Oltre le belle parole

All’inizio delle lezioni l’augurio di buon lavoro è doveroso ma non basta: occorre piuttosto l’impegno a attribuire concretamente priorità assoluta alla scuola e ai suoi problemi – A cominciare da quello che ci ostiniamo a considerare il problema numero uno: la dispersione – Non dimentichiamo che proprio la frequenza scolastica è il grande spartiacque della società, la condizione necessaria anche se non sufficiente dell’inserimento del singolo

Anno scolastico 1998-99: il centotrentasettesimo dell’Italia repubblicana, il penultimo di questo secolo. Collocato nel fluire del tempo e della storia, il calendario della scuola ci richiama più efficacemente il senso di quel dialogo fra le generazioni e di quella trasmissione ai nuovi arrivati di memoria di se’, di regole e diritti, di esperienza e cultura, di cognizione del passato e addestramento al futuro che sono, o dovrebbero essere, parti essenziali del percorso educativo e formativo. Scandito dai consueti ritmi stagionali, l’anno scolastico che prende il via comincia a dipanare la sua matassa: una mole enorme di lavoro ma anche una quantità di problemi irrisolti, a volte addirittura mai posti. Né mancheranno le polemiche di sempre: sulla efficacia del modello attuale e delle riforme che si progettano, sulla eterna questione del rapporto fra istruzione pubblica e scuola privata, sull’obbligo costituzionale che si voleva elevare di due anni e per ora si è elevato di uno, sul rapporto fra educazione e formazione, sulla condizione degli insegnanti. Problemi veri, su ognuno dei quali non mancheremo di far sentire la nostra voce né di sollecitare altre voci: siamo qui per questo. Ma oggi, di fronte allo spettacolo dei milioni di bambini, ragazzi e insegnanti che riprendono il loro posto nelle scuole d’Italia, e alle belle parole di circostanza che una volta ancora si sprecheranno, ci sia permesso di concentrare la nostra attenzione non sui presenti ma sugli assenti, e su quelli che, presenti, prima o poi subiranno la tentazione di assentarsi. Sui "ragazzi che la scuola perde", secondo la denuncia di Lorenzo Dilani che abbiamo scelto come nostro motto. Si potrà dire quello che si vuole a proposito della nostra organizzazione scolastica, e non c’è dubbio che essa ha bisogno di sapienti iniezioni riformatrici: ma non bisogna dimenticare che la scuola, comunque essa sia, rimane la condizione necessaria anche se non sufficiente di ogni effettivo inserimento nella società. Rimane il grande metro di valutazione sociale: basti pensare al parallelismo storico fra le statistiche sulla frequenza scolastica e quelle sulla qualità della vita. Il valore non soltanto intellettuale ma anche materiale dell’esistenza è intimamente connesso con l’istruzione, e la frequenza scolastica è precisamente lo spartiacque della nostra società. Per i dispersi c’è infatti l’inevitabile condanna a uno stato di emarginazione, la proiezione crudele in uno spazio senza appigli e in un tempo senza futuro. Né si parla soltanto di interesse dei singoli, c’è anche un interesse comune: possiamo forse permetterci di sprecare la più preziosa delle nostre risorse? Prima ancora di affrontare i mali della scuola, è necessario che l’istruzione di base sia in ogni caso garantita a tutti. L’evasione dall’obbligo va prevenuta e repressa, la dispersione va combattuta con estrema determinazione. Sappiamo benissimo che gli abbandoni dipendono in non piccola parte proprio dalle manchevolezze scolastiche cui si cerca di porre rimedio. Tuttavia dobbiamo insistere: va bene porre rimedio a quelle manchevolezze, ma intanto che i rimedi maturano il loro effetto, e purtroppo dobbiamo realisticamente rassegnarci ai tempi lunghi, bisogna riportare sui banchi dell’istruzione di base coloro che per i motivi più vari se ne sono allontanati. Non c’è tempo da perdere: saranno subito adulti. Le statistiche sulla dispersione sono incerte e contraddittorie, volatili e imprecise. Ma sono soprattutto intollerabili, per ragioni di umanità e di civiltà. D’altra parte la questione non è unicamente legata alle dimensioni comunque inaccettabili del fenomeno: al di là dei grandi e dei piccoli numeri è un fatto che anche un solo ragazzo perduto sarebbe un ragazzo perduto di troppo.

                                                     Alfredo Venturi

 

Napoli: in prima linea nei quartieri spagnoli

Parla Armida Filippelli, preside dell’istituto Pasquale Scura, una scuola situata in uno dei rioni più degradati della città – La storia di un convegno sulla sicurezza che è stato impedito con la violenza – A tu per tu con una società controllata e ricattata dalla camorra – Come i ragazzi difficili riescono ad allestire uno spettacolo sul tema dell’amore, recitando Catullo, Dante e Shakespeare

