Un po’ d’attenzione

Fra le priorità della stampa italiana i problemi della scuola non occupano certo una posizione adeguata alla loro importanza – Fanno notizia soltanto quando intorno a quelle tematiche si accapigliano i partiti: com’è il caso della disputa sulla parità – Tutto ciò non fa che accentuare il frustrante senso di marginalità che affligge molti operatori scolastici, a malapena attenuato da iniziative specifiche, come i supplementi settimanali o i tentativi di includere il giornale fra i materiali didattici

Il mese scorso i carabinieri del comando provinciale di Napoli hanno regalato al nostro paese un prezioso pezzetto di civiltà. Hanno infatti annunciato che a seguito di una complessa operazione di verifica in vari comuni di quella provincia, una fra le più disastrate in materia, era stato possibile scoprire e documentare alcune centinaia di casi di evasione scolastica. Così la magistratura competente ha avviato altrettante azioni giudiziarie: amministratori e genitori sono stati denunciati perché i loro figli, o i bambini affidati alle cure dei loro uffici, non ricevevano l’istruzione obbligatoria prescritta dalla carta costituzionale. Una bella notizia, non c’è che dire, di quelle che riconciliano almeno provvisoriamente con l’attualità: ma sulla stampa nazionale bisognava proprio andarla a cercare e non sempre con successo. Al massimo poche righe, perdute fra le varie “emergenze”: quella del freddo (a metà febbraio!), quella della delinquenza, subdolamente intrecciata con quella delle immigrazioni clandestine. E’ un vero peccato che una notizia come quella non abbia trovato sui giornali lo spazio che meritava. Siamo certi che avrebbe fatto piacere a molti lettori sapere che l’attualità napoletana non è fatta soltanto di scippi e camorre, e che le forze dell’ordine, sia pure impegnate sui fronti sanguinosi di una criminalità efferata e senza scrupoli, non trascurano il delitto imperdonabile di chi fa crescere al buio i propri figli. E di quegli amministratori che non sanno, o non vogliono, stanare gli evasori dell’obbligo scolastico, riportare i bambini a scuola e inchiodare i genitori alle loro responsabilità. Ma non solo per questo simili notizie andrebbero adeguatamente riportate. Anche perché la loro pubblicazione con appropriata evidenza varrebbe a sottolineare la gravità di quei comportamenti, a diffondere la consapevolezza che non curare la frequenza scolastica dei bambini è colpa grave, e ti espone ai rigori della legge. La stampa italiana ha altre priorità. Perché la scuola faccia notizia, bisogna che attorno a essa si accapiglino i partiti: come nel caso della parità e dei finanziamenti all’istruzione privata. Il difetto di informazione specifica è in parte legato al fatto che si privilegia ciò che accade rispetto a ciò che è: l’evento rispetto alla situazione. Anche perché l’evento, piuttosto che la situazione, si presta ai titoli a effetto, a quella drammatizzazione e a quel sensazionalismo che rendono così grossolanamente isterica la nostra stampa quotidiana. Fatte naturalmente le dovute eccezioni, del resto assai rare. Eppure le denunce di Napoli sono un fatto, eppure anche la scuola è una “emergenza”, concetto così appetibile alle redazioni. Ma sono fatti e emergenze che non fanno scandalo né producono morti, come le valanghe o le camorre. La scarsa fortuna della scuola sugli organi di stampa è fra gli elementi che contribuiscono alla marginalizzazione e al senso di frustrazione degli operatori dell’istruzione, alla loro rabbia e al loro malessere. Alcune recenti iniziative, come il lancio di supplementi settimanali dedicati precisamente all’attualità scolastica, se da un lato compensano le gravi lacune dell’informazione in materia, dall’altro accentuano quella che si potrebbe definire la ghettizzazione della scuola e delle problematiche che la riguardano. Esse non figurano infatti fra i grandi temi del dibattito nazionale, sono piuttosto confinate in un loro spazio un po’ fuori mano e accuratamente recintato. Tentiamo la provocazione: proviamo a immaginare un giornale che in prima pagina parli della scuola (e delle altre tematiche sociali) e che ogni settimana pubblichi un supplemento dedicato alla politica… Sembra poi così bizzarro? Un’altra iniziativa che in parte riscatta un sostanziale disinteresse di fondo è rappresentata dai tentativi di includere i quotidiani fra i materiali didattici. Letture in classe, commenti, ricerche. Pare che l’operazione, se ben condotta, abbia successo. Manon è facile condurla bene. Sia per i limiti per così dire tematici ai quali abbiamo accennato, sia per il fatto che non di rado gli stessi insegnanti hanno poca dimestichezza con la stampa, quindi con il saperla leggere e con il saper trasmettere questa capacità. Essa va infatti letta in positivo e in negativo. Registrando, e facendone oggetto di discussione, anche le lacune informative. Spiegando per esempio quanto sarebbe utile alla società italiana se i giornali facessero dei bei titoli altisonanti non solo sul fatto che in pieno inverno nevica, ma anche su quei carabinieri che fermano la fuga di Pinocchio e lo accompagnano a scuola.

