Fra passato e futuro

Il messaggio sempre attuale del piccolo egizio vissuto ventitré secoli prima di Cristo – Dalla rigida rappresentazione che ci tramanda l’arte convenzionale del suo tempo, quel bambino sembra rivendicare il diritto all’attenzione per l’identità infantile – Agli adulti di ieri e di oggi il piccolo manda a dire una semplice verità: voi siete i padroni del mondo, ma noi siamo i detentori del futuro – Parafrasando l’abate Sieyès è facile rispondere alla domanda "che cos’è l’infanzia?" con una sola parola: "tutto"

Il bambino che vedete raffigurato qui accanto è vissuto nell’antico Egitto almeno quarantatré secoli fa. Per capirci: Cristo è più vicino a noi di almeno trecento anni. La sua immagine ci è stata tramandata secondo le rigide convenzioni che l’arte egizia destinò una volta per tutte alle rappresentazioni infantili: il corpo nudo colorato in ocra rossa, il capo rasato, l’indice della mano destra puntato alla bocca. Nonostante la rigidità della scultura, quel volto espressivo e quel gesto della mano sembrano volerci dire qualcosa. Che cosa? Quale messaggio ha attraversato questo sterminato abisso di 4300 anni? Cerchiamo di capire. Quello che si può dire con certezza è che quel bambino doveva appartenere a uno strato relativamente privilegiato della società: altrimenti nessuno si sarebbe curato di scolpire i suoi tratti, marcando quei lineamenti in modo così efficace. La sua statuetta lignea, rinvenuta a Giza nell’area delle grandi piramidi, accompagnava probabilmente i genitori nella sepoltura. Possiamo immaginare che il piccolo fosse figlio di un funzionario della corte faraonica, forse un architetto o uno scriba. Era con ogni probabilità un bambino, come dire, "scolarizzato": qualcuno, forse lo stesso padre, forse un maestro appositamente ingaggiato, si occupava attivamente di lui e gli insegnava i segreti del mondo. Quegli stessi segreti che i figli del popolo dovevano arrangiarsi a scoprire da sé, nella quotidiana scommessa del vivere, senza l’aiuto dei genitori oppressi dalla fatica di pesanti lavori manuali e senza la mediazione di supporti culturali. Che cosa ci manda a dire il piccolo rampollo della buona società dell’Antico Regno? Il bambino, come tutti i bambini dell’arte egizia, indica se stesso: richiama dunque l’attenzione sulla propria identità infantile. Sulla condizionerei minori, come si dirà alcune decine di secoli più tardi. Guardatemi dunque, gli fa esclamare la mimica convenzionale ricreata dallo sconosciuto scultore: voi adulti siete i padroni del mondo ma è dentro di me il vostro futuro. Dentro di me e dentro tutti coloro che come me si affacciano alla vita. Quelli che come me godono i vantaggi di una nascita privilegiata, quelli che al contrario vivono una vita difficile, schiacciati dalla lotta per la sopravvivenza, quelli di cui nessuno scolpirà il ritratto. Occupatevi di noi tutti dunque: con l’attenzione che merita il nostro ruolo. Ci sono messaggi che non arrivano a destinazione, altri che si fermano ai destinatari immediati, altri infine che si irradiano oltre i confini della storia, finendo con l’acquisire una valenza universale. Il nostro è uno di questi ultimi. Il piccolo egizio si rivolgeva agli adulti del suo tempo e alle generazioni immediatamente successive, ma un fortunato e misterioso convergere di circostanze fisiche e climatiche ha conservato la sua testimonianza attraverso quattro millenni e oltre. E così quel muto richiamo, restituito intatto dalla ricerca archeologica, è giunto fino a noi. Con un significato che il tempo non ha scalfito: il lento scorrere di tutti quei secoli non ha minimamente modificato la semplice realtà di una infanzia che richiede attenzione, considerazione, impegno. Che vuole essere considerata per quello che è: la nostra risorsa più preziosa. Come per il Terzo Stato dell’abate Sieyès, anche per l’infanzia alla domanda "che cos’è?" si può rispondere con una sola parola: "tutto". Mentre la parafrasi non può applicarsi all’intera citazione del rivoluzionario francese: nessuno infatti può sostenere oggi che l’infanzia non conti nulla, né che possa accontentarsi di contare soltanto qualcosa. Infatti il disinteresse, o l’interesse insufficiente, nei confronti della condizione infantile, a differenza di quanto accadeva nell’Antico Regno degli egizi, oggi fanno scandalo. Così come fanno scandalo le violazioni dei diritti minorili, così come fanno scandalo le violenze sui piccoli. Ma questo non basta: ci vuole ben altro che una periodica professione di buone intenzioni perché alla muta e perentoria pretesa del bambino che indica se stesso venga data la risposta che merita. Perché l’infanzia sia davvero al centro della nostra attenzione, del nostro impegno, della nostra visione del mondo e del futuro.