Armidia Filippelli, preside di prima line, illustra il particolarissimo contesto urbano in cui la scuola Pasquale scura, da lei diretta, si trova immersa. "Siamo nel cuore dei quartieri spagnoli, una specie di quadrilatero dove gli spagnoli avevano le loro truppe… quartieri da sempre molto complessi, ulteriormente degradati dopo il terremoto… C’è un <effetto Harlem>, con tante persone che sono scappate e tanti immigrati che hanno preso il loro posto. Nella mia scuola ci sono molti ragazzini figli di queste persone, ma per me il discorso interculturale era cominciato prima, perché anche i ragazzi napoletani dei quartieri spagnoli sono gente diversa, è come se fosse un’altra etnia. Dunque un ragazzino che viene dallo Sri Lanka o dalle Filippine non mi inquieta più di tanto, anche i bambini di qui sono diversi, persino fisicamente, persino nel linguaggio, da quelli nati a Posillipo o in altri quartieri bene. Degrado, dunque, e dopo il terremoto abbandono e controllo ferratissimo da parte della camorra: qui chi comanda veramente sono loro. Siamo sulla linea d’ombra, perché vede, c’è la Napoli bella, la Napoli cartolina, e c’è la linea d’ombra".
Il sindaco non ha fatto niente in questo senso?
"Diciamo che lo aspetto al varco, perché anche se finora non ho visto molto interesse so che con questa amministrazione posso contare almeno sulla sensibilità. Prima era una vergogna, per una persona come me che si sente libera da condizionamenti e vuol fare semplicemente il suo lavoro di operatore scolastico. Per me il discorso etico va prima di tutto, il discorso dell’istruzione è non guardare in faccia nessuno… Io non chiedo al ragazzino chi è, per me esiste lui e basta, anche perché già so chi sono e di chi sono figli, magari di detenuti tossicodipendenti. E’ forse démodé parlare di persona, di rispetto umano? I politici dunque li aspetto al varco, li ho anche sfidati pubblicamente, perché io non voglio essere una scuola che chiude e se ne va, io voglio essere un cuneo, un cuneo nel quartiere… un cuneo disarmato certamente, però io voglio dire ragazzi, c’è per voi la possibilità di una vita diversa, non è vero che il vostro futuro è segnato dalla condizione illegale dei vostri padri. Utopia? Ma senza utopia non si muove niente".
Immagino le difficoltà di un simile lavoro in questo ambiente…
"Certo è difficile: io volevo fare un convegno sulla sicurezza, sul fatto che qui non vengono i bus e non entrano i vigili, spiegare che questo è funzionale a chi ha il controllo sul quartiere e tiene la gente sotto il peso del ricatto, della violenza. Ebbene, avevo invitato il prefetto, l’assessore alla mobilità, altre autorità, giornalisti… Ho avuto la scuola invasa dai disoccupati, quelli più turbolenti, diciamo la fascia delinquenziale e mi hanno praticamente detto che qua di sicurezza non si deve parlare. Ecco, il convegno non l’ho potuto fare, il prefetto se ne è scappato".
Come, scappato?
"Sì, perché stava nel vicolo vicino, e come ha sentito che la scuola era invasa se n’è andato. L’assessore non è proprio venuto. Un senatore, il senatore Villone, che era venuto se n’è andato, praticamente siamo rimasti io, alcuni professori gente della Digos".
Quando è accaduto?
"Il 24 maggio. Ora, nessuno che mi abbia dato un segno di solidarietà. Il prefetto l’ho incontrato dopo due giorni e mi sono lamentata del suo abbandono: era in una scuola dove si festeggiava l’euro. Perché qui a Napoli l’euro viene festeggiato, è giusto. Vede, non è amarezza la mia, è solo per dirle che non è facile. Vorrei tanto poter dire alla gente che non è vero che comanda soltanto la camorra, che c’è uno Stato che funziona, che ti dà una mano, che ti vuole risollevare…"
Ma lo Stato a lei non la dà, una mano…
"Questa violenza dei disoccupati proprio non ci voleva. Però come le ho detto, c’è un’attenzione diversa. Io riesco con l’aiuto del Comune a tenere aperta la scuola d’estate, a Natale, perché questo è importante in un quartiere chiuso in sé stesso, dove la gente ha paura, dove si spara, dove tante volte hanno sparato ai miei alunni, o dove i genitori dei miei alunni sono stati <giustiziati> a Piazza Carità. Io qui voglio vedere una mano forte, la voglio avere una mano, e anche di più. Vorrei che venisse il sindaco, perché è diventato un simbolo, io lo invito sempre a venire qui, vorrei che sentisse come cantano in inglese i nostri ragazzi, proprio gli stessi magari che aprono la porta a calci perché così hanno imparato nel loro ambiente di provenienza".
Come giudica la riforma in preparazione, l’obbligo prolungato?
"L’obbligo prolungato lo vedo molto bene, ma solo se si fa rispettare, ma quando noi facciamo delle leggi splendide che poi non riusciamo a far rispettare…"
E l’autonomia degli istituti?
"Guardi, se è una cosa reale e non di facciata, e se ci danno dei fondi per farla funzionare, ben venga, ma se ci deve portare a un eccesso di regionalismo, oppure a fare le nozze con i fichi secchi, allora non mi sta bene. Del resto dell’autonomia io mi sono immediatamente avvalsa per fare degli orari meno rigidi. Questi sono ragazzi che vivono in strada e stanno svegli la notte, anche per questo abbiamo bisogno di fare scuola in modo alternativo. Questi l’infanzia quasi la saltano, hanno genitori giovanissimi e poco autorevoli, a 35 anni qualcuno è già nonno. Dunque i miei ragazzini di 12 anni sono già autonomi, e io devo convincerli che la scuola è importante, ma non è facile e allora ci vorrebbe quella legge di cui si parla sugli incentivi a chi manda i figli a scuola. Perché molti di loro devono lavorare per aiutare in famiglia. Vede, qualche volta ho sentito il loro affetto, ma in ambiti diversi dalla scuola, perché a scuola io sono la preside, l’unica autorità che riconoscono. Mi hanno anche difesa, un giorno che ho subito uno scippo, hanno preso lo scippatore e lo hanno picchiato, denunciato no, perché andrebbe contro i loro canoni omertosi".
Che cosa si può fare per loro?
"Tante cose, facciamo funzionare meglio la scuola, portiamoli a vedere come funziona l’imprenditoria giovanile, come si può fare una cooperativa, invece di infliggere un’ammenda risibile dopo un iter lunghissimo alla famiglia che manda il ragazzo a lavorare nel bar invece che a scuola, diamo piuttosto un sussidio alla famiglia che il suo ragazzo lo manda a scuola. Facciamo cose importanti come il corso che abbiamo fatto con i fondi dell’Unione Europea per i genitori. Un corso di ottanta ore per venti genitori, con la partecipazione di magistrati, avvocati, psicologi, associazioni del volontariato. Questa gente ne è uscita trasformata: era la prima volta che qualcuno investiva in loro. Ci sono delle madri che hanno costituito un’associazione, anche quelle che non hanno più i bambini a scuola mi hanno detto: preside, possiamo ancora starle vicino? Ma come no, voi dovete starmi sempre vicino, voi siete diventati un punto di riferimento per il quartiere. Una risorsa, come i nostri professori, gente motivata che sta qua come me da vari anni, senza chiedere il trasferimento, persone che potrebbero stare nelle migliori scuole della città".
Insomma ci sono speranze di strappare questi ragazzi al degrado morale.
"Lo sa che questi ragazzi, figli della violenza, hanno organizzato uno spettacolo sul tema dell’amore? Lo hanno fatto nei laboratori dove realizziamo nelle ore pomeridiane dei programmi di tipo operativo. E’ un tipo di didattica imposto dal fatto che i nostri alunni proprio non ce la fanno a stare seduti per ore in classe. Dunque hanno recitato Catullo, Dante, Shakespeare, i poeti moderni, poi hanno ballato, hanno cantato, sono stati di una straordinaria bravura"