 

                                                           Alfredo Venturi

 

Le ragioni della solidarietà

Nell’esperienza di Franco Bettoli, presidente del comitato esecutivo di Emmaus, la trasmissione dei valori solidaristici è affidata in primo luogo alla famiglia – Dalla scuola ci si dovrebbe attendere la lezione dell’onestà e della serietà – L’uomo che coordina le iniziative lanciate dall’Abbé Pierre concorda con il governatore Fazio: la società multietnica occasione di arricchimento

 

Si fa un gran parlare di solidarietà” – dice Franco Bettoli – “così che alla fine il termine rischia di perdere ogni significato. Secondo l’Abbé Pierre quello che è importante è l’onestà, ilfatto che ciascuno faccia seriamente il proprio lavoro”. Bettoli è il presidente del comitato esecutivo di Emmaus, il movimento che ricevette dal suo fondatore, l’Abbé Pierre appunto, la finalità evangelica di dare una casa a chi non ce l’ha. E’ dunque al vertice di una complessa organizzazione di tipo federale, articolata in “regioni” (Francia, Scandinavia, Resto d’Europa, Africa, Medio Oriente, India, Giappone, Sudamerica, Nordamerica), i cui rappresentanti (uno o due per regione) eleggono l’organismo di sette membri che una volta al mese, attualmente sotto la presidenza di Bettoli il cui mandato scade entro l’anno, si riunisce a Parigi. La solidarietà dunque. Grazie alla sua esperienza internazionale, il presidente di Emmaus ci sembra persona quanto mai appropriata per aiutarci a capire questo particolare universo.

Secondo lei, il valore della solidarietà viene trasmesso o ignorato dalla nostra scuola? Per esempio i volontari, dove acquisiscono questo valore? Nella scuola, in famiglia?

Riguardo alla mia esperienza personale, credo che debbo molto alla mia famiglia, una famiglia di gente povera. Io sono l’ultimo di nove fratelli, mio padre faceva il sellaio, mia madre era casalinga che aveva una vita difficile a causa dei nove figli. Gente povera, ma che viveva di valori religiosi, di solidarietà di fatto all’interno della famiglia. C’era una grande unione fra di noi e anche verso l’esterno”.

E la scuola?

Quello che mi ha indirizzato è stata soprattutto l’esperienza in famiglia. Nella scuola, ricordo la mia professoressa di francese, una donna anziana che aveva un grande amore per la Francia, una donna che non ho mai visto ammalata, se non stava bene veniva ugualmente a scuola, amava la materia che insegnava e oltre a questo trasmetteva serietà e solidarietà. Forse questo non ha nessuna relazione con la solidarietà di cui parliamo, parlo di serietà, di professori che amano la loro materia, che riescono a trasmettere questo amore e che ricordo ancora!”.

E questi ragazzi che fanno il volontariato, secondo lei dove lo apprendono?

Volontariato, è una parola che non mi piace molto. Vede, il nostro impegno di Emmaus, è una realtà dove si accetta chiunque venga. E’ gente che ha bisogno, non sa dove sbattere la testa, è nella strada… ecco, creare al nostro interno i volontari vorrebbe dire dividere i buoni dai cattivi, dai disgraziati… Quando io sono entrato in comunità la prima volta, vedevo questi miei primi compagni, scoprivo gente che aveva fatto la legione straniera, aveva fatto la galera e mi dicevo che cosa si può fare per gente così… Eppure sono stati loro che mi hanno aiutato a levarmi di dosso tutta questa superiorità, mezza spirituale, mezza di volontà. Scoprii in fondo della gente che non era venuta a Emmaus per solidarietà ma che mi insegnava il rispetto del lavoro, il rispetto della vita con gli altri, gente che aveva fatto una vita di sacrifici e di sofferenza e che accettavano una vita dura senza fare grandi discorsi… gente che viveva una solidarietà reale senza tanti bla bla… Quello che è importante è comunicare ai giovani esperienze di attenzione, di impegno. E amore per il lavoro, per l’onestà, come quella mia professoressa di francese che ci faceva sentire i dischi di Edith Piaf e amava noi studenti, ci rispettava”.

Anche chi si occupa della cosa pubblica dovrebbe amare il suo lavoro…

Certamente, la solidarietà può manifestarla anche un uomo politico, se svolge con onestà il suo ruolo, se considera importante alleviare la sofferenza. Non bisogna sempre maltrattare la politica o disprezzare l’uomo politico, perché l’impegno politico è un impegno serio. Ma coloro che vogliono fare politica devono prima dimostrare serietà nel loro lavoro, cercare i essere i primi, altrimenti non li prenderanno sul serio. Solo chi ha dimostrato onestà e serietà potrà essere un buon politico”.

Che cosa ne pensa del dibattito in corso sulla società multietnica, su quello che alcuni considerano un problema e altri, come il governatore della Banca d’Italia Fazio, una occasione di arricchimento?

Ricordo la prima volta che uscii dal mio piccolo mondo provinciale, Faenza, per entrare nei campi di lavoro di Emmaus ai quali partecipavano danesi, inglesi, spagnoli, svedesi. Era il 1967 e per me fu un’esperienza indimenticabile. Poi i viaggi con mia moglie, io sono sposato con una danese, lei protestante io cattolico, potei così sperimentare che non c’era poi tanta differenza, e che non era la religione a creare problemi. Nel ’72 andai in Bangladesh, adesso trovo i bengalesi qui, non avrei mai immaginato allora che un giorno avrei trovato i bengalesi in Italia. Poi l’Africa, il Burkina Faso che amavo e amo molto, perché c’è tanta ricchezza umana in quei villaggi. Ma i viaggi più belli sono stati gli ultimi, quando non c’era più la questione degli aiuti a dividere il donatore dal beneficiario, ma si erano instaurati rapporti di amicizia con i vecchi capi-villaggio. Ecco, ho potuto capire che anche nei popoli poveri c’è una grande ricchezza, che è bello incontrarsi…”.