                                                 Alfredo Venturi

 

Manzi, per una scuola migliore

La vita intensa del maestro (1924-1997) al quale sarà intitolato l’istituto pilota che sorgerà a Napoli per iniziativa della Lapis e del Centro "Danilo Dolci" – Una trasmissione televisiva contro l’analfabetismo imitata in decine di paesi – Ancora in tv, un programma per l’integrazione linguistica degli immigrati – Una infaticabile attività di scrittore, l’impegno per il rinnovamento della scuola dell’obbligo

Nello studio di Alberto Manzi, a Pitigliano, c’è un’aria di attesa: è come se il maestro dovesse tornare da un momento all’altro. Ci sono i segni di un’attività che sembra semplicemente sospesa e in procinto di riavviarsi. I libri che tappezzano le pareti, le fotografie, i ricordi di viaggio, le agende e gli appunti sul tavolo, il vecchio computer, la spessa borsa di pelle posata sulla poltrona. Eppure Manzi manca ormai da più di un anno e mezzo, da quell’autunno del ’97 in cui, "da chiuso morbo combattuto e vinto", l’educatore, lo scrittore, il sindaco dovette interrompere per sempre i suoi molteplici impegni. Aveva settantatrè anni e ancora tanti progetti, e fino all’assalto prepotente del male tanta energia per portarli avanti. E così sono rimaste nel cassetto arricchito la sua bibliografia già sterminata. Ora fra quelle carte frugano, guidati dalla vedova Sonia, gli archivisti del Centro Studi che a Manzi è stato intitolato presso l’università di Bologna. I meno giovani ricorderanno certamente la faccia sorridente del maestro, sui teleschermi in bianco e nero degli anni Sessanta. Manzi fu il protagonista-animatore di una trasmissione che è passata alla storia. Non è mai troppo tardi. L’idea era nata dalla necessità di contrastare l’analfabetismo degli adulti, che aveva allora nel nostro paese dimensioni inaccettabilmente massicce. Partito nel 1960 per iniziativa della RAI e del ministero della Pubblica Istruzione, il programma durò fino al ’68 con puntate giornaliere feriali. Fu un successo che valicò i confini nazionali, la trasmissione fu infatti imitata in 72 paesi e ricevette numerosi riconoscimenti internazionali. Non è mai troppo tardi si basava su una formula semplice ed efficace: linguaggio chiaro, concetti semplici, puntare all’essenziale. Ma soprattutto sulla straordinaria comunicativa di Alberto, che sapeva rivestire il messaggio di affabile simpatia, con quel suo gessetto perennemente impugnato davanti alla lavagna. Manzi era nato a Roma nel 1924 e si era laureato in biologia e scienze naturali, pedagogia e filosofia. Il primo incarico di insegnamento risale al ’46, quando appena ventiduenne viene chiamato all’istituto di rieducazione e pena A. Gabelli di Roma. Più tardi, nel ’54, eccolo maestro elementare nella scuola Fratelli Bandiera, sempre nella capitale. All’insegnamento affianca le ricerche di psicologia didattica, che lo accompagneranno per tutta la vita. Lo impegnano anche le attività di assistente universitario (facoltà di Magistero alla Sapienza) e di scrittore: già nel ’48 ha pubblicato il romanzo per ragazzi Grogh, storia di un castoro, e nel ’56, reduce da un avventuroso soggiorno scientifico in Amazzonia, il pregiatissimo Orzowei. La sua duplice vocazione, naturalistica e pedagogica, trova un punto di confluenza nella divulgazione scientifica e nell’editoria scolastica. Sono decine i libri pubblicati dall’editrici La Scuola di Brescia e la Sorgente di Milano. Alla base dei suoi sforzi il tentativo di rinnovare la polverosa tradizione dei testi scolastici, irti di retorica e poveri di modernità. Inoltre cura, sull’onda del successo di Non è mai troppo tardi, numerose trasmissioni televisive dedicate ai ragazzi: esemplare l’impostazione di Impariamo ad imparare (1971), che si propone risollecitare il bambino a costruire da sé il proprio sapere. Ancora ai ragazzi è dedicata l’enciclopedia Vedere e capire, in tre volumi pubblicata da Bompiani e tradotti in francese, inglese, spagnolo e tedesco. Fin dai primissimi anni Settanta Manzi intuisce che siamo alla vigilia di una mutazione interculturale della società europea. E così, negli stessi anni in cui cura per la RAI programmi destinati all’insegnamento della lingua italiana all’estero, pubblica Insieme, corso di italiano per stranieri. Ma dovrà aspettare vent’ani prima che il titolo di questo manuale diventi sigla i una trasmissione televisiva. Con Insieme, trasmissione in sessanta puntate che viene lanciata nel ’92, la RAI cerca di affrontare il problema dell’integrazione linguistica degli immigrati stranieri che ormai hanno rovesciato le vecchie coordinate del "paese di emigranti". Per fare agli ospiti venuti da mezzo mondo il dono prezioso della lingua italiana non si poteva chiamare che lui, Manzi, lo stesso maestro che trent’anni prima aveva alfabetizzato gli strati derelitti della nostra società. Alberto non si fa pregare e lavora, con la consueta chiarezza di obiettivi: il suo è un metodo esplicitamente funzionale, si propone di insegnare agli stranieri quelle poche centinaia di vocaboli che permetteranno ai nuovi arrivati un primo avvio dell’integrazione. Negli studi della RAI Manzi è ormai di casa. Nell’82 ha realizzato come autore e regista una serie di trasmissioni che si propongono di contribuire al rinnovamento della scuola dell’obbligo. La stessa finalità si prefigge un programma dell’86, tredici trasmissioni che fin nel titolo, Educare a pensare, portano l’impronta del scomodo maieutico di concepire l’istruzione. Sempre lo stesso anno, Fare e disfare, tredici puntate che intendono lanciare il modello di una nuova scuola elementare. Nell’87 viene chiamato a Buenos Aires dal governo argentino, che d’intesa con l’UNESCO gli affida un corso in sessanta lezioni per formare educatori incaricati dell’alfabetizzazione con il mezzo radiotelevisivo, dell’aggiornamento dei docenti, dell’educazione permanente. Il maestro italiano contribuisce così a quel successo dei programmi di alfabetizzazione che frutterà al governo argentino prestigiosi riconoscimenti internazionali. Trasferitosi per ragioni di famiglia a Pitigliano, in provincia di Grosseto, Manzi viene eletto nel 1995 sindaco di quel comune. Nell’adempimento dell’incarico amministrativo dispiega la stessa carica di generosità, di simpatia e di tenacia che lo ha reso famoso come educatore e come divulgatore scientifico. Tiene duro anche quando il male lo aggredisce e comincia a sconvolgere i suoi piani. Fra questi piani ce n’è uno che ci riguarda da vicino. Manzi è partecipe del travaglio che porta alla nascita della Lapis, è prodigo in quella fase di consigli e di incoraggiamenti e vorrebbe presenziare al convegno inaugurale della nostra associazione. Non gli è possibile, il maestro muore poche settimane più tardi. Nel gran vuoto che ha lasciato, restano incancellabili le parole con cui ha saputo dare carica a chi cercava di lanciare, in questo mondo di prevalenti interessi materiali, una iniziativa volta a restituire dignità a chi la scuola va perdendo per strada: "vai avanti, non mollare".