 

La scuola come parcheggio attrezzato

Secondo il sociologo Amato Lamberti, presidente della Provincia di Napoli, la scuola del futuro dovrà preoccuparsi in primo luogo di organizzare le conoscenze acquisite all’esterno – Il problema di un corpo docente troppo spesso chiuso rispetto alla società, al punto da considerare inutile la lettura dei giornali – Innalzare l’obbligo va bene, ma non basta mandare i ragazzi a scuola, se poi i progressi sul piano formativo sono insignificanti

Che idea hanno della camorra i ragazzi napoletani? Amato Lamberti, sociologo e presidente della Provincia, ci parla di un singolare esperimento volto a tentare una risposta a questa domanda. "Abbiamo fatto una verifica sull’immaginario dei bambini. Abbiamo fatto disegnare l’animale che secondo loro rappresenta i camorristi. Nelle zone periferiche, dove la camorra è presente, è sempre un animale feroce ma nobile, nelle zone bene della città è invece un insetto, un verme. Adesso stiamo estendendo l’esperimento ai ragazzi reclusi… più o meno stiamo avendo le stesse indicazioni. Diceva Cuoco che non si capisce niente della nazione napoletana se si pensa che sia una, in realtà sono due, e l’una non vede nemmeno l’altra perché ha lo sguardo rivolto all’ombra e basta".
Questo come si riflette sulla scuola?
"Guardiamo ai dati, ci sono dei tassi di evasione scolastica che arrivano anche al 20-25 per cento in alcune zone, in realtà ci sono pezzi di società in cui vanno tutti a scuola e pezzi in cui non ci va quasi nessuno. E allora il problema è capire, per quelli che non ci vanno, a che cosa serve questa scuola. Prendiamo il tipico soggetto marginale, che abita in una famiglia legata ai lavori gestiti dalle organizzazioni criminali, tipo contrabbando di sigarette, vendita di oggetti rubati e di oggetti falsificati e così via. Come può la scuola dargli delle indicazioni, dal momento che l’unica possibilità che vede proviene dal mondo della marginalità, dove le regole sono altre, le regole del saperti far valere… Ogni persona è orientata nei confronti della società secondo le opportunità che ha a disposizione. Il figlio di un marginale, che cosa impara a scuola rispetto a quello che gli sarà necessario? Quindi è chiaro cha da un lato non c’è la pressione della famiglia nei confronti della scuola, mentre il ragazzo nel contesto in cui vive non riceve sollecitazioni in direzioni diverse".
Che cosa si può fare? Incentivi alle famiglie?
"Ma non basta. In alcuni quartieri si riesce a portare i bambini a scuola almeno per i primi anni, ma come si dice non sono secolarizzati, nel senso che le famiglie non li hanno orientati positivamente. Questi soggetti non secolarizzati vengono ghettizzati e caricati di sensi di colpa, alla fine se ne vanno. E se gli chiedi perché hanno lasciato la scuola rispondono non <perché non mi serviva> ma <perché ero ciuccio>".
Come funziona l’osservatorio sulla dispersione?
"In un certo senso ha funzionato, tanto che abbiamo un tasso di evasione scolastica che è nella media nazionale. Noi diciamo che tutti vanno a scuola nel senso che vengono parcheggiati nella scuola, ma è questo il risultato che si vuole ottenere?"
No, non è questo
"Allora oggi ci sono ragazzi che vengono parcheggiati nella scuola fino ai 14 anni perché c’è l’obbligo, se non vengono si mandano i vigili, si controllano gli elenchi. Ma i risultati, dal punto di vista della formazione di questi soggetti, sono insignificanti. L’unica cosa che noto è che mentre prima nelle carceri minorili e in quelle per aduli trovavo soggetti quasi sempre privi di scolarizzazione, o con scolarizzazione bassissima, oggi trovo soggetti che hanno la licenza elementare o la licenza media e qualcuno ha anche qualche anno di scuola superiore, però stanno lì. Né i tassi di criminalità minorile sono diminuiti in misura significativa. Dunque il problema va al di là del fatto di portarli a scuola, cha ha un senso solo se serve a instradarli diversamente".
In che modo si può sciogliere questo nodo?
