Torna a Foglio Lapis - aprile 2001
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Dopo gli “stati generali” e una laboriosa gestazione da parte del governo, la riforma della scuola inizia il suo cammino, attesa da un dibattito parlamentare che si annuncia assai serrato – Auguriamoci che il confronto serva a migliorare il documento, soprattutto sul punto centrale della divaricazione fra licei e formazione professionale, e della “pari dignità” fra le due opzioni

 
Delega al governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e di formazione professionale”. Così la “riforma Moratti” presenta se stessa nella titolazione del documento che il consiglio dei ministri ha varato lo scorso 1 febbraio. E’ una formula che ci sembra positivamente riduttiva, soprattutto rispetto alla grancassa mediatica (“la prima grande riforma dopo Gentile”, è stato detto…) che ha accompagnato la presentazione pubblica della legge-delega. Si tratta insomma di appunti per una riforma possibile, di un contenitore che attende i suoi contenuti.

Così come a suo tempo avevamo salutato con favore la flessibilità implicita nella legge Berlinguer-De Mauro sul riordino dei cicli, purtroppo mai attuata a causa del cambio di maggioranza e di governo, le molte riserve che abbiamo sulla linea Moratti sono compensate dalla consapevolezza che il cammino della riforma è ancora lungo, e che strada facendo norme generali e livelli essenziali potranno essere migliorati. Auguriamoci dunque che l’imminente confronto parlamentare non si traduca nel solito dialogo fra sordi, che la maggioranza non sia una volta ancora paga di se stessa ma cerchi di allargare il consenso, non rifiutando a priori i possibili contributi del mondo accademico e di un’opposizione che sappia essere seria e consapevole. In fondo è in gioco, prima ancora della fortuna politica di questo o quel riformatore, di questa o quella riformatrice, il futuro dei nostri ragazzi. Del nostro paese.

C’è intanto da dire che la legge-delega è piuttosto diversa dal progetto preparatorio a suo tempo presentato dalla commissione Bertagna. I mutamenti risentono di un dibattito interno fra le forze governative: infatti in una prima versione, più vicina al documento della commissione, la proposta Moratti era stata addirittura respinta dal consiglio dei ministri, e la titolare del ministero dell’istruzione (non più o non soltanto pubblica) dell’università e della ricerca invitata a modificarla in alcuni punti. I principali riguardano la scansione del primo ciclo di istruzione: non più quattro fasi biennali, che di fatto sfumavano, avvicinandosi almeno in questo alla legge Berlinguer-De Mauro, il confine fra elementari e medie inferiori, ma due cicli biennali dopo la prima elementare e un biennio di medie seguito dall’anno conclusivo.

Altro punto riveduto e corretto: la commissione Bertagna proponeva licei quadriennali, una innovazione accolta da critiche generali, nella legge-delega si torna ai tradizionali cinque anni. Inoltre viene abbassata l’età minima per l’iscrizione (consentita per la scuola dell’infanzia e l’elementare a chi compie rispettivamente tre e sei anni entro il 30 aprile): ma qualcuno ha fatto un po’ di conti (si consulti in proposito il sito www.tuttoscuola.com) scoprendo che la misura costerebbe assai più del previsto creando 5400 nuove classi e il fabbisogno di 8100 docenti supplementari e non dei 2550 indicati. Inoltre si provocherebbe nei primi anni un’onda anomala difficilmente governabile. Ecco infine tornare trionfalmente in auge la “valutazione degli apprendimenti e del comportamento”: si tratta del voto di condotta, e certo sulla valutazione dei comportamenti il discorso è apertissimo e insidioso.

Ma veniamo all’aspetto che più alimenta il dibattito e la polemica, e che certamente infiammerà il dibattito in parlamento. Si tratta della divaricazione fra liceo e formazione professionale, dell’opzione che verrebbe imposta all’uscita dal primo ciclo, cioè dopo la terza media. A quattordici anni di età, i nostri ragazzi si troverebbero davanti a un bivio: da una parte l’istruzione di tipo liceale, con la prospettiva universitaria sullo sfondo, dall’altra la formazione professionale. E dovrebbero scegliere. “Chi è nato per studiare e chi è nato per zappare”, ha titolato un quotidiano vicino all’opposizione. Chi critica questo “posto di blocco” da installarsi al termine della scuola media lo fa in nome della necessità che a tutti siano garantiti i saperi minimi necessari per orientarsi nella vita e nel lavoro. Lo fa in nome del principio di uguaglianza delle possibilità. La forzata scelta rischierebbe infatti di riflettere niente altro che le condizioni socio-familiari di origine, perpetuando così l’attuale articolazione per censo e livello culturale della nostra società. Inoltre sembra evidente che il meccanismo vanifica, di fatto, quel prolungamento dell’obbligo scolastico fino a 15-16 anni che ha recentemente avvicinato l’Italia ai livelli medi europei. La strada ideale è evidentemente un’altra: prima l’istruzione obbligatoria per tutti, e soltanto al termine di questa tappa essenziale il bivio licei-formazione.

Nella proposta di riforma si parla di “pari dignità” fra licei e formazione professionale, e della possibilità comunque garantita (art. 2) di passare non solo da un indirizzo liceale all’altro ma anche dall’uno all’altro dei percorsi alternativi. Ma se il primo punto è tutto da vedere, in relazione a un’oggettiva classificazione ben radicata nella percezione comune ma anche in rapporto ai contenuti didattici e alla relazione fra scuola e mondo produttivo, il secondo lascia davvero perplessi. Sembra infatti di poter prevedere che quel traffico (proprio perché la “pari dignità” non è altro, di fatto, che una bella espressione) sarebbe destinato a svolgersi a senso unico. Liceali in crisi di rendimento che migrano verso la formazione professionale, portandosi dietro improbabili crediti umanistici. Più difficile immaginare il tragitto inverso: ragazzi delusi da una vocazione artigianale troppo precoce che lasciano le loro lezioni tecniche per affrontare il greco e il latino.

Ancora un punto. Si dice nella legge-delega (art. 2 e 4) che il secondo ciclo (licei e formazione professionale) a partire dalla soglia dei quindici anni potrà avvalersi dell’alternanza scuola-lavoro e dell’apprendistato, affiancando alle lezioni tirocini e stages aziendali. E’ importante che questa possibilità venga prevista non solo per chi ha scelto la formazione ma anche per i liceali: si tratta oltretutto di una buona misura nella direzione della “pari dignità”. Peccato che questa vitale esperienza nel mondo del lavoro, essendo successiva alla scelta fra le due strade, non possa servire da orientamento per la scelta stessa. Del resto abbiamo sempre sostenuto l’incomparabile valenza della tradizione artigianale italiana, i pregi espressivi e culturali del lavoro manuale e della creazione di risultati concreti. Ma si ha l’impressione che l’estensione di questo contatto ai licei, in sé davvero apprezzabile, sia quasi incidentale, fino a ingenerare il sospetto che si sia di fronte a un omaggio non tanto ai fasti rinascimentali della “bottega”, quanto a quelli certo più concreti ma non altrettanto fascinosi dell’impresa. La terza delle tre I: ricordate? Scuola e impresa, scuola-impresa: nel dibattito su questa riforma ci attende un paziente lavoro di definizione e di difesa dei ruoli, delle priorità, delle grandi finalità umane e sociali. Si tratta di stabilire se compito della scuola sia la formazione di uomini e donne consapevoli di sé e del proprio rapporto col mondo, o la creazione di forza-lavoro

                                                       Alfredo Venturi

FOGLIO LAPIS - MARZO 2002