                                                                    a.v.

 

Cari ragazzi di quinta

Il saluto del maestro Manzi ai suoi alunni che hanno terminato la scuola elementare

Abbiamo camminato insieme per cinque anni.
Per cinque anni abbiamo cercato, insieme, di godere la vita; e per goderla abbiamo cercato di conoscerla, di scoprirne alcuni segreti. Abbiamo cercato di capire questo nostro magnifico e stranissimo mondo non solo vedendone i lati migliori, ma infilando le dita nelle sue piaghe, infilandole fino in fondo perché volevamo capire se era possibile fare qualcosa, insieme, per sanare le piaghe e rendere il mondo migliore.
Abbiamo cercato di vivere insieme nel modo più felice possibile. E’ vero che non sempre è stato così, ma ci abbiamo messo tutta la nostra buona volontà. E in fondo in fondo siamo stati felici. Abbiamo vissuto insieme cinque anni sereni (anche quando borbottavamo) e per cinque anni ci siamo sentiti "sangue dello stesso sangue".
Ora dobbiamo salutarci.
Io devo salutarvi.
Spero che abbiate capito quel che ho cercato sempre di farvi comprendere: NON RINUNCIATE MAI, per nessun motivo, sotto qualsiasi pressione, AD ESSERE VOI STESSI. Siate sempre padroni del vostro senso critico, e niente potrà farvi sottomettere. Vi auguro che nessuno mai possa plagiarvi o "addomesticare" come vorrebbe.
Ora le nostre strade si dividono. Io riprendo il mio consueto viottolo pieno di gioie e di tante mortificazioni, di parole e di fatti, un viottolo che sembra sempre identico e non lo è mai. Voi proseguite e la vostra strada è ampia, immensa, luminosa. E’ vero che mi dispiace non essere con voi, brontolando, bestemmiando, imprecando; ma solo perché vorrei essere al vostro fianco per darvi una mano al momento necessario. D’altra parte voi non ne avete bisogno.
Siete capaci di camminare da soli e a testa alta, PERCHE’ NESSUNO DI VOI E’ INCAPACE DI FARLO.
Ricordatevi che mai nessuno potrà bloccarvi se voi non lo volete, nessuno potrà mai distruggervi, SE VOI NON VOLETE.
Perciò avanti serenamente, allegramente, con quel macinino del vostro cervello SEMPRE in funzione; con l’affetto verso tutte le cose e gli animali e le genti che è già in voi e che deve sempre rimanere in voi; con onestà, onestà, onestà, onestà, e ancora onestà, perché questa è la cosa che manca oggi nel mondo, e voi dovere ridarla; e intelligenza, e ancora intelligenza, e sempre intelligenza, il che significa prepararsi, il che significa riuscire sempre a comprendere, il che significa sempre riuscire ad amare, e... amore, amore.
Se vi posso dare un comando, eccolo: questo io voglio.
Realizzate tutto ciò, ed io sarò sempre in voi, con voi.
E ricordatevi: io rimango qui, al solito posto. Ma se qualcuno, qualcosa, vorrà distruggere la vostra libertà, la vostra generosità, la vostra intelligenza, io sono qui, pronto a lottare con voi, pronto a riprendere il cammino insieme, perché voi siete parte di me, e io di voi. Ciao.