"Prima di tutto bisognerebbe ridurre notevolmente le opportunità illegittime a disposizione della popolazione. A Napoli ci sono secondo le stime venti o quarantamila persone occupate nel contrabbando di sigarette. Finché ci saranno queste venti o quarantamila opportunità è chiaro che ci saranno persone che ne approfittano. Io conosco studenti che si mantengono agli studi trafficando CD falsificati. Uno dei mestieri più in voga a Napoli è quello di prendere un treno la sera con due borsoni di CD e portarli a Bologna, a Milano, consegnarli e tornare. Per ogni viaggio si prendono 200 mila lire, c’è chi mi dice che riesce a fare anche due viaggi alla settimana. Il pericolo è che quella diventi la sua vera attività. Io sostengo che ci vuole una scuola a tempo pieno prolungato, per tirarli fuori dal contesto in cui vivono e fare proprio della scuola il luogo della socializzazione".
Non si potrebbe, come in Germania, puntare sull’insegnamento di un mestiere?
"Certo, ma bisogna anche considerare che in Germania non ci sono tante opportunità illegali. Certo, ogni società ha i suoi margini di illegalità, ma qui non è come forse in Germania 2 o 3 per cento, qui siamo al 20-25. Qui c’è qualcosa che non funziona nell’articolazione della società. Per i detenuti minori di Nitida si fanno corsi per insegnare a fare i pizzaioli. Ma la media dei giorni di reclusione è sui venti o trenta, troppo pochi per imparare un mestiere".
Che cosa pensa dell’innalzamento dell’obbligo scolastico?
"L’innalzamento va benissimo, perché è diventato sociologicamente necessario allungare i tempi del parcheggio. Io spesso come presidente della Provincia, quindi con la responsabilità delle scuole secondarie e superiori, ho a che fare con presidi che vengono a lamentarsi: manca questo, manca quest’altro, bisogna ristrutturare la mia scuola… E io dico finiamola di parlare di scuola, parliamo di parcheggi attrezzati. In una scuola s’immagina che ci sia un percorso formativo, che ci siano dei cambiamenti…"
Così dovrebbe essere!
"L’anno scorso è capitato un episodio in una scuola di Aversa, un ragazzo dell’ultimo anno ha accoltellato un suo compagno di classe. Allora ho chiesto al preside, scusatemi ma a che cosa sono serviti tanti anni di scuola? Se io ho fatto cinque anni di elementari, tre di media, cinque di superiori, e alla fine prendo un coltello e lo infilo nella pancia di un compagno, qualcosa che non ha funzionato in questo percorso ci deve pur essere".
Che cosa?
"Ricordo una vignetta americana, due bambini davanti all’asilo in attesa di entrare, passa un aereoe uno dei due dice <questo è un Falcon>, e l’altro gli risponde <vola a velocità mach 2,5>. Poi suona la campana e un bambino dice all’altro <adesso andiamo a scuola a infilare perline>. Questo per segnalare la distanza che oggi c’è fra la società e i progressi di diffusione della conoscenza, le velocità di apprendimento e la scuola. Probabilmente la scuola del futuro sarà una scuola capace di organizzare quelle conoscenze che il soggetto ha, la grammatica che uno già conosce ma non sa riconoscere,la sintassi che già possiede ma non sa di possedere".
Come vede l’autonomia della scuola?
"Autonomia significa che sono i presidi e il corpo docente a organizzare la scuola, avendo anche la possibilità di sperimentare. Il problema è che abbiamo un corpo docente formato a un livello di formazione dove da un lato ci sono i detentori del sapere e dall’altro i recettori. Mentre probabilmente non è più così, oggi sono i giovani che insegnano agli anziani, perché sono loro che sono più aperti ai mezzi di comunicazione di massa, che leggono di più i giornali… Io ho fatto una ricerca sulla lettura del giornale, scoprendo che se c’è un pezzo di società in cui l’uso del giornale non è diffuso è proprio il corpo docente. Ma io dico come si fa a insegnare se non si legge almeno un quotidiano al giorno? Come Provincia abbiamo fornito i giornali alle scuole. Il risultato era che un ragazzo leggeva un articolo e poi commentava, ma non è questo, il giornale deve diventare pane quotidiano, fornire documentazione, ma come lo vai a spiegare a un professore che il giornale nemmeno lo compra. Tanto sono tutte sciocchezze, dice, non mi interessa la cronaca, non mi interessa la politica, e questa è la classe docente. Su un milione di insegnanti, che ne saranno 200 mila bravi, il 20 per cento e non di più. Io conosco insegnanti bravissimi, ma molti di loro farebbero meglio ad andarsene a casa".