Anche lei, come il governatore Fazio, pensa che è una ricchezza…

Che cos’è se non questo per il nostro Paese? In fondo le società più ricche sono multietniche. Le società più chiuse, penso ai giapponesi, agli svedesi, ai popoli che non hanno avuto molti scambi, sono quelle che hanno maggiori difficoltà, anche psicologiche. Sono popoli arroccati, popoli insulari. Io non sopporto le frontiere, i nazionalismi, i complessi di superiorità, questo trattare sempre gli altri, soprattutto i popoli africani o indiani, come dei paria, della gente inferiore… Io in Africa non ho mai avuto paura, mi sono trovato in certe situazioni, con la macchina guasta di notte e ho potuto vedere la gente che arrivava di corsa per darti una mano, per spingere la macchina… Credo che la nostra società abbia tutto da guadagnare dal contatto con questi popoli”.

 

 

Primo, apprezzare la vita

 

Secondo Stefy Puggioni, del gruppo dei “canticisti”, il bilancio spesso negativo dell’esperienza scolastica è legato al fatto che si dimentica una semplice realtà: il problema della sopravvivenza precede quello della cultura – Il sogno della scuola come luogo gradito e gratificante

Noi canticisti sardi abbiamo constatato che l’associazione Lapis è davvero un’idea grandiosa, indispensabile come guida per insegnanti, pedagogisti, assistenti all’infanzia, maestri, e per tutti coloro che vivono da vicino il mondo della scuola ed in modo particolare con i bambini. Noi canticisti, oltre ad occuparci d’arte, del lavoro (per i più adulti), dello studio (per i più giovani), abbiamo anche impegni quali: fare i docenti di catechesi, lavorare con alcuni bambini per realizzare un progetto teatrale. Siamo insomma quasi quotidianamente a contatto con i più giovani – i bambini appunto – considerati da noi come “il cuore, il motore, la luce, la pace, il bello ed il bene del mondo”. Ma purtroppo ognuno di noi – con esperienze diverse – si è reso conto che esistono molti bambini che vivono in situazioni di serio disagio. La cosa che ci ha stupito (ovviamente in senso negativo) è che la maggior parte dei bambini e dei ragazzi che vivono in situazioni precarie hanno della scuola un’opinione totalmente negativa; la considerano come “una perdita di tempo” o “una prigione”. Tant’è vero che i giudizi sul rendimento scolastico sono quasi sempre “insufficienti”. Vi porto l’esempio di un ragazzo di nome Mario, 15anni. (Analisi della situazione di partenza in italiano). “Possiede deboli tecniche strumentali; memoria labile; metodo di lavoro confuso; conoscenze frammentarie e meccaniche; difficoltà a scrivere un periodo coerente, chiaro e corretto; non lavora volentieri; non sempre è in grado di riferire ciò che legge”. Come fare per recuperare o almeno muoversi nell’intento di aiutare un ragazzo come Mario? Si potrebbero attuare delle attività miranti al recupero delle abilità di base, mediante conversazioni sul vissuto personale, esercizi di lettura facili, guida alla comprensione di testi brevi e non difficili, iterati esercizi di osservazione e descrizione secondo sequenze temporali, semplici riflessioni grammaticali, guida all’acquisizione di termini indispensabili per la comunicazione. Bisognerebbe possedere alcuni requisiti per poter lavorare con ragazzi che (fosse per loro) farebbero a meno della scuola, e sono: prima di tutto una certa flessibilità, la capacità di trasmettere i saperi in un clima di serenità. Bisognerebbe saper dare fiducia ai giovani attraverso il dialogo costruttivo, l’astrazione dovrebbe calarsi nell’immediatezza dei problemi che il ragazzo affronta a livello comunicativo, nel quotidiano; anche scrivendo una semplice lettera a un amico. Non bisogna allontanare i ragazzi in difficoltà o considerarli dei “casi a parte”, perché è piuttosto facile insegnare qualcosa a chi ha voglia di apprenderla, ma il vero “insegnante” non sarà forse quello che sa far amare la storia, la geografia, la matematica e la cultura in genere ad un giovane che preferirebbe trascorrere le giornate con amici, nei locali, ad ubriacarsi, a fumare o drogarsi, e che non crede in niente e nessuno? E’ un luogo comune guardare in faccia dei ragazzi considerati “difficili” – perché non attribuiscono alla vita il giusto valore, perché ignorano cosa siano valori come la famiglia, il rispetto, l’amore, la solidarietà, perché non sanno cosa voglia dire essere “felici” – e dire che è colpa della “società malata” in cui viviamo… Attenzione però… la società è composta da ogni singolo individuo e quindi da ciascuno di noi. “Per migliorare un mondo così grande è necessario che si impegni anche il più piccolo uomo”. E’ certamente indispensabile che laddove le famiglie non possano intervenire lo debba fare la scuola: non come quel “luogo dove si insegnano nozioni, teorie, eventi” – che rappresentano i capisaldi della cultura, utilissimi per tutte quelle persone che sono “sufficientemente attrezzate”… e che conducono una vita agiata sotto tutti i punti di vista, per cui apprezzano la cultura nel più vasto senso del termine – ma che, nella vita di alcuni giovani, raramente potranno rivelarsi utili. E’ perciò necessario che tutto il personale docente e non docente, compresi presidi, psicologi, pedagogisti, si impegnino per far sì che il ragazzo possa apprezzare la vita e dargli gli strumenti per superare gli eventuali ostacoli, utilizzando le capacità linguistico-espressive-espositive con un linguaggio semplice, non trascurando di dargli una visione problematica del mondo e delle cose, per favorire la crescita psicologica, culturale e sociale del giovane. Del resto io, giovane che trascorro le giornate a far uso di droghe, alcol, che mi chiedo che cosa ci faccio al mondo, come posso avere la speranza di una vota diversa e migliore imparando, per esempio, quando è nato e quando è morto Garibaldi o dove si trova l’Australia? Insomma non mi serve, se io non ho capito che il dono più grande che mi abbiano fatto è proprio la VITA, che essendo un grande e prezioso dono va custodita, protetta gelosamente, e che devo avere per essa le massime aspirazioni: devo cercare di realizzare i miei sogni, ognuno di noi ne ha, per alcuni si avverano e per altri un po’ meno. La vita è avvolta nel mistero ed il bello è proprio scoprire, giorno per giorno, cosa ci riserva il futuro… e solo dopo avere capito l’importanza di ogni essere umano ci si rende conto che per vivere meglio è necessario avere una cultura. Ma solo in un secondo momento, visto che il primo problema è la sopravvivenza. Per capire meglio il concetto basti pensare ai primi uomini comparsi sulla terra: hanno vissuto combattendo, lavorando, cercando acqua e cibo per sopravvivere e solo qualche secolo più tardi si sono posti domande quali “Chi sono?”, “Da dove vengo?”, e così via. Il vero problema è quello di realizzare la “scuola del benessere”, dove ogni individuo trovi la giusta accoglienza e si instauri un rapporto di reciproca stima ed ammirazione tra docente e discente ed una atmosfera che favorisca la collaborazione e che susciti il giusto entusiasmo, necessario perché si possa svolgere ogni attività didattico-educativa. L’idea è quella di una scuola paragonata ad un “Grande Albergo Gratuito”, dove l’individuo si deve trovare a suo agio perché dovrà trascorrervi gli anni più entusiasmanti della sua vita, la gioventù. Deve essere un periodi di estrema gratificazione per l’essere umano che deve crescere e dilatare i suoi orizzonti conoscitivi e ricevere un’educazione formativa che gli consenta di avere una visione ampia del pianeta… Ed ora, credo sia opportuno salutare ed invitare i lettori ad una analisi e ad una gradita replica sulle nostre riflessioni.