                                                   Alberto Manzi

 

Il diverso che arricchisce

La presenza in una classe di un alunno portatore di handicap non solo non pregiudica il rendimento complessivo, ma costituisce al contrario uno stimolo prezioso – La testimonianza di Lida Giusti, direttrice didattica ad Arezzo

"Io sono convinta – dice Lida Giusti – che proprio l’integrazione degli alunni portatori di handicap ha dato alla scuola uno scossone rinnovatore. Parlo della scuola elementare e della materna: l’integrazione ha fatto ripensare le modalità di rapportarsi con i bambini, a trovare strategie nuove per l’insegnamento, a utilizzare sussidi nuovi: insomma secondo me ne ha beneficiato tutta la scuola". Direttrice didattica ad Arezzo, Lida Giusti ha dedicato alle problematiche dell’handicap buona parte della sua esperienza professionale. Fino dagli inizi in cui cominciò la graduale applicazione di una norma a suo modo rivoluzionaria, quella della legge del 1971 che per la prima volta stabilì il principio che la società dei "normali" non poteva isolare chi normale non era. "Si parlava allora di ‘inserimento selvaggio’, perché non c’erano ancora le condizioni e i portatori di handicap venivano inseriti in classi numerose, senza sussidi speciali, senza insegnanti di sostegno. Ma nonostante i loro limiti quelle prime esperienze costrinsero a ripensare un modo di fare scuola, a trovare risposte per affrontare in particolare i problemi di quei bambini: alla fine ci si è accorti che si erano messe in moto delle sinergie che hanno finito con il cambiare la scuola. Certo l’inserimento, che è un fatto puramente fisico, non basta quando si persegue l’integrazione, cioè non solo accogliere il bambino portatore di handicap ma anche fargli vivere tutte le esperienze della classe, il rapporto con i compagni e anche con l’ambiente esterno alla scuola".

Per esempio con le famiglie…

"Questo è un punto importante: i genitori dei cosiddetti bambini normali hanno sempre il timore che la presenza di un alunno con problemi schiacci verso il basso il rendimento di tutta la classe, e quindi le ben note perplessità. Proprio questo ha stimolato la scuola a dare il meglio, per dimostrare che se c’è un bambino portatore di handicap il profitto non ne risente, al contrario, quella presenza contribuisce semmai proprio all’arricchimento, allo sviluppo di tutti".

Che cosa ricorda delle prime integrazioni?

"Ricordo gli inserimenti nella scuola a tempo pieno, che si presta particolarmente perché permette il vero insegnamento individualizzato, la rottura della classe come gruppo unitario, la creazione di gruppi di alunni impegnati nelle attività collaterali, dalle esperienze ambientali alla ceramica, al teatro: in questo schema il bambino con handicap si è ritrovato".

Oggi la situazione come si presenta?

" Apparentemente non ci sono più battaglie: la società ha capito, il portatore di handicap c’è, nessun genitore viene più a protestare. Ma per il corpo docente un problema resta, c’è sempre il rischio di scivolare di nuovo in una integrazione ridotta a sedimento. Mi spiego meglio: proprio la presenza dell’insegnante di sostegno comporta il rischio che il bambino gli venga delegato come se fosse un francobollo. In realtà l’insegnante di sostegno non deve avere un rapporto duale con il bambino portatore di handicap: è infatti di sostegno all’attività della classe nel suo insieme. Altrimenti l’integrazione si riduce a inserimento. L’integrazione si realizza solo quando tutta la classe, il plesso, il corpo docente si fanno carico di queste problematiche. Nella mia modesta esperienza ho lavorato e lavoro proprio per questo. Ci sono stati alcuni fallimenti con alcuni ragazzi, ma devo dire che nella maggior parte dei casi abbiamo avuto risultati che hanno sorpreso gli stessi servizi sociali".

Da altre parti ci giungono testimonianze allarmanti sul problema dell’handicap. Per esempio sulla persistenza anche nella scuola di barriere architettoniche…

"In effetti c’è questo problema, e ci sono anche le barriere psicologiche. A volte nelle assemblee di classe percepisco il disagio del genitore che ha un bambino diverso, che teme il confronto con i bambini degli altri. Siamo noi, come scuola, che cerchiamo di metterlo a suo agio nel rapporto con gli altri. Poi probabilmente il problema si ripropone fuori dalla scuola, perché secondo me la cultura dell’integrazione non è cresciuta abbastanza, nonostante abbiamo in materia la più bella legge del mondo, che abbiamo esportato come filosofia dell’integrazione scolastica. Ma non basta integrarli nella scuola, se poi la società non si cura di questi ragazzi. Anche la scuola può fare di più, per esempio curando l’orientamento, l’inserimento degli handicappati nell’attività lavorativa".

Lei pensa che gli insegnanti siano preparati a queste presenze in classe?

"Devo dire con grande sincerità che non sempre gli insegnanti che vengono assegnati al sostegno sono persone che, nonostante il titolo specifico, hanno la capacità di occuparsi di quei bambini. Si tratta spesso di persone a loro volta cariche di problemi, che hanno accettato questo lavoro non per la scelta di una professionalità consapevole ma perché sapevano che solo lì c’erano degli spazi lavorativi. Credo che avremo una svolta ora che tutti gli insegnanti dovranno avere una preparazione di livello universitario, e una parte del curriculum dedicata alla preparazione su questi problemi specifici. Anche perché, ripeto, l’integrazione non si fa con gli insegnanti di sostegno, si fa nel gruppo e con tutti gli insegnanti. Ricordo una mia esperienza in un sobborgo di Bogotà, Colombia, mandata dal ministero degli Esteri a cooperare in un programma di integrazione di piccoli disabili. Poiché le classi erano numerosissime, fino a quaranta o cinquanta bambini, e non era possibile ricorrere all’insegnante di sostegno, si era trovato un sistema molto efficace: costituire piccoli gruppi e affidarne la responsabilità a un ragazzo più bravo, più capace e più sensibile, con funzione di tutor. E così da una necessità imposta dalle circostanze è nato un modo di lavorare che è andato a beneficio di tutti. Ritorno adire che la presenza della diversità, se vissuta con attenzione, può essere un modo per migliorarci tutti".

