FOGLIO LAPIS - OTTOBRE 2002

 
 

Rinviare sistematicamente lo studio in famiglia, fa notare il pedagogista francese Philippe Meirieu, significa esaltare le disuguaglianze sociali e culturali – E’ abbastanza paradossale il fatto che la scuola tende ad allontanare da sé la sua funzione essenziale, cioè l’apprendimento, limitandosi a impartire lezioni da studiarsi dove non sempre le condizioni lo permettono – E’ evidente la necessità di un lavoro meglio coordinato fra insegnanti, studenti e famiglie

 

La scuola è un luogo in cui, troppo spesso, veniamo a cercare conoscenze per poi andarcene a studiare a casa nostra”. E’ uno dei lamenti emersi durante la consulta sulle scuole superiori francesi condotta nei primi mesi del 1998, un’indagine che coinvolse quasi tre milioni di studenti. Philippe Meirieu, insegnante e pedagogista, partecipò alla preparazione del questionario e all’elaborazione delle risposte. Eccone una che lo studioso francese considera essenziale: “A casa nostra siamo abbandonati all’ineguaglianza, all’ingiustizia e al caso. E’ a scuola che dobbiamo trovare le risorse in caso di difficoltà. Sono i professori a scuola che devono avere la possibilità di accoglierci quando non capiamo un esercizio o quando vogliamo far rileggere a qualcuno un compito prima di consegnarlo. Le aule di informatica, le palestre, i centri di documentazione devono rimanere aperti ben oltre le ore di lezione, week-end e vacanze comprese. Vogliamo poter essere accolti da adulti competenti, pronti a sedersi accanto a noi e ad aiutarci a studiare…”.

Nell’ambiente familiare, al quale invece la scuola – in Francia ma anche in Italia e più o meno dappertutto - delega queste funzioni, gli studenti si trovano di fronte una realtà precostituita e discriminante. C’è chi ha in casa libri di consultazione, computer, genitori in grado di dare una mano; chi al contrario deve fare i conti con familiari semianalfabeti, e magari è costretto a studiare in case risonanti di urla di bambini e televisori sempre accesi, senza potersi isolare per la necessaria concentrazione. La “pari opportunità” dell’aula scolastica, dove non c’è differenza fra un banco e l’altro e le stesse risorse sono a disposizione di tutti, viene completamente neutralizzata. E si noti che i ragazzi provenienti da famiglie disagiate sono già penalizzati dal fatto che i loro genitori, di solito, sono tutt’altro che assidui alle riunioni di classe o d’istituto e tendono a non avere rapporti con la scuola: proprio loro che più ne avrebbero bisogno.

Su questo tema dagli aspetti poliedrici il pedagogista francese ha scritto un libro che è uscito anche in traduzione italiana: Philippe Meirieu, I compiti a casa, ed. Feltrinelli. “Genitori, figli, insegnanti: a ciascuno il suo ruolo”: questo il sottotitolo. Meirieu sottolinea l’opportunità che la scuola occupi tutti gli spazi che le competono, senza deleghe in bianco a ambienti esterni, ma al tempo stesso che fra scuola e famiglia si instauri un gioco dialettico che salvi l’autonomia del soggetto. Il ragazzo cioè non deve sentirsi sballottato fra autorità diverse e a volte contrastanti, deve anzi crescere proprio affrancandosi gradualmente da entrambe, costruendo pian piano il proprio universo e la propria individualità.

Forte della sua esperienza di insegnante, Meirieu integra la sua critica di fondo al sistema dei rapporti scuola-famiglia con numerosi suggerimenti pratici. Invita per esempio a una costante pratica di applicazione degli apprendimenti teorici, che soltanto così potranno essere assimilati e non attraverso uno sterile “imparare a memoria”. “Ogni lezione deve costituire una risposta”, spiega citando Dewey: ma se questa risposta è mancata, cioè se il ragazzo non ha capito la spiegazione in aula, non è opportuno che cerchi di colmare la lacuna ricorrendo all’integrazione familiare. E non soltanto perché questo implica la discriminazione di cui sopra: il fatto è che la cosa migliore è chiedere all’insegnante di ripetere la lezione, di spiegarla meglio. E soprattutto, bando a quello che l’autore chiama accanimento pedagogico: la tendenza cioè a pretendere sempre di più senza interrogarsi sul come, a scommettere sulla quantità piuttosto che sulla qualità.

C’è un epilogo interessante, alla fine di questo libro, una lettera della moglie dell’autore. Esprimendosi sulla base della sua esperienza in famiglia, la signora Meirieu mette a fuoco un altro aspetto della delega implicita nella pratica dei compiti a casa: il fatto che il genitore chiamato all’assistenza extrascolastica è quasi sempre la madre. “A volte ti rammarichi, giustamente, dell’eccessiva femminilizzazione del corpo insegnante alle elementari e alle medie,… ma bisognerebbe forse rammaricarsi con altrettanta forza dell’assenza dell’intervento del padre nel campo dello studio, e si eccettua, naturalmente, il momento di guardare la pagella…”. Tanto più che gli insegnanti durante i colloqui con i genitori, insistono spesso sul fatto che “non bisogna essere troppo materne”!

 

                                                r.f.l.

                                

 

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