Dopo
gli “stati generali” e una laboriosa gestazione da parte del
governo, la riforma della scuola inizia il suo cammino, attesa da un
dibattito parlamentare che si annuncia assai serrato – Auguriamoci
che il confronto serva a migliorare il documento, soprattutto sul
punto centrale della divaricazione fra licei e formazione
professionale, e della “pari dignità” fra le due opzioni |
“Delega
al governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e
dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e di
formazione professionale”. Così la “riforma Moratti” presenta
se stessa nella titolazione del documento che il consiglio dei
ministri ha varato lo scorso 1 febbraio. E’ una formula che ci
sembra positivamente riduttiva, soprattutto rispetto alla grancassa
mediatica (“la prima grande riforma dopo Gentile”, è stato
detto…) che ha accompagnato la presentazione pubblica della
legge-delega. Si tratta insomma di appunti per una riforma possibile,
di un contenitore che attende i suoi contenuti.
Così
come a suo tempo avevamo salutato con favore la flessibilità
implicita nella legge Berlinguer-De Mauro sul riordino dei cicli,
purtroppo mai attuata a causa del cambio di maggioranza e di governo,
le molte riserve che abbiamo sulla linea Moratti sono compensate dalla
consapevolezza che il cammino della riforma è ancora lungo, e che
strada facendo norme generali e livelli essenziali potranno essere
migliorati. Auguriamoci dunque che l’imminente confronto
parlamentare non si traduca nel solito dialogo fra sordi, che la
maggioranza non sia una volta ancora paga di se stessa ma cerchi di
allargare il consenso, non rifiutando a priori i possibili contributi
del mondo accademico e di un’opposizione che sappia essere seria e
consapevole. In fondo è in gioco, prima ancora della fortuna politica
di questo o quel riformatore, di questa o quella riformatrice, il
futuro dei nostri ragazzi. Del nostro paese. C’è
intanto da dire che la legge-delega è piuttosto diversa dal progetto
preparatorio a suo tempo presentato dalla commissione Bertagna. I
mutamenti risentono di un dibattito interno fra le forze governative:
infatti in una prima versione, più vicina al documento della
commissione, la proposta Moratti era stata addirittura respinta dal
consiglio dei ministri, e la titolare del ministero dell’istruzione
(non più o non soltanto pubblica) dell’università e della ricerca
invitata a modificarla in alcuni punti. I principali riguardano la
scansione del primo ciclo di istruzione: non più quattro fasi
biennali, che di fatto sfumavano, avvicinandosi almeno in questo alla
legge Berlinguer-De Mauro, il confine fra elementari e medie
inferiori, ma due cicli biennali dopo la prima elementare e un biennio
di medie seguito dall’anno conclusivo. Altro
punto riveduto e corretto: la commissione Bertagna proponeva licei
quadriennali, una innovazione accolta da critiche generali, nella
legge-delega si torna ai tradizionali cinque anni. Inoltre viene
abbassata l’età minima per l’iscrizione (consentita per la scuola
dell’infanzia e l’elementare a chi compie rispettivamente tre e
sei anni entro il 30 aprile): ma qualcuno ha fatto un po’ di conti
(si consulti in proposito il sito www.tuttoscuola.com)
scoprendo che la misura costerebbe assai più del previsto creando
5400 nuove classi e il fabbisogno di 8100 docenti supplementari e non
dei 2550 indicati. Inoltre si provocherebbe nei primi anni un’onda
anomala difficilmente governabile. Ecco infine tornare trionfalmente
in auge la “valutazione degli apprendimenti e del comportamento”:
si tratta del voto di condotta, e certo sulla valutazione dei
comportamenti il discorso è apertissimo e insidioso. Ma
veniamo all’aspetto che più alimenta il dibattito e la polemica, e
che certamente infiammerà il dibattito in parlamento. Si tratta della