 

Stefy Puggioni

 

Vita da cavalletta

Fra le tante responsabilità che incombono su chi produce spettacoli destinati prevalentemente all’infanzia, ce n’è una troppo spesso ignorata: l’identificazione del bene e del male non già nei singoli individui, ma nei gruppi – Un suggerimento che può inconsapevolmente alimentare xenofobia e razzismo

 

A Bug’s Life, vita d’insetto: uno splendido film d’animazione che mostra fino in fondo quali siano le possibilità del computer applicato al cinema, quando questa tecnologia venga usata a supporto di ambientazioni suggestive e di storie convincenti. Come questa, che non a caso si ispira a illustri precedenti cinematografici, da I Sette Samurai a I Magnifici Sette. Ma c’è un neo che stona maledettamente, su questo esemplare prodotto disneyano da molti critici già consacrato come un classico del genere. Il neo consiste nel fatto che il male viene identificato non nelle individualità, ma in un intero gruppo, la specie nemica delle cavallette. Nella classe degli insetti, dunque, ci sono non individui buoni e individui cattivi, ma specie buone e specie cattive. Le cavallette, in questo caso, guidate da un capo di nome Hopper che sembra un truce boss mafioso, con la sua pretesa di riscuotere periodicamente un “pizzo” in natura dalla laboriosa comunità delle formiche. Non è una novità, nella cinematografia disneyana. In un celebre prodotto di pochi anni fa, Il Re Leone, la funzione dei cattivi era affidata indistintamente al popolo delle iene. Ma almeno, a attenuare il manicheismo di una così schematica distribuzione dei ruoli, le iene obbedivano a un individuo negativo interno alla specie, in sé buona, dei leoni: il perfido fratello e assassino del re. Tuttavia restava, nella mente ricettiva dei piccoli spettatori, l’attribuzione alle iene di tutte le possibili qualità spregevoli. E’ certamente superfluo notare come questa condanna sommaria sia improponibile in sé: per esempio gli etologi parlano di questi carnivori come di animali che vivono una intensa e affettuosa vita familiare. Non ho informazioni sui rapporti interpersonali delle cavallette, ma non ho ragioni per considerare questi insetti, oltretutto di bellissimo aspetto, come la personificazione del male. E’ vero che la cattiva fama di iene e cavallette non nasce certo oggi. I dizionari assegnano alle due parole anche sensi figurati non certo lusinghieri: dicesi infatti cavalletta “una persona molesta, dannosa e avida” (Zingarelli), e ha diritto all’epiteto di iena qualunque “persona crudele e vile” (ibidem). Forse qualcuno sosterrà che in fondo questa cattiva famose la sono cercata. Le cavallette e le loro strettissime parenti, le locuste, quando si moltiplicano diventano flagelli biblici. Quanto alle iene, si nutrono di cadaveri e mandano un odore decisamente sgradevole. E con questo? Noi, non ci nutriamo anche noi di cadaveri? Possiamo forse dire che il nostro prossimo emana sempre delicati profumi? E le crisi da sovrappopolazione, non attraversano forse la storia umana, oltre che quella delle locuste? Bene, tutto questo andrebbe spiegato ai bambini, prima che su quelle tavolette di cera vergine che sono le loro memorie si fissino le equazioni iena uguale killer, cavalletta uguale racket. Perché queste equazioni, oltre a essere scientificamente imprecise, contengono un rischio di notevole gravità. Infatti potrebbero indurre, nella giocosa e faticosa costruzione del telaio di riferimento cui i bambini ancoreranno la loro visione del mondo, l’identificazione del male in gruppi omogenei di individui. In altre parole, potrebbero dare esca al germe della xenofobia, del razzismo. Bisogna considerare che, lo si voglia o no, i nostri figli vivranno in società multietniche: sarebbe grave se si abituassero fin da piccoli a considerare se stessi come i “buoni” assediati dalle torme dei “cattivi”. Bisogna sforzarsi di intervenire prima che le inevitabili approssimazioni cinematografiche (oltre a quelle evitabilissime: penso ai film popolati di indiani selvaggi o “musi gialli”, che i nostri eroi fanno cadere come birilli) abbiano impresso il loro marchio. Non neghiamo dunque ai bambini le belle favole disneyane, e nemmeno le storie di guerra o quelle del West: ma abituiamoli a ragionarci sopra. A capire i limiti, le esigenze semplificatrici dello spettacolo, ma anche l’iniquità di certe semplificazioni. A rifiutare i pregiudizi fondati sul colore della pelle, sulla nazionalità, sulla religione, a capire che non esiste una rigida classificazione delle qualità connessa al fare parte di questo o quel gruppo, a renderci conto della essenziale unicità dell’individuo, sia pure armoniosamente inserito nella sua comunità. Tanto per cominciare, aiutiamoli a “andare oltre”la vicenda che li ha appassionati: per esempio a considerare l’ipotesi che una cavalletta possa ribellarsi agli ordini di Hopper e unirsi agli insetti del circo che salvano il popolo delle formiche, o la possibilità che una iena si affezioni al piccolo Simba e lo aiuti a salire sul trono.

   

                                                                                     a.v.

 

Il veicolo ceco

 

Come la piccola Cecilia “è diventata sorella” – In principio è sempre la Parola – Gli rrori creativi collezionati da Gianni Rodari, dalla “novatrice” alla “tombulanza”: magnifiche invenzioni forse immerse in una loro “aria smogosa”

 

Per concepire qualcosa, bisogna partire dalla Parola: nostra sostanza incognita. In ogni situazione, la vera incognita non è la soluzione da trovare, ma la parola giusta da utilizzare. Spesso, questa parola va re-inventata. E il suo concepimento deve essere immacolato, senza macchia d’imitazione… altrimenti, siamo in Giappone! E la Fantastica sarebbe Imitastica. Ma è giusto che dagli occhi a mandorla fioriscano i mandorli quanti ne ho visti in Sicilia. La Parola è come una mandorla. Amàndola dalla màndola vengono fuori gli oggetti concepiti per l’uso. Non c’è alfa privativo che tenga! Lunedì 15 febbraio è nato a Cecilia un fratellino. A Monte San Savino. La bambina ha detto: “Ora sono diventata sorella”. Quando mai una bambina ha pensato una cosa come questa?… Diventare sorella è più che farsi suora! Badi che essa non sarà mai una badessa! Generalmente, l’Imitastica insegna  adire “sono diventata mamma”, “sono diventata zia”, “sono diventata nonna”. Mentre Cecilia, principiando la Fantastica, come una principina, una principessa (no una principiante), ha concepito una cosa formidabile dicendo: “Ora sono diventata sorella”. Il fratello di Cecilia si chiama Giovanni. Qualcuno gli ha detto in segreto, nello stesso istante: “Ecco tua sorella”. Perché la parola è eterna. E’ la nostra speranza incognita. Affermando questo, dovrei dire che in principio c’è la risposta. E’ come se sapessimo già tutto, ma questo “tutto” deve venir fuori parola per parola. Come? Soprattutto, esercitando, meglio, sviluppando la Fantasia con la Fantastica. La Fantastica non si insegna come la geometria a scuola. Ha ragione il professore Antonino Mangano di Messina, che proprio giovedì 18 febbraio, in casa sua, mi faceva osservare quanto sia improprio usare il verbo “insegnare” a proposito della Fantastica. Credo per questo: insegnare deriva da “insignare”, che significa “imprimere un segno”. Mentre la Fantastica esercita la Fantasia, che è un atto non una cosa. Si può “insignare” una lettera sulla lavagna col gessetto come una medaglia al petto, poi sparare come vere le cose più noiose, mentre la Fantastica è il motore del gioco in atto. E’ anche l’unico combustibile non inquinante…

E’ come una moto?