 

Il draghetto

E quello che serve per andare all’Elba, magari arrivando a scorgere sul mare la torre di Pisa – Il fascino di una libera visione delle cose, dall’immaginazione infantile fino all’arte surrealista

E’ sempre la Cecilia, che dice "il traghetto", "le barche velate", "i bambini attaccati al semolo". Sono espressioni raccolte dalla viva voce della bambina, durante un viaggio all’isola d’Elba. Disse anche "bambina disgraziosa", e la concluse:

Bambina disgraziosa

è una bambina variabile

con le trecce

o con la coda dietro.

E la "caccolatrice", cos’è? La parente ricca del pallottoliere?… Tutto può essere re-inventato tramite la lingua giocata dalla fantasia. Filippo, in prima elementare, l’anno scorso a Montespertoli, scriveva: "Sedici è otto otto, sicchè otto soli". E davanti a una bottiglia d’acqua minerale frizzante, disse: "L’acqua bolle però è fredda". "Tutti i ragazzi" direbbe Gianni Rodari "si divertono a inventare linguaggi segreti e a costruire alfabeti personali, proprietà privata di un gruppo. Non vedo niente di male nell’aiutarli a darsi un pò di sistema in questo genere di invenzioni. Se l’alfabeto dovrà essere usato solo per scritto, non c’è problema. Se dovrà permettere la produzione di parole, frasi o testi pronunciabili ad alta voce, non sarà sufficiente un qualsiasi procedimento crittografico: bisognerà creare un alfabeto in cui a una vocale italiana corrisponda un’altra vocale, a una consonante un’altra consonante. La parola uva, se sostituiamo una e alla u, una i alla a e una r alla v, diventerà eri… Eri rossa, eri bianca, eri galletta, eri nera, eri da tavola… Chiunque si provi ad applicare questo facile sistema scoprirà con sorpresa e con piacere che, traducendo nel nuovo alfabeto una poesia di Pascoli o di Leopardi si otterrà un insieme di suoni discretamente armoniosi, anche se assolutamente incomprensibili a chi non possiede la chiave". La lingua così trasformata diventa come un campo giallo di rape in fiore, pieno di insetti al lavoro. Per capirlo, bisogna entrarci dentro con la testa. Si sente che è il "motore della primavera", ma non si distinguono i singoli insetti. Per ri-sentirlo, si può usare il registratore. L’utilità didattica del registratore è già stata provata ad abbondanza. Ma il registratore si può usare anche per giocare; per studiare in quanti modi può essere modificato il suono di una goccia d’acqua che cade nel lavandino, per trasformare il rumore di un temporale in quello di un aviogetto. Ho seguito una volta un gruppo di bambini che camminavano collezionando con il registratore rumori, voci, randelli di conversazione. Quando riascoltarono il nastro, non fu sempre semplice per loro riconoscere l’origine reale dei suoni emessi dall’apparecchio, la causa degli strani effetti sonori, di certe mostruose apparizioni. La camminata era stata trasformata dal mezzo in un percorso carico di mistero e di avventura. Era possibile anche dimenticare la passeggiata e dare nuova vita ai suoni e ai rumori raccolti, liberamente interpretati come tappe di un nuovo racconto. "Un terrorista", disse un bambino riascoltano il nastro, "è quello che taglia la terra con la ruspa". "…Finchè la terra scompare e ci sono solo case!" dissi io. E passammo a ragionare di numeri, di matematica. Un’operazione fantastica molto produttiva è la sottrazione. I suoi casi sono due: la scomparsa e lo smarrimento. Esempio del primo caso: Scompare la terra… Perché? Dov’è finita? Chi l’ha rapita? Che cosa ci costerà riaverla? Altro esempio: Una mattina, alle dieci, a Roma, scompare la carta… Cioè sparisce ogni tipo di carta, da quella delle banconote a quella del noto rotolino igienico: il papà è al bagno e cerca invano il rotolino… Conseguenze della scomparsa. Suo significato. Provvedimenti. Soluzione del dramma. Esempio del secondo caso: Un bambino, tornando da una camminata, si accorge di avere smarrito un orecchio, o una scarpa, o la memoria del suo indirizzo di casa. Eccetera. Per questo genere di invenzioni sarà bene procedere così. Primo: raccogliere ogni sorta di suggerimenti sul tema scelto, senza alcun ordine, né preoccupazioni di logica narrativa o d’altro genere. Secondo: scegliere il punto di vista, cioè il personaggio principale, o il caso particolare da cui si partirà per farne il perno della storia… Che senso può avere un gioco del genere?… Proprio il contrario di quel che sembra! Se immaginiamo un mondo senza carta scopriamo, come fosse la prima volta, tutti gli usi della carta, tutele azioni e situazioni umane che si reggono sulla "pelle degli alberi". La forma di queste storie è proprio quella della ricerca. Per finire, proviamo a"mescolare le carte" a "cambiare le carte in tavola": proviamo a mescolare le cartoline illustrate. A una cartolina illustrata di Pisa, la cartolina di un’altra città. Creiamo città immaginarie, una geografia di fantasia. La prima mano che si alza è di Cecilia. "Una mattina" lei dice "mentre montavo sul traghetto per andare a l’Elba, ho visto spuntare dall’acqua la torre di Pisa". Nell’arte contemporanea, questo modo di vedere le cose di Cecilia si è particolarmente sviluppato. Ha dato luogo a un movimento chiamato surrealismo. Gli artisti che crearono questo movimento si proponevano di "andare oltre la realtà" producendo opere di soggetto fantastico. Esempio di pittura surrealista sono le opere di Joan Mirò, Giorgio De Chirico, Max Ernst, Yves Tanguy, Salvador Dalì… Da lì a qui, si può sempre prendere il traghetto per arrivarci… Creare delle rappresentazioni fantastiche è sicuramente una cosa divertente. L’unica difficoltà da superare è l’abitudine a vedere e a rappresentare gli oggetti o gli esseri viventi col solo criterio della verosimiglianza. Siamo abituati a vedere l’occhio incorniciato nel volto, la casa ai limiti della strada. Solo con un grande sforzo della fantasia possiamo immaginare un occhio al centro di una foglia o una casa nel palmo della mano… Per creare delle composizioni fantastiche dovremo fare questo sforzo che Cecilia ha iniziato da piccola (spontaneamente, senza fatica) e dare la più ampia libertà all’immaginazione. L’"ottimismo della specie" – espressione tanto cara a Rodari – ci assicura che tutti i bambini sono capaciti abbandonarsi al gioco. Faremo anzitutto un elenco di nomi di cose, naturali o artificiali, le più disparate e casuali: ad esempio, albero, occhio, libro. A fianco di ciascuno di questi nomi ne elencheremo altri che hanno con i primi qualche affinità o ne indicano delle parti:

