FOGLIO LAPIS - GIUGNO - 2016

 
 

Come rapportarsi con un ragazzo gravemente menomato che è abituato a vivere rinchiuso in se stesso? - Come arrivare alla vitale dialettica dell'interazione, del dialogo? - Una trovata riesce infine a socchiudere questa porta fin qui blindata dal costante rifiuto di agire – Il ragazzo respingeva ogni tipo di strumento musicale, ora ne accetta uno che lo incoraggia emettendo suoni con un semplice contatto – Finalmente il ghiaccio è rotto

 

La sala è piccola e dai colori insolitamente caldi per un ospedale, intorno al tappeto centrale si raccolgono tamburi di legno e latta, liuti e bastoni della pioggia, chitarre e nacchere. G, un ragazzo spastico, autistico ed epilettico di 22 anni, sta per iniziare la sua terapia. G non parla, non riesce ad emettere suoni comprensibili e presenta gravi malformazioni fisiche. L’atteggiamento predominante è quello di passiva sottomissione (preferisce il silenzio all’emissione dei suoni che riesce a produrre, mentre altri ragazzi con problemi simili non si fanno scrupoli perfino a cantare), atteggiamento sottomesso che probabilmente è stato costretto ad assumere per più di venti anni della sua vita a casa dei genitori, alcolizzati e violenti, che mai hanno accettato la sua natura di diversamente abile.

Entra accompagnato dalla terapeuta e appena lei abbandona il suo braccio lui scivola via e si va a sdraiare per terra, in un angolo della stanza, sorvegliando l’ambiente con occhi un po’ spauriti. La terapeuta apre la seduta con un rito che segna sempre l’inizio delle sue ore: accompagnandosi alla chitarra intona una canzone del buongiorno, della quale dedica una strofa ad ogni presente. Una al paziente, una a se stessa e una alla tirocinante che assiste in disparte. Il ragazzo dà segno di riconoscere perfettamente la parte di canzone dedicata a lui e sorride, pur rimanendo sdraiato per terra, incollato alla parete della stanza.

La seduta prosegue con l’esecuzione di quella che la terapeuta sa essere la canzone preferita di G, lui si tira appena un poco su, quel tanto che basta per ondeggiare a ritmo con gli arpeggi della chitarra. Tecnicamente, si è già creata una prima forma di contatto, resa possibile dal meccanismo del sentirsi riconosciuto (nei propri gusti, nelle proprie preferenze).

Finito il brano, la musicoterapeuta cerca di coinvolgere il ragazzo in una forma di interazione “dialogica”. Inizia costruendo una base, un tappeto ritmico-sonoro costante, per creare un ambiente di protezione e sostegno (si pensi al battito del cuore della madre nel grembo materno, alle vibrazioni ritmicamente costanti dell’essere cullati, all’effetto distensivo del rumore costante di un rigagnolo). Su questo sottofondo cerca di instaurare un dialogo: prende un tamburo e lo accarezza con le dita, prima piano, poi più forte, e lo avvicina a G. In genere a questo punto il paziente tocca istintivamente lo strumento e inizia a interagire, ma G resta chiuso e spaurito, guarda da sotto in su lo strumento e si limita a toccarlo nei punti strutturali che non emettono alcun suono. La scelta è cosciente, non se la sente di essere in alcun modo attivo.

Uno degli obiettivi della terapia musicale con un paziente del genere è ovviamente proprio quello di portarlo in una dimensione dialettica di botta e risposta, in quanto lui non pratica alcuna forma di comunicazione e, complice l’atteggiamento remissivo che lo caratterizza, tende a non esprimere in alcun modo le proprie reazioni e a sentirsi su un costante piano di inferiorità.

Tamburo e liuto vengono in qualche modo rifiutati: appena G sente la pressione di un’aspettativa da parte della terapeuta fa un sorriso timido e restituisce lo strumento, ben attento a non suonarlo in alcun modo e a toccarlo solo nei punti “muti”. E’ a questo punto che alla terapeuta viene in mente di prendere uno strumento più ludico e semplice, caratterizzato dal fatto di suonare in ogni sua parte al minimo contatto. Si tratta del “water percussion”, un tamburello a sezione cilindrica pieno di piccole palline di metallo che si spostano e strusciano sulla membrana ad ogni minimo movimento. G prende tra le mani lo strumento che gli viene offerto e resta un attimo sconcertato dal primo suono, emesso senza avvedersene.

Guarda la terapeuta con occhi increduli e divertiti e la barriera è rotta: inizia a muovere in mille e più direzioni lo strumento e ascolta interessatissimo. Per svolgere questi movimenti si tira su dalla posizione supina e si mette a sedere in una posa molto più attiva. Dopo un po’ scopre anche la funzione percussiva dello strumento che ha in mano, e alterna momenti percussivi a momenti legati alla qualità dei vari suoni prodotti dalle palline interne. La terapeuta azzarda qualche cambiamento nella base che sta suonando, prova, ad esempio, a realizzare un graduale crescendo di volume e velocità. Dopo un paio di tentativi il ragazzo inizia a cogliere questo tipo di variazioni e a reagire di conseguenza secondo le leggi dell’interazione dialettica. A volte asseconda e segue i crescendo, a volte imita, a volte risponde in modo inatteso con un elemento contrario a quello proposto.

Il paziente G è riuscito a superare la barriera che lo teneva separato dalla comunicazione con il resto del mondo e a sperimentare una forma di dialogo che segue tutte le dinamiche di un dialogo verbale e che la musicoterapeuta sa leggere nei suoi contenuti. Lo stato di paura è vinto e la posizione del corpo passiva e scarica è stata sostituita da una postura attiva. Dopo alcuni minuti di dialogo sorride e, improvvisamente stanco, sceglie di tornare a distendersi, ma prima di farlo sistema bene il tamburo e vi appoggia la testa come su un cuscino, che continua a sfiorare con le dita emettendo un flebile fruscio.

                                                          Laura Venturi 
                                         

    


                                                  

 
 

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