Il maestro di Val di Vico

I ricordi di Mario Ruggii, un insegnante che mezzo secolo fa cominciò la sua vita professionale in una minuscola scuola di campagna, nei monti sopra Cortona fra Toscana e Umbria – Una sola aula, due turni, cinque classi e alcuni chilometri da percorrersi a piedi: ma quella esperienza fu arricchita da una intensità di rapporti umani totalmente estranea alla scuola "modulare" di oggi – Quando l’insegnamento elementare era una professione "anche" maschile


"Ecco, guardate, la porto sempre intorno al collo. E' una catenina d'oro con una medaglietta. Leggete che cosa sta scritto nella medaglietta: "Con affetto la classe Vª al suo maestro – 1985". Dopo cinque anni di scuola passati con me, quei ragazzi non potevano manifestare meglio il desiderio di essere ricordati. Oggi, nella scuola dei moduli, può accadere tutto questo?"
Nella sua casa di Mercatale, su quella parte della montagna cortonese, nella provincia di Arezzo, che manda le sue acque verso il Tevere, Mario Ruggiu rievoca una esperienza scolastica che si è protratta per oltre quarant'anni, e in particolare ricorda con accorata nostalgia la "sua" scuola, quella degli inizi.
"Cominciai a insegnare nell'anno scolastico 1947-48, quando fui destinato alla scuola che avevano appena aperto a Val di Vico. Era una cosiddetta scuola sussidiata, uno di quegli istituti che ricevevano sovvenzioni dal Comune e un contributo dal provveditorato proporzionale al numero di alunni".
Quella scuola, o per la precisione l'edificio che la ospitava, esiste ancora: c'è una sola aula ormai trasformata in deposito di attrezzi, entrandovi si ha l'impressione di visitare la scuola di Pinocchio. Uno degli alunni che vi hanno fatto le elementari, Guido Mammoli, mostra lo spazio fra due finestre dove stava la cattedra e la parete cui stavano appese le carte geografiche. Mammoli era un alunno privilegiato, visto che abitava e tuttora abita proprio qui, a Val di Vico. Non doveva dunque, come il maestro Ruggiu che saliva ogni mattina da Mercatale, affrontare i due chilometri e mezzo di curve e sassi, per i quali ancora oggi serve il fuoristrada.
Come ci arrivava lassù?
Io quella strada la facevo a piedi. Mica erano tempi di scuolabus: a piedi arrivava anche la maggior parte dei bambini, alcuni facendo itinerari anche più difficili. Per esempio quelli che venivano da Montemaggio, oltre il crinale, che d'inverno andavano a scuola marciando con la neve o il fango al ginocchio. Proprio per questo, per evitare ai piccoli disagi troppo gravosi, molti genitori li mandavano in prima più tardi, oltre l'età scolastica, quando erano più grandicelli e più robusti. Il mio primo anno a Val di Vico ebbi a che fare con una prima che comprendeva bambini di sei, sette, anche otto anni. C'è stato anche, più tardi, chi ha cominciato a quattordici. Le bambine poi, ce ne voleva per convincere i genitori a mandarle fra i banchi! Qualcuno diceva, in fondo sono femmine, che se ne stiano a casa...
Come era organizzata la scuola di Val di Vico?
Ovviamente con il sistema pluriclasse: avevamo un turno la mattina, che comprendeva la seconda e la terza, e un turno pomeridiano per i piccoli della prima. Più tardi, quando da sussidiata la scuola divenne statale, furono aggiunte la quarta e la quinta. Di per sé il lavoro nelle pluriclassi stimolava la creatività e la fantasia, era un lavoro "artigianale" che alla fine dava al "costruttore" l'intima soddisfazione e il merito della crescita morale e culturale degli alunni. Non era, come la scuola attuale, una catena di montaggio dove ciascun insegnante applica il proprio pezzo. Era una scuola che non faceva parte del sistema tecnologico, era fatta piuttosto di molto calore umano. Pensi che a volte nelle scuole di campagna, quando fra prima e quinta il numero complessivo non superava una certa soglia, c'era un solo insegnante per tutte e cinque le classi. Si organizzava il lavoro scegliendo argomenti uguali per tutti, che ogni gruppo svolgeva secondo il proprio livello di apprendimento.