Forse!

Di che tipo?

Vediamo!

Ero a provarla, in gennaio, a San Giustino Valdarno. Nel tratto San Giustino Valdarno – Loro Ciuffenna. Ero con Gianni, mio maestro in poesia. Gianni è un maestro. E c’è un altro Gianni, un ragazzino di quinta, che chiamo Pinotto. Pinotto ha undici anni, occhi azzurri diacci d’assassino e i capelli gialli. Quando siamo insieme, mette in moto la Fantasia prima di tutti. Però scappa e rischia incidenti. C’era proprio bisogno d’una “vigile” brava, che venne da Loro. Per cinque giorni, dal 18 al 22 gennaio, si vide insieme a lei come utilizzare la moto senza far danni. Si iniziò come fan tutti, “insignando” i cartelli stradali, che – come ben sapete – sono “ideogrammi”, simboli grafici che rappresentano un’idea, non un valore fonologico. E fu così che arrivammo a ragionare sul cartello che riporta com una “T” che significa “strada senza uscita”. “Ho capito!” disse Pinotto: “…E’ un veicolo ceco!”. La vigile (è bruttissimo dire “vigilessa”, quanto “poetessa”) riprese Pinotto dicendo: “…Vorraidire: vicolo cieco!”. E guardò me che facevo Fantastica, e Gianni, il maestro. Io dico: “…San Giovanni ‘n vole ‘nganni!”. E scoppia una risata fragorante. Pinotto, come scappa uno scappellotto dalle mani, mette in moto il modellino di moto che s’è fatto a casa, che passa come un topo vicino alla vigile che non se l’aspettava. La vigile non fischia, ma diventa rossa. Giulianota che la vigile è diventata rossa, e blocca l’attenzione di tutti come un semaforo sul rosso. Per dieci minuti buoni – quasi il tempo d’un intervallo – tutti cominciano a tirar fuori le situazioni in cui una/o diventa rossa/o. Pinotto arriva al mare. E qui trova un Egiziano che lo ferma. Guido dice che anche le mele diventano rosse, ma non tutte. E dice d’un posto vicino a Loro dove ci sono. Alcuni compagni conoscono il posto, altri no. Alberto è stato in Egitto a Natale coi genitori. Ecco!… Siamo in un veicolo ceco! dico io. E propongo di rappresentarlo. Questo è il “veicolo cieco” di Pinotto. E’ stato realizzato con la tecnica della linoleografia. E’ semplice: Sopra una tavoletta di linoleum si “insignano” i contorni del soggetto. Si provvede, quindi, all’incisione, tenendo conto che nella stampa le immagini risulteranno ribaltate, per cui il bambino/a deve inciderle alla rovescia. “…Ora mi spieghi perché questo sarebbe un veicolo cieco?”, chiese la vigile a Pinotto. “…Non lo vedi?… Fa un tonfo di luce!”, rispose Pinotto. “…Sarebbe?”, chiese la vigile, cercando di essere più vigile che mai. “Perché t’acceca. E ti caccia in un vicolo cieco!”, le rispose Pinotto: “Ti caccia come un nottolo con la fionda!”. Diceva Gianni Rodari: “Ho chiamato una volta errori creativi quelli che rivelano un intervento dell’immaginazione e costituiscono una vittoria, magari provvisoria, sulla grammatica e sulla sintassi. Ne continuo la raccolta pian piano, senza stancarmi di suggerire ad altri lo stesso esercizio. Ecco una bambina che, parlando del fratellino appena nato, dice che è stato messo nella covatrice. Naturalmente bisogna spiegare  alla bambina che il nome giusto di quella macchina è incubatrice. Insomma, che ha capito male. Ma a noi deve pur essere chiaro che la sua mente non è rimasta inattiva perché aveva capito male e che, condensando in modo originale suoni e concetti diversi essa ha prodotto una parola incantevole. La stessa bambina ha scritto tombulanza per nominare l’autombulanza. Se ne sia accorta o no, essa ha fatto dell’umorismo nero a buon livello, attribuendo a quell’auto il compito di portare alla tomba. Ed ecco un ragazzo che parla, in un suo tema, di aria smogosa… Correggiamo, correggiamo!… Questo aggettivo non è ufficiale. Però è bello”.

 

                                                         Filippo Nibbi

                                                     (5- continua)

 

 

I limiti di una scuola monoculturale

 

La “cultura di primo grado” del ragazzo che porta le esperienze della campagna, o del mare, o della periferia urbana, viene sistematicamente ignorata e mortificata – Eppure si tratta di una grande risorsa per la scuola, di un patrimonio da cui è impossibile prescindere – Peremetterebbe fra l’altro lo scambio utile fra “conoscenza delle cose” e competenza linguistica – L’esempio dei grandi educatori illustrato dal prof. Antonino Mangano dell’università di Messina

Proseguiamo la pubblicazione delle relazioni svolte al convegno di studi sul tema L’evasione scolastica, una sfida per la società, organizzato ad Arezzo il 25 e 26 ottobre 1997. In questo numero la seconda parte dell’intervento del prof. Antonino Mangano, all’epoca direttore dell’istituto di pedagogia dell’università di Messina

 

