FOGLIO LAPIS - OTTOBRE- 2022

 

A lungo ritenute un efficace strumento pedagogico, le punizioni corporali attraversano la storia dell'istruzione. Fu la Polonia, nel 1783, il primo paese ad abolirle. In un istituto svizzero si tenta un'altra strada piuttosto singolare, quella delle sanzioni pecuniarie

 

Triste destino quello di Lucio Orbilio Pupillo (noto semplicemente come Orbilio) perché l’essere stato il precettore di un allievo famoso come il poeta latino Orazio lo ha consegnato alla storia con l’immagine ed emblema dell’educatore rozzo e violento. I suoi metodi educativi incentrati su punizioni e castighi corporali indussero Orazio ad appellarlo con il termine di plagosus, ossia manesco, colui che provoca ferite. Questo a testimonianza che le punizioni corporali vennero utilizzate fin dall’antichità come strumenti educativi ritenuti giusti o addirittura consigliabili. Unica voce fuori dal coro quella di Quintiliano che non le condanna ma, semplicemente, le ritiene inutili e potenzialmente dannose per la crescita psicologica del fanciullo.

Anche all’alba della scuola moderna, fine Quattrocento ed inizio Cinquecento, i concetti di premi e punizioni sono un tema ricorrente delle principali scuole pedagogiche e fanno parte del corredo professionale degli educatori di ogni ordine e grado. La punizione, così come il premio, di solito veniva somministrata alla presenza degli altri allievi, unum castigabis, centum emendabis, seguendo un rigoroso e metodico cerimoniale ed era proporzionale alla gravità della colpa. Per dirla con termini giuridici la dottrina generalmente accettata era in loco parentis, ossia si riteneva che la scuola avesse sui minori gli stessi diritti delle famiglie.

Il Settecento sulla scia di nuove idee che iniziavano a farsi strada sia in campo politico che sociale, una fra tutte quelle di Beccaria, intese l’infanzia come un’età da rispettare e valorizzare. Anche se accanto a figure eminenti come quelle di Rousseau e Pestalozzi, apertamente contrari alle punizioni corporali, altri pedagogisti preferiscono concentrarsi sulla loro distinzione fra legittime e illegittime. Sono sempre del Settecento le prime condanne sul loro impiego ed è nel 1783 che la Polonia, primo paese al mondo, le abolisce del tutto.

Qualcosa di simile iniziava a farsi strada anche da noi, ed infatti, l’art. 98 del Regolamento scolastico, pubblicato con il Regio Decreto 4336 del 15 settembre 1860, il primo dell'Italia unita, vietava “le parole ingiuriose, le percosse, i segni di ignominia, le pene corporali, come il costringere a star ginocchioni o colle braccia aperte, ecc".

Questo però non significò la loro completa eliminazione, ed infatti bacchettate, inginocchiate sui ceci e ceffoni continuarono ad essere utilizzati anche nelle scuole dell’Ottocento. L’idea di fondo di educare la mente e lo spirito disciplinando il corpo tardò ad essere abbandonata. Occorrerà attendere la scuola democratica perché sia, finalmente, messa al bando la violenza a scopi educativi. Anche se, in molti casi, la gerarchia, la disciplina, l’uguaglianza, le regole rischiano, se portate all'estremo, di soppiantarle, trasformandosi in meccanismi di prevaricazione tanto efficaci e potenti quanto subdoli.

A tal proposito definire originale la soluzione adottata dall’istituto svizzero di Aaran nel Canton Argovia, é dir poco: sanzione di dieci franchi svizzeri (poco più di dieci euro) agli studenti che marinano la scuola, arrivano in ritardo o si permettono di non fare i compiti. Tenendo presente che l’istituto è frequentato da circa tremila alunni ci vuole un attimo a raggiungere cifre ragguardevoli, infatti sembra che l’anno scorso si siano raccolti circa 70 mila euro distribuiti, ufficialmente, per attività collettive: uscite didattiche, gite o giornate sulla neve.

Le motivazioni di tali decisioni le fornisce la stessa dirigente scolastica, Margrit Bauman, alla RSI (Radiotelevisione svizzera): “i ragazzi devono imparare ad assumersi le proprie responsabilità”. A parte il dibattito che si potrebbe aprire su tale provvedimento, sulla mancanza di informazioni in merito a cosa succede a coloro che non pagano le multe e sull’impossibilità di poter tradurre tutto, soprattutto quando si parla di educazione, in moneta contante, quello che dovrebbe fare riflettere maggiormente è il fatto che solo il 5% dei discenti paga il 90% delle sanzioni, come ammesso dalla stessa direttrice.

Pur convinti di sbagliarci e di non essere sulla strada giusta, non possiamo esimerci dal chiederci: non sarà che a studenti particolarmente facoltosi il pagamento delle sanzioni invece di divenire uno stimolo per correggere il proprio comportamento ed un’occasione di crescita e formazione personale, rappresenti un modo per palesare il proprio stato sociale nei confronti della scuola e dei compagni? Perché se ciò fosse vero saremmo di fronte ad alunni che invece di evitare punizioni le rincorrono, in nostalgici allievi di Orbilio.

 

                                                                  c. p.  

 

 


                                                  

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