitavano il ragazzo a non disertare il banco di scuola, ma lo aiutavano anche nell’impegno scolastico, rimane aperta la questione posta da quel 16,6 per cento di famiglie che non lo facevano. Non lo facevano per disinteresse, per impossibilità o per incapacità? 

Ma torniamo un momento a quei 226 ragazzi che in pieni anni Ottanta la scuola ha perduto per strada quando ancora non avevano finito le elementari. Ci interessa sottolineare il destino di una parte di loro, precisamente 85. questi 85 hanno confidato ai nostri formulari che avrebbero voluto continuare gli studi, ma non lo hanno fatto perché si sono messi a lavorare. Proprio così, a lavorare: ancora bambini. Passiamo alla cifra relativa: quegli 85 piccoli lavoratori in età da scuola elementare sono il 2,5 per cento del nostro campione, uno su quaranta. Inutile gridare una volta ancora a uno scandalo che è eloquente di per sé: meglio piuttosto interrogarsi sulla tradizionale alternativa delle interpretazioni. Quei bambini (e quelli che hanno disertato più tardi) hanno lasciato la scuola perché in famiglia premeva la necessità del lavoro, o si sono messi a lavorare perché la scuola di fatto li aveva espulsi? O forse dobbiamo pensare che i due scenari coesistano, facendo convergere la pressione centrifuga di una scuola inadeguata e l’attrazione esercitata da un lavoro nero bisognoso di piccole braccia? Il dibattito è aperto, ma non dimentichiamo la confidenza di quei ragazzi: a scuola, loro, avrebbero voluto andarci ancora.

 

                                                                      Alfredo Venturi

                                                                         

 

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