A un altro problema vorrei accennare a proposito dell’abbandono. Quando il ragazzo non va bene a scuola, scatta inconsapevolmente nei suoi riguardi il meccanismo espulsivo dall’interno della scuola stessa. Sono spesso i docenti che l’abbandonano, che lo percepiscono inetto e scomodo, che in mille modi lo persuadono a ritirarsi. L’allievo abbandona la scuola dopo che la scuola ha abbandonato lui. Dopo che “riscalda il banco”, dopo che da più parti, compreso lo stesso soggetto, si constata la sterilità della frequenza, l’alternativa – talora seducente – non può essere che il lavoro. I docenti, fin dai primi giorni di scuola, quando si accorgono che alcuni ragazzi “profittano poco”, “si esprimono male”, commettono errori frequenti negli elaborati (soprattutto in italiano scritto), avvertono nei loro riguardi quella che viene chiamata aspettativa negativa (o effetto Pigmalione): li considerano, appunto, poco intelligenti e si aspettano poco da loro. Nei riguardi degli altri allievi invece, quelli ritenuti “bravi”, l’aspettativa è positiva. Una ricerca psicologica, di R. Rosenthal e L. Jacobson, dimostra che l’aspettativa dell’insegnante, positiva o negativa, è destinata ad autoadempiersi. L’aspettativa, infatti, influisce sui comportamenti e viene comunicata comunque all’allievo, anche in modo non verbale. I ragazzi intromettano la percezione che di loro stessi hanno gli insegnanti. Cioè fanno propria quella percezione,con risultati negativi allorché essa è negativa. Occorre adesso chiarire attraverso quali processi di natura didattica vengono a prodursi alcune difficoltà di apprendimento. In questa sede voglio solo accennare a due ordini di difficoltà:

1)      le difficoltà che colpiscono soltanto gli allievi di estrazione sociale “svantaggiata” o “marginale”: coloro che vanno incontro alle ripetente, agli abbandoni, ecc., e che configurano nel loro insieme il fenomeno della dispersione;

2)      le difficoltà che colpiscono gli allievi in generale, “svantaggiati” e non, e li colpiscono a qualsiasi livello del sistema scolastico.