divaricazione fra liceo e formazione professionale, dell’opzione che
verrebbe imposta all’uscita dal primo ciclo, cioè dopo la terza
media. A quattordici anni di età, i nostri ragazzi si troverebbero
davanti a un bivio: da una parte l’istruzione di tipo liceale, con
la prospettiva universitaria sullo sfondo, dall’altra la formazione
professionale. E dovrebbero scegliere. “Chi è nato per studiare e
chi è nato per zappare”, ha titolato un quotidiano vicino
all’opposizione. Chi critica questo “posto di blocco” da
installarsi al termine della scuola media lo fa in nome della necessità
che a tutti siano garantiti i saperi minimi necessari per orientarsi
nella vita e nel lavoro. Lo fa in nome del principio di uguaglianza
delle possibilità. La forzata scelta rischierebbe infatti di
riflettere niente altro che le condizioni socio-familiari di origine,
perpetuando così l’attuale articolazione per censo e livello
culturale della nostra società. Inoltre sembra evidente che il
meccanismo vanifica, di fatto, quel prolungamento dell’obbligo
scolastico fino a 15-16 anni che ha recentemente avvicinato l’Italia
ai livelli medi europei. La strada ideale è evidentemente un’altra:
prima l’istruzione obbligatoria per tutti, e soltanto al termine di
questa tappa essenziale il bivio licei-formazione. Nella
proposta di riforma si parla di “pari dignità” fra licei e
formazione professionale, e della possibilità comunque garantita
(art. 2) di passare non solo da un indirizzo liceale all’altro ma
anche dall’uno all’altro dei percorsi alternativi. Ma se il primo
punto è tutto da vedere, in relazione a un’oggettiva
classificazione ben radicata nella percezione comune ma anche in
rapporto ai contenuti didattici e alla relazione fra scuola e mondo
produttivo, il secondo lascia davvero perplessi. Sembra infatti di
poter prevedere che quel traffico (proprio perché la “pari dignità”
non è altro, di fatto, che una bella espressione) sarebbe destinato a
svolgersi a senso unico. Liceali in crisi di rendimento che migrano
verso la formazione professionale, portandosi dietro improbabili
crediti umanistici. Più difficile immaginare il tragitto inverso:
ragazzi delusi da una vocazione artigianale troppo precoce che
lasciano le loro lezioni tecniche per affrontare il greco e il latino. Ancora
un punto. Si dice nella legge-delega (art. 2 e 4) che il secondo ciclo
(licei e formazione professionale) a partire dalla soglia dei quindici
anni potrà avvalersi dell’alternanza scuola-lavoro e
dell’apprendistato, affiancando alle lezioni tirocini e stages
aziendali. E’ importante che questa possibilità venga prevista non
solo per chi ha scelto la formazione ma anche per i liceali: si tratta
oltretutto di una buona misura nella direzione della “pari dignità”.
Peccato che questa vitale esperienza nel mondo del lavoro, essendo
successiva alla scelta fra le due strade, non possa servire da
orientamento per la scelta stessa. Del resto abbiamo sempre sostenuto
l’incomparabile valenza della tradizione artigianale italiana, i
pregi espressivi e culturali del lavoro manuale e della creazione di
risultati concreti. Ma si ha l’impressione che l’estensione di
questo contatto ai licei, in sé davvero apprezzabile, sia quasi
incidentale, fino a ingenerare il sospetto che si sia di fronte a un
omaggio non tanto ai fasti rinascimentali della “bottega”, quanto
a quelli certo più concreti ma non altrettanto fascinosi
dell’impresa. La terza delle tre I: ricordate? Scuola e impresa,
scuola-impresa: nel dibattito su questa riforma ci attende un paziente
lavoro di definizione e di difesa dei ruoli, delle priorità, delle
grandi finalità umane e sociali. Si tratta di stabilire se compito
della scuola sia la formazione di uomini e donne consapevoli di sé e
del proprio rapporto col mondo, o la creazione Alfredo Venturi |