E' un sistema che lei considera di per sé più formativo?
Era più formativo il tipo di impegno degli insegnanti, il loro entusiasmo. Diceva un vecchio direttore didattico della Calabria che quando lui andava alla scuola elementare la lezione iniziava con la preghiera e poi con un'aggiunta: "Veniamo a scuola per imparare a leggere, a scrivere, a far di conto e ad essere galantuomini". Un modo e una terminologia di tanti anni fa ma che, pensandoci bene, non si dovrebbero, alla luce dei fatti, gettare nel cestino. Inoltre è importante ricordare che il compito della maestra (o maestro) nelle scuolette di campagna non si esauriva al termine delle lezioni ma si protraeva nel resto della giornata.
Oggi sarebbe impensabile, e non solo per ragioni sindacali...
Proprio così. E' finito da un pezzo un certo ruolo sociale dell'insegnante, che non si limitava a educare i figli ma a volte si alternava al prete nel consigliare i genitori, li aiutava a scrivere una lettera. Questo era tipico dei paesi e della campagna, e si tratta di un ruolo superato fra le altre cose dal pendolarismo. Oggi la maestra, e persino il medico, il farmacista, abitano lontano e arrivano ogni giorno in auto per trattenersi secondo l'orario di lavoro. Non c'è più il professionista residente di una volta, che si incontrava al bar e rappresentava una occasione di scambio e di arricchimento. Sarà per questo che stiamo diventando più rozzi...
Lei parla di maestra, dunque di un ruolo tipicamente femminile.
Ai miei tempi l'insegnamento era una professione anche maschile. Ricordo certe riunioni a Cortona di tutti gli insegnanti della zona, davanti le maestre tutte vestite a festa e noi uomini dietro: eravamo più o meno in pari numero. Poi è diventata quasi un'esclusiva dell'altro sesso, soprattutto alle elementari, ma ormai gli uomini stanno scomparendo dalle medie e credo che fra un po' scompariranno dagli istituti superiori: insomma sta diventando un matriarcato. Secondo me la scuola, che pure deve molto alle qualità femminili, ha perduto qualcosa rinunciando a una adeguata rappresentanza maschile. Andava molto meglio quando c'erano uomini e donne.
Torniamo a Val di Vico: fino a quando rimase aperta quella scuola?
L'ultimo anno scolastico fu il 1967-68. Poi arrivò il cosiddetto consolidamento, cioè i pochi alunni che ancora gravitavano lassù furono fatti venire a Mercatale. Si può dire che quella piccola scuola rurale fu chiusa per la concomitanza di due ragioni: la tendenza organizzativa che portava appunto a "consolidare" le sedi accentrandole nelle località maggiori, dove fra l'altro potevano disporre di attrezzature e sussidi didattici, e il fatto che la montagna si andava gradualmente spopolando.
Nel corso del suo arco di esperienza professionale, lei è passato in pratica dalle pluriclassi con insegnante unico alle monoclassi con insegnanti plurimi...
Non esattamente. Io sono andato in pensione nel 1989, quando i moduli non si erano ancora di fatto realizzati. E' un sistema che non mi va, se non altro per il fatto che la sua introduzione mi è parsa dettata non da ragioni pedagogiche ma piuttosto da motivazioni sindacali: si trattava infatti di sistemare del personale in soprannumero. E poi condivido la critica di chi sostiene che, nelle prime classi, il bambino che proviene dalla materna o dalla famiglia ha bisogno di vedere nell'insegnante la proiezione di una figura familiare. Trovarsi a che fare con più maestri rischia di rendere ancora più duro l'impatto con la realtà scolastica.
 
La scuola non produce bulloni
 
Un documento approvato dal Collegio dei docenti della V Scuola media statale di Maddaloni (Cosenza) nel quadro della consultazione nazionale relativa ai contenuti essenziali per la formazione di base – L’accento sull’autonomia e sulla specificità di una istituzione che non deve essere considerata semplice "pezzo" dello Stato da far funzionare a costi ridotti
 