Quest’ultima classe di difficoltà è quella per cui la scuola appare di solito alle ragazze e ai ragazzi come una tortura, e il lavoro scolastico – che potrebbe essere estremamente creativo e gratificante per docenti e discenti – acquista invece alcuni caratteri del lavoro alienante, viene rifiutato (o comunque accettato come un male necessario, in attesa della liberazione definitiva). A proposito degli allievi di estrazione sociale svantaggiata, vorrei ricordare i metodi di avanzamento collettivo nello sviluppo del “programma”, che prescindono dai bisogni reali degli allievi; ho ricordato in precedenza i processi di produzione dello stigma, per cui i ragazzi e le ragazze in difficoltà nell’apprendimento vengono considerati poco dotati, poco intelligenti, con le ulteriori conseguenze di autostigmatizzazione che ciò comporta. La costruzione e l’autocostruzione dello stigma passano però per molte vie: una di queste è la diversità culturale fra autoctoni, che si riscontra in ogni aula scolastica, a prescindere dalla presenza in essa di ragazze e ragazzi stranieri. C’è appunto una diversità culturale fra i cittadini italiani, poiché in alcuni di essi prevale la cosiddetta cultura locale e un linguaggio dialettale o dialettaleggiante, mentre altri rivelano maggior competenza nella cultura ufficiale e parlano meglio la lingua italiana, acquisita soprattutto in famiglia. La scuola, per la sua origine storica, per le concezioni e i comportamenti atomistico-competitivi vigenti al suo interno, è portatrice di monoculturalismo: considera cioè cultura solo quella ufficiale, formalizzata, e privilegia pertanto i portatori di quest’ultimo genere di cultura, svalutando decisamente il ricchissimo patrimonio presente nei ragazzi che qui ho chiamato svantaggiati; un patrimonio da cui è impossibile prescindere, astrarre, che costituisce invece una grande risorsa per la cultura scolastica, prima di tutto per ragioni di continuità e di condizionamento individuale nell’apprendimento, di contestualizzazione di quest’ultimo, secondo i “paradigmi” sistemico-relazionali della ricerca scientifica. “Diciamo che un fanciullo – scrivevo nel 1976 – è scolasticamente svantaggiato non in assoluto, ma relativamente a…”. Prendiamo ad esempio un fanciullo che vive in campagna. Egli ha esperienza dei cicli biologici come nessun altro fanciullo può avere, ad esempio: la nutrizione, la crescita e l’impollinazione delle piante; l’emigrazione, la riproduzione e la vita in genere degli uccelli; la metamorfosi di anfibi e insetti; il ciclo acqua, terra, aria, sole–mondo vegetale; il ciclo mondo vegetale-mondo animale; l’interazione mondo umano-mondo vegetale, mondo umano-mondo animale. Il fanciullo di campagna ha inoltre esperienza del mondo economico: produzione, trasformazione e distribuzione di ciò che all’uomo primariamente abbisogna. Egli ha nozioni di storia naturale più che qualunque altro fanciullo di ambiente diverso. E’ questa sua esperienza che l’insegnante molto spesso non ha e con la quale non può per nulla competere qualsiasi cultura verbalisticamente attinta ai manuali. Analogamente, chi appartiene a famiglie di pescatori o vive in contatto con questi ha esperienza di prima mano del vasto regno di Nettuno e di Eolo, ossia di quella vasta sfera di fenomeni biologici e fisici legati all’universo terra-mare-cielo. La nutrizione, la respirazione, la riproduzione, la migrazione della fauna ittica; la lotta biologica che ha luogo nel mare o gravita attorno ad esso; la fauna avicola che ne trae alimento; i complessi rapporti mare-uomo dal punto di vista strettamente biologico, commerciale, ecc.; le maree, le correnti, i venti, l’orientamento, i mezzi di navigazione e il dominio della sfera idrica da parte dell’uomo; le coste, l’erosione, i detriti trasportati dalle acque, gli agenti di inquinamento del mare: sono tutte esperienze acquisite attraverso l’interazione quotidiana del fanciullo con questo mondo ambientale e che potranno essere trasformate in cultura scolastica (scientifica, storico-sociale, linguistico-espressiva, ecc.) attraverso il procedimento della ricerca, della classificazione attiva dei fenomeni, della produzione e dell’arricchimento dei codici e degli strumenti espressivo-comunicativi. Esiste pure una vasta esperienza, diciamo pure una “cultura di primo grado”, nel mondo dei