Albero: foglia, ramo, fiore, fico

Occhio: ciglia, iride, arcobaleno, occhiali

Libro: albero, copertina, piumino, piumone, oca, illustrazioni.

Possiamo ideare una composizione in cui le immagini corrispondenti alle parole scelte si combinino insieme, in modo che sarà certamente molto bizzarro. E dove Guazza l’Oca ci sarà Bologna ridotta a uno stagno, secondo i dati delle ultime votazioni amministrative: quelle del 27 giugno 1999, vedi ballottaggio. E i Bolognesi faranno il Gioco de l’Oca in piazza San Petronio. Perché la Fantastica è anche una Realistica.

                                                    Filippo Nibbi

                                                   (9- fine)

 

Dalla ricerca al progetto

Nel nostro sistema troppi oneri gravano sulle spalle degli insegnanti, privi del supporto di altri operatori: ne derivano stress e burnout – Nella scuola americana esistono undici figure professionali; ma anche le nostre leggi prevedono il ricorso continuativo a competenze specializzate – Secondo il prof. Cacioppo occorre abituarsi a pensare nei termini di un sistema formativo integrato che vada oltre la struttura scolastica – Infatti non è "solo" nella scuola la soluzione di tutti i problemi

Proseguiamo la pubblicazione delle relazioni svolte al convegno di studi sul tema L’evasione scolastica, una sfida per la società, che la LAPIS ha organizzato ad Arezzo il 25 e 26 ottobre 1997. in questo numero la parte conclusiva dell’intervento de prof. Giovanni Cacioppo, dell’università di Palermo.