Pur condividendo l’opinione che in una società post-moderna, qual è la nostra, la soluzione dei problemi non possa prescindere dalle reali dinamiche sociali,tuttavia sembra strano che un’ipotesi di riassetto del sistema formativo non parta dalla considerazione fondamentale che la Scuola è essa stessa, nella sua autonomia e nella sua specificità, il centro motore di una società in evoluzione. Il fatto che la discussione sul riordino della scuola italiana parta dall’Art. 21 della legge Bassanini dimostra che in realtà si nega tale specificità, tale autonomia, assimilando così la Scuola ad uno dei "pezzi" dello Stato da riformare per renderlo più efficace ed efficiente a costi ridotti. Tale impostazione sembra ricondurre all’idea di un sistema scolastico paragonabile ad un’azienda. La Scuola, tuttavia non produce "bulloni"! La Scuola è il luogo dove si "produce" cultura, intesa come la più alta espressione dello Spirito umano! E’ il luogo ove si insegna a pensare e ad essere prima di tutto donne e uomini, portatori di forti valori condivisi, ancor che tecnici, professionisti, operai e via dicendo. Certamente siamo convinti che la Scuola non debba essere un’oasi felice, autoreferenziale, in cui il "sociale" venga ignorato, come talvolta avviene; ma collegare la Scuola al territorio, farla interprete delle aspettative della società non vuol dire appiattirla sulle emergenze sociali, perdendo di vista la sua specificità valoriale, a danno dell’"EDUCERE". La pur necessaria introduzione delle moderne tecnologie informatiche deve essere finalizzata a dotare le nuove generazioni di strumenti di analisi critica della realtà tali da porle al riparo dall’influenza, talvolta nefasta, di agenzie pseudoeducative. In rapporto ai contenuti (non si fa confusione con obiettivi?) non si tratta di fondare nuovi saperi, quanto di sperimentare e adottare modelli didattici (D.B., Didattica per concetti, ecc.) che permettano, attraverso lo snellimento dei programmi, di recuperare il valore epistemologico delle discipline. Suggeriamo la costituzione di una commissione formata innanzitutto da "addetti ai lavori" (docenti, presidi, rappresentanti di associazioni professionali, sindacali, ecc.), da rappresentanti dei genitori e degli studenti, che, forse, con maggiore accortezza sapranno evidenziare le necessarie modifiche da apportare al sistema scolastico nazionale senza trascurare gli aspetti della professionalità degli operatori della scuola e il relativo inquadramento economico-giuridico.

 

La salute come obiettivo educativo

Dall’articolo 32 della Costituzione ("La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività…") alla legge che affida alla scuola il compito di educare alla salute – Si tratta non di un bene privato ma di un bene che è insieme diritto e dovere: di un bene da produrre, da conservare, da godere ma anche da investire e di cui rendere conto a se stessi e agli altr

Proseguiamo la pubblicazione delle relazioni svolte al convegno di studi sul tema L’evasione scolastica, una sfida per la società, organizzato ad Arezzo dalla LAPIS il 25 e 26 ottobre 1997. In questo numero la parte conclusiva dell’intervento del prof. Luciano Corradini, presidente dell’Unione cattolica degli insegnanti medi