pastori, nel fanciullo della strada, nel sottoproletariato di periferia urbana. Gli erbari, acquari e terrari cui la scuola odierna tende ad avvicinarsi, non potranno mai sostituire la ricchezza di esperienza di chi, per esigenze di vita, si trova quotidianamente a contatto col mondo della natura e interagisce con esso. La costituzione di piccoli musei all’interno della scuola, le raccolte di minerali, le collezioni di insetti e di altri animali imbalsamati cui si cerca di ricorrere per sviluppare l’esperienza dei ragazzi, rendere attivo l’apprendimento e seguire un iter che va dal concreto all’astratto, dalla manipolazione alla concettualizzazione alla espressione multiforme e alla codificazione simbolica, sono già delle astrazioni, staccate in un certo senso dal vivo contesto del mondo naturale. Dalla cultura di questi ragazzi, i cui “elementi” non risultano a sé stanti, separati dalle relazioni che caratterizzano la realtà, la scuola avrebbe molto da apprendere. Essa cultura, inoltre, non giova soltanto a coloro che ne sono portatori, per un imprescindibile rapporto di continuità fra ciò che apprendono fuori dalla scuola e ciò che apprendono al suo interno. Giova anche ai coetanei di estrazione sociale diversa, per quello scambio di esperienza, di cultura vissuta, di “conoscenza delle cose” da un lato, di competenza linguistica dall’altro, che sono essenziali in qualsiasi apprendimento, compreso quello scolastico. Occorre precisare che grandi educatori e studiosi valorizzano ampiamente, in modo esplicito o implicito, la cultura originaria, l’apprendimento informale o extrascolastico dei ragazzi, il nesso della scuola con la natura e con la vita, la relazionalità di ciò che si apprende ossia il rapporto delle conoscenze col contesto, nella pluralità dei significati di questo termine. Voglio ricordare a titolo di esempio Dewey, le sorelle Agazzi, J. Piaget, P. Freire. Danilo Dolci concepisce qualsiasi forma di sviluppo a partire dall’interno del soggetto o della comunità impegnata nell’autosviluppo. Lo sviluppo economico ad es., per Dolci, deve rispettare la cultura locale e non può essere progettato al di fuori della comunità che si sviluppa, secondo un modello esterno, quello in atto, ad es., nelle metropoli industriali. Lo sviluppo va invece progettato e realizzato non per la comunità, ma con la comunità. La scuola sperimentale di Mirto, nella Sicilia occidentale, viene ideata attraverso molteplici riunioni, promosse da Dolci con i genitori degli allievi, con insegnanti di ogni ordine e grado di scuola, con ragazzi e studenti di diverse età. Essa sorge in mezzo alla natura, vicino alla montagna, dispone di alcuni ettari di prato e di colline. Don Dilani e i ragazzi di Barbina ricordano che la professoressa boccia Gianni perché non sa il nome del padre di Minerva, buttandolo così per la strada ed escludendolo definitivamente dai processi di acquisizione della lingua nazionale, di promozione della libertà e dell’eguaglianza, nei quali ogni scuola deve essere impegnata a norma della Costituzione. Don Dilani e i suoi ragazzi così si esprimono in proposito: “Agli esami di ginnastica il professore ci buttò un pallone e disse ‘Giocate a pallacanestro’. Non si sapeva. Il professore ci guardò con disprezzo: ‘Ragazzi infelici’ (…) Disse al preside che non avevamo ‘educazione fisica’ e voleva rimandarci a settembre. Ognuno di noi era capace di arrampicarsi su una quercia. Lassù lasciare andare le mani e a colpi d’accetta buttar giù un ramo d’un quintale, poi trascinarlo sulla neve fin sulla soglia di casa ai piedi della mamma”. “Ogni popolo ha la sua cultura – dicono i ragazzi – e nessun popolo ce l’ha meno di un altro. La nostra è un dono che vi portiamo: un po’ di vita nell’arido dei vostri libri scritti da gente che ha scritto solo libri”. “Questa è la cultura – soggiungono – che avrebbero voluto i poeti che (la professoressa) ama”.

 

 

                                                                               

                                                        ( 10 – continua )

                                                                                                            

 

 

                                                                                                     

 

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