Da quando sono state abolite, a ragione probabilmente, le note di qualifica degli insegnanti, non esiste p0iù nessuna dimensione valutativa. Il lavoro degli insegnanti appiattito, lavorare bene o lavorare male dal punto di vista istituzionale non fa nessuna differenza. C’è naturalmente un a differenza di coscienza individuale, ma le coscienze individuali sono molto soggette ai fenomeni dello stress, del burnout, io credo che queste questioni vadano gestite non soltanto sul piano della coscienza individuale ma anche sul piano istituzionale. Qui si lega un’altra dimensione, che oggi viene chiamata delle figure di sistema, enunciata esplicitamente nel documento sul riordino dei cicli scolastici, che come sappiamo ha degli antecedenti, cioè figure di insegnanti che non svolgono attività di insegnamenti in classe ma assolvono all’interno della scuola o all’interno del sistema formativo generale funzioni diverse rispetto all’insegnamento. Noi abbiamo già storicamente le figure dello psicopedagogista, dell’esperto di orientamento, dell’esperto di attività tecniche, che sono nate malissimo dal punto di vista istituzionale. Sono nate rispetto alla dimensione degli insegnanti. Se un insegnante perdeva la cattedra per un decremento demografico poteva essere riassorbito come insegnante specializzato. Mala specializzazione non è una cosa che deriva dal fatto che uno ha perso il posto… la specializzazione è cosa del tutto diversa. Ho scritto recentemente un articolo per Scuola e città, in cui c’è un passaggio rivolto alla questione della formazione: il problema di chi dovrebbe formare queste figure di sistema. Su questo al momento non c’è alcuna ipotesi di carattere istituzionale, c’è il rischio che come è avvenuto fino adesso le procedure avvengano a livello di amministrazione, nei provveditorati, nelle singole scuole ecc. Accanto al problema delle figure di sistema io credo però che vada posta un’altra questione. Qui si è parlato sostanzialmente di due identità fondamentali, identificazione tra processo educativo, formativo e scuola, e identificazione tra scuola e insegnante. Io credo che siano due equazioni sulle quali bisogna riflettere con attenzione. Da un lato perché credo che oggi rispetto alla dimensione centrata sulla scuola sarebbe più corretto e più produttivo avere una dimensione centrata su quello che da alcuni anni viene chiamato il sistema formativo integrato. Cioè il ruolo che complessivamente agenzie, istituzioni educative tra cui la scuola possono rivolgere nei confronti dei bisogni della utenza, che appunto all’itinerario scolastico o educativo in generale si rivolge. Il secondo passaggio, la identificazione tra scuola e insegnante, credo ci richieda anche delle riflessioni di principio: il nostro sistema scolastico praticamente non conosce altre figure di operatori educativi diversi dall’insegnante. Questo è stato individuato nelle ricerche sul campo come una delle cause fondamentali dello stress: il complesso delle richieste che ricadono sugli insegnanti. Già alcuni anni fa in un libro giustamente famoso, La ricreazione è finita, Norberto Bottani aveva analizzato quella che lui chiamava la condiscendenza della scuola. Cioè il fatto che quando all’interno della società nasce un problema ritenuto rilevante, la risposta classica è quella di affidare la soluzione alla scuola, e quindi rivestire gli insegnanti, in aggiunta al loro compito specifico di insegnare appunto, di tutta una serie di altre funzioni: oggi all’interno del nostro sistema scolastico non so quanti progetti di educazione, educazione alla salute, educazione stradale, ecc., ricadono tutti sulle spalle dello stesso insegnante. Io credo che onestamente un insegnante non può essere in condizione di fare questo. Io sento da questo punto di vista che una difesa degli insegnanti sia doverosa, rispetto al compito per cui gli insegnanti sono entrati a lavorare nel sistema formativo c’è uno sviluppo di richieste nei loro confronti che non si possono improvvisare. Non è che uno da un giorno all’altro diventa esperto in educazione alla salute, tossicodipendenze e via dicendo. Il che non significa – per questo l’accenno di prima alla non identificazione insegnante-scuola scuola-insegnante – non significa che un sistema formativo non debba farsi carico di tutte queste cose, ma significa che sono possibili delle direzioni di lavoro in cui l’intervento educativo non poggia necessariamente sulla figura dell’insegnante ma può comportare una distribuzione del carico di lavoro tra figure diverse. Sempre Norberto Bottani in un altro suo libro più recente, Professoressa addio, evidenziava questi termini della questione: mentre in Italia il sistema formativo conosce in pratica solo la figura dell’insegnante, per esempio il sistema scolastico americano – io non sono un sostenitore del sistema scolastico americano, però il contributo comparativo dell’esperienza dei diversi paesi credo che a qualche cosa serva – prevede undici figure professionali diverse. L’insegnante è una delle undici figure, ma l’attività dell’insegnante all’interno della progettazione della scuola viene integrata dall’attività che di volta in volta professionisti nel senso proprio, specialisti rispetto alle dimensioni formative che di volta in volta vengono investite, effettivamente sono in grado di dare in questa direzione. Ora quello che io dico non è una petizione di principio ma per certi versi un richiamo normativo. Noi abbiamo, anche se dimenticate e ignorate all’interno del nostro ordinamento scolastico, delle norme di estrema importanza da questo punto di vista. Ne ricordo una per tutte, una legge fondamentale della scuola, il decreto delegato 416, quello che istituito gli organi di gestione sociale della scuola, che in uno dei suoi articoli per esempio dice che il collegio dei docenti della singola scuola proprio in relazione alle questioni di cui stiamo parlando, cioè alle situazioni degli allievi in difficoltà, a rischio, e in aggiunta rispetto ai problemi dell’orientamento, il collegio dei docenti fruisce dell’apporto degli specialisti che continuamente lavorano all’interno della scuola. Tenete ben presente questa dimensione linguistica: che operano all’interno della scuola, presente indicativo,non è un rinvio a normative successive. Il legislatore nel ’74 ipotizzava giustamente, rispetto alla complessità di questi problemi, che di questi problemi non si potessero far carico soltanto i docenti ma che l’attività dei docenti richiedesse il supporto di competenze specializzate, psicologiche, sociologiche ecc. Sappiamo che a tutt’oggi in realtà questo non è avvenuto, non è ben chiaro per quali motivi, però resta la dimensione concettuale chiara, cioè che nelle situazioni più difficili c’è una integrazione, un supporto che l’insegnante potrebbe ricevere e che la normativa già prevede. L’ultima cosa che vorrei aggiungere da questo punto di vista è il fatto che noi abbiamo, la viviamo in particolare come istituzione universitaria, quest’altra dimensione