L’avvento del rischio-droga ha indotto il Parlamento, prima degli anni ’70, con la legge 685/1975, poi negli anni ’90, con la legge 162/1990, ad affidare alla scuola compiti di prevenzione delle tossicodipendenze, ossia, con formula più impegnativa, "attività di educazione alla salute e di informazione sui danni derivanti dall’alcolismo, dal tabagismo, dall’uso delle sostanze stupefacenti o psicotrope, nonché dalle patologie correlate" (art. 104, DPR 9-10-90, n. 309; art. 326, D.Leg.vo 16-4-1994, n. 297). Questa semplice proposizione ridefinisce i compiti della scuola, affidando precise responsabilità a dirigenti e docenti e prevedendo anche contributi finanziari. Superando le diatribe di carattere teorico sulle funzioni della scuola, la legge le attribuisce chiaramente il compito di educare, dal momento che la sola informazione in proposito è ritenuta necessaria ma non sufficiente. Che cosa sia l’educazione alla salute e come si possa realizzarla, la legge non definisce con chiarezza, perché da un lato dice che "le attività di cui al comma 1) s’inquadrano nello svolgimento ordinario dell’attività educativa e didattica, attraverso l’approfondimento di specifiche tematiche, nell’ambito delle discipline curricolari"; dall’altro parla dell’"incentivazione di attività culturali, ricreative e sportive, da svolgersi eventualmente anche al di fuori della scuola", di "iniziative da realizzare nell’ambito dell’istituto, con la collaborazione del personale docente che abbia dichiarato la propria disponibilità", sulla base delle proposte formulate da "gruppi di almeno venti studenti". Rinviando ad un apposito comitato scientifico-tecnico il compito di approfondire, tra l’altro, le tematiche della pedagogia preventiva, e al Ministero della PI il compito di "coordinare e promuovere le attività di educazione alla salute", la legge riconosce che la materia è ancora allo stato fluido e mostra chiaramente di voler aprire un discorso, piuttosto che codificare procedure operative in termini rigidi. Il processo di attuazione della legge è avviato, anche se con incertezze e reticenze. La posta in gioco è notevole: riguarda la possibilità di concorrere in modo provveduto ed efficace sia alla prevenzione delle patologie che minano la volontà/capacità di affrontare i compiti vitali del nostro tempo, sia la possibilità di rinnovare la scuola senza sconvolgerla nella sua antica e insostituibile ragion d’essere. Per questo è importante seguire l’esperienza in atto, cercando di cogliere le resistenze e le iniziative delle scuole, al fine di comprendere le implicazioni della tematica del disagio e della salute per l’educazione scolastica, superando gli equivoci e le polarizzazioni polemiche di chi non ricorda il classico primum vivere, deinde philosophari. Anziché bene privato da consumarsi a piacimento, la salute si va manifestando come un bene radicale, che è insieme diritto e dovere, o meglio un bene da produrre, da conservare, da godere, ma anche da "investire" e di cui rendere conto a se stessi e agli altri. In quanto condizione e sintesi di valori, la salute non è solo affare del singolo, né solo dello Stato, né solo delle istituzioni specialistiche. Essa diventa un asse valoriale, che comporta un nuovo modo di guardare la società, di fare cultura, educazione, politica: un nuovo modo di vivere, non solo di affrontare e di curare le malattie. Che tutte le istituzioni ne siano chiamate in causa, non è solo dovuto all’emergenza droga. Si può ricordare che la nostra Costituzione recita all’art. 32: "La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti". Questo impegno assume il ruolo di chiave di volta nei rapporti etico-sociali dell’architettura costituzionale, dato che si colloca fra gli artt. 29 ("La Repubblica riconosce i diritti della famiglia") e 30 ("protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù") e 33 ("detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi"). Se la salute è la capacità dell’uomo di star bene con se stesso, con la propria cultura, con le proprie istituzioni, a condizione che sappia aprirsi agli altri, alle loro culture e a istituzioni sempre più tra loro interdipendenti e solidali, la scuola può e deve concorrere, insieme con la famiglia, a promuovere questo tipo di salute, senza temere di perdere la sua specificità di istituzione formativa centrata sulla trasmissione e sull’elaborazione della cultura. Di fatto, lo sappia o no, la scuola è per i giovani un’istituzione ambivalente che ha a che fare con l’umore, con l’emotività, ma anche col senso complessivo della vita: come l’antico pharmacon, la scuola è veleno e medicina. La presa di coscienza della valenza "patogena" e della valenza "salutare" del proprio lavoro comporta una nuova legittimazione sociale e un rinforzo ideale, simbolico e funzionale del proprio compito. Letterati e registi ne hanno messo in luce la tragicità: essa vive in funzione del futuro, ma non può dimenticare l’attimo fuggente: è sollecitazione a godere la giovinezza che fugge, invito al carpe diem, ma è anche offerta di ragioni che inducano a guardare lontano e a soffrire per qualcosa che vale più del piacere dell’oggi. Senza gioia e sofferenza, senza razionalità e sentimento, che scuola sarebbe? Il Ministero della PI ha proposto, come strumenti di attuazione di una politica di educazione alla salute, un complesso di iniziative che vanno sotto il nome di Progetto Giovani 2000, Progetto Ragazzi 2000, Progetto Genitori, Progetto Arcobaleno, C.I.C., centri d’informazione e consulenza. Identità personale, solidarietà, protagonismo sono le categorie guida di queste iniziative, che ogni scuola è invitata a predisporre in attuazione della legge, potendo concorrere al finanziamento previsto dalla legge, attraverso progetti da presentarsi ai provveditorati agli studi. Si è trattato, fin dal 1991, di anticipazione della logica dei PEI (progetti educativi d’istituto) e della relativa "carta dei servizi scolastici". La rete dei docenti referenti d’istituto e le risorse previste per la lotta contro la dispersione scolastica, la direttiva 133/1996 sulle iniziative complementari e le attività integrative, che prevede anche i comitati e le consulte provinciali degli studenti (divenuta DPR 567/1996 per iniziativa di Berlinguer), la direttiva 58/1996 (sulle nuove dimensioni formative, l’educazione civica e la cultura costituzionale), inviata da Berlinguer alle scuole nello scorso ottobre, la direttiva 600 del settembre scorso sull’educazione alla salute e soprattutto la prospettiva aperta dalla legge 59/97 sull’autonomia delle scuole costituiscono un corpus di norme che consentono alla scuola di muoversi con chiarezza di idee e con modesta ma non indifferente disponibilità di risorse in una direzione che si è rivelata feconda, solo bisognosa di fiducia, di promozione e di governo integrato delle "educazioni", come dice la direttiva 331/1997 sull’attività amministrativa del ministro Berlinguer, nei paragrafi 1° e 14°. In conclusione, le lotte contro il "mal di scuola", dal disagio alla dispersione, dalla demotivazione alla droga, vanno combattute nella prospettiva della valorizzazione del patrimonio di cui la scuola dispone: le sedi scolastiche, le discipline, le competenze dei docenti, le relazioni interpersonali, le iniziative culturali, sociali, sportive, ricreative: tutte queste "risorse" sono più o meno ricche, a seconda della fortuna e delle virtù da cui dipendono. Le leggi e le norme sono opportunità, in certo senso pretesti per conferire valore aggiunto ad un’istituzione indubbiamente in difficoltà, che dispone tuttavia di un "tesoro nascosto", di cui non sempre conosce l’esistenza. Ragazzi e giovani non si è solo per ragioni anagrafiche: lo si diventa anche andando ad una scuola buona e sana, accogliente e interessante, o almeno credibile e decente.

                                                                                            ( 4 – continua )

 

 

                                          

                                                                                      

 

 

                                                                                                

 

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