paradossale della dimensione formativa all’interno dei nostri itinerari curricolari. Da alcuni anni è stato istituito nelle facoltà di scienze della formazione questo nuovo corso di laurea in scienze dell’educazione articolato su tre indirizzi: il primo indirizzo rivolto all’insegnamento nella scuola superiore, insegnamento di scienze umane nella scuola superiore, il secondo e il terzo indirizzo chiamati rispettivamente educatori professionali ed esperti di processi formativi, invece non riferiti all’attività di insegnamento. Quindi abbiamo una figura, tra l’altro devo dire con curricoli abbastanza ben fondati, che prevedono per esempio la necessità dell’esperienza di tirocinio all’interno degli istituti, ma nessuno sa che cosa possa fare un laureato di secondo e terzo indirizzo in scienze dell’educazione. Perché non c’è, all’interno del nostro sistema formativo, una dimensione attrezzata per recepire queste professionalità. Per questo io capovolgevo prima la questione del rapporto tra formazione e utilizzo: se noi formiamo bene le persone ma poi queste persone non vengono utilizzate, in realtà che le abbiamo formate a fare? Anche qui c’è per esempio in Toscana il collega Paolo Orefice, preside della facoltà di scienze della formazione di Firenze, che mi dice sta conducendo una ricerca finanziata dalla Regione Toscana sui possibili sbocchi occupazionali dei laureati in scienze dell’educazione. Sappiamo già tutti che gli esiti della ricerca saranno estremamente precari e deludenti nel senso che fino adesso in realtà l’unico sbocco intravisto qual è? la dimensione dell’ente locale, il fatto che l’ente locale per le sue attività formative può ricorrere a questo tipo di professionalità. Ma può succedere che per esempio quando comuni come il comune di Palermo utilizzano questi riferimenti per attivare dei progetti (Palermo d’estate, Palermo d’inverno ecc.) che cosa succede? Che in realtà questi progetti vengono gestiti da professionalità non qualificate, di solito sono più degli animatori che non degli esperti in processi formativi. Resta un problema estremamente importante che è quello del coordinamento. Di solito l’esperienza è che vi sono a latere dell’attività scolastica, nel pomeriggio, durante l’estate, delle attività aggiuntive che vengono svolte appunto dagli operatori del comune. Io credo però che non bastano delle offerte formative perché queste siano significative: è necessaria la loro integrazione, è necessario cioè che rientrino all’interno di un progetto complessivo. Io credo che l’unica chiave che in questo momento abbiamo per affrontare realisticamente questo tipo di problema sia la chiave dell’autonomia. Si tratta di riconoscere fondamentalmente una cosa,fino adesso il nostro sistema scolastico ha vissuto sulla immagine della omogeneità: percorsi omogenei nell’aspettativa di fornire risultati omogenei. Noi sappiamo, le ricerche ce lo attestano continuamente, che in realtà la cosa non è riuscita: richiamo la questione degli standard, che in realtà gli standard effettivamente raggiunti oggi non sono omogenei nel paese, restano tutta una serie di squilibri nord-sud, città-campagna. Rispetto a contesti formativi in cui le situazioni di partenza degli allievi sono assai diversificate l’intervento omogeneo non colma, l’intervento omogeneo significa che chi era in posizione avvantaggiata alla partenza resta in posizione avvantaggiata alla fine. In realtà già da molto tempo c’è stata una serie di ricerche di sociologia dell’educazione soprattutto francesi che dimostrano come in situazione di omogeneità formativa del sistema scolastico finiscano per fruire molto più gli allievi che entrano nella scuola in situazione avvantaggiata rispetto a quelli che entrano in situazione di svantaggio. Quindi il modello unico del sistema formativo si è dimostrato perdente. E allora l’alternativa qual è? l’alternativa che d’altra parte teoricamente è già stata individuata da tempo: conseguire risultati omogenei richiede non percorsi uguali ma percorsi differenziati. Cioè che nelle situazioni a rischio, nelle situazioni più difficili, la qualità dell’istruzione nel suo complesso deve essere di livello più elevato rispetto alla qualità dell’istruzione proposta in situazioni più avvantaggiate. Questo ci richiama però all’ottica delle diverse situazioni, e quindi dicevo prima all’ottica dell’autonomia. Se noi vogliamo contrastare effettivamente tutele dinamiche di cui ci siamo occupati in questi due giorni dobbiamo andare verso una direzione progettuale fortemente contestualizzata. Qui si inserisce l’importanza della ricerca,perché uno degli aspetti che noi abbiamo acquisito, rispetto alla dinamica complessiva della dispersione, è il fatto che parlando di dispersione non ci riferiamo a un fenomeno unitario, riconducibile a una sola tipologia, a una sola causa. Abbiamo riflettuto sul fatto che le vie della dispersione sono infinite, o quasi. Possono esserci una serie di questioni sia in senso sociale, nel senso che in relazione alla zona di appartenenza, alla fascia di età, sia a maggior ragione in chiave individuale. Le scelte, intendendo l’abbandono della scuola come una scelta che più o meno consapevolmente l’utente della scuola effettua, possono essere indotte da una pluralità di ragioni estremamente diversificate. In questi anni sono state avanzate alcune ipotesi generali: quella che caricava tutta sulla scuola (se le persone abbandonano è perché la scuola…), quella che caricava tutto sulla dimensione economica (i ragazzi abbandonano perché le famiglie vogliono che vadano a lavorare). Sono dimensioni reali però non ugualmente presenti: a volte gioca più una ragione, a volte un’altra. L’essenzialità della ricerca è proprio nel non avere un modello a priori, unico, di riferimento, ma di cercare di vedere nel contesto specifico – e questo ci richiama ancora una volta al principio dell’autonomia – quali sono le variabili che maggiormente giocano e che cosa determinano. La mia indicazione di lavoro è quella: da un lato l’importanza della ricerca – è la ricerca che di volta in volta ci dà le informazioni concrete e affidabili rispetto alle singole dimensioni – dall’altra parte la dimensione del progetto: intervenire sulle singole realtà significa intervenire sulla base di un progetto, che sia un progetto appunto formativo integrato, che non chiami in causa soltanto la scuola ma attorno a cui possa esserci una convergenza di istituzioni formative e di operatori educativi. Credo sia l’unica dimensione in cui realisticamente possiamo pensare di affrontare in termini nuovi rispetto al passato questo fenomeno estremamente consistente.

 

                                                                                    ( 14 – continua )

                                                                                                        

 

 

                                                                                                     

 

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