FOGLIO LAPIS - GIUGNO - 2009

 
 

Piaccia o non piaccia, la nostra è già una società multietnica e questo carattere è destinato a rafforzarsi nei prossimi decenni – Una realtà che intimorisce anche perché nelle comunità immigrate, economicamente e socialmente sfavorite, il tasso di criminalità è più alto della media – Di qui una gamma di reazioni che vanno dall’intolleranza alla xenofobia – Alla scuola il compito di gestire con lucidità un problema che la politica e i media trattano spesso in modo irrazionale

 

Diceva il cancelliere imperiale Otto von Bismarck, che di queste cose s’intendeva assai, che non si sparano mai tante bugie come prima delle elezioni, durante la guerra e dopo la caccia. In campagna elettorale si dicono molte cose che si è soliti considerare con una certa indulgenza. Ma quando un oratore proclama di non voler vivere in un’Italia multietnica, e questo oratore è il presidente del consiglio, si rende necessaria qualche messa a punto. L’Italia, multietnica lo è da un bel po’ di tempo, lo sarà sempre di più e non cesserà di esserlo. Del resto è lo stesso presidente a confermarlo, in un’altra occasione elettorale, quando racconta di avere fatto un giretto nel centro di Milano e di avere avuto l’impressione di trovarsi in una città africana. Va bene, si trattava di procurare un po’ di voti a un partito alleato che sui temi dell’immigrazione, e soprattutto sui problemi di sicurezza legati a questo fenomeno, ha costruito le sue fortune politiche.

Ora che la missione è compiuta, e che quel partito può presentarsi come il vero vincitore delle elezioni, è tempo di ragionare a mente fredda sulla sfida epocale che ci sta di fronte. Dunque, l’Italia è un paese multietnico, la percentuale delle origini straniere nella demografia nazionale è in costante aumento, così come il tasso di natalità nelle comunità immigrate. Ne consegue che, per quanto si cerchi giustamente di disciplinare i flussi e di respingere al mittente chi non ha titolo per insediarsi da noi, questa presenza è ormai saldamente iscritta nella nostra storia e nel nostro paesaggio.

Piaccia o no, abbiamo e avremo sempre più lavoratori stranieri, sempre più imprenditori immigrati, e sempre più bambini delle più svariate provenienze nelle nostre scuole. Qualcuno insiste anche su un altro punto: sempre più reati commessi da stranieri. È vero anche questo e fa parte del fenomeno: ovunque nel mondo e sempre nella storia i gruppi economicamente e socialmente svantaggiati hanno prodotto più della media comportamenti devianti. Questo determina allarme sociale, chiusure pregiudiziali, intolleranza, xenofobia, richieste di provvedimenti incisivi e decisivi. Soprattutto in tempi di crisi economica determina anche successo elettorale, come sta accadendo un po’ dappertutto in Europa, per chi grida alto e forte “dagli allo straniero”.

L’insofferenza verso una realtà che alcuni vivono come un inquinamento demografico si è nutrita a lungo di ragioni religiose. L’invasione islamica, lo scontro delle culture, la pretesa di erigere nelle nostre città moschee e minareti, certi sinistri collegamenti con il grande terrorismo internazionale alimentato dal fondamentalismo musulmano. Ma le statistiche ci dicono che la componente islamica nelle comunità immigrate non arriva a un terzo, e che la maggior parte dei nuovi arrivati proviene da paesi di tradizione cristiana, come quelli dell’Europa orientale, o dell’America Latina, o di certe parti dell’Asia come le Filippine. Ma non per questo vengono più facilmente accettati, da chi soffre la sindrome dell’invasione.

Sui banchi delle nostre scuole, i bambini stranieri si trovano spesso in difficoltà, e a volte proprio per questo assumono atteggiamenti di sfida. Spesso non padroneggiano la nostra lingua, a volte i loro compagni italiani, portatori di un pregiudizio assorbito fra le pareti domestiche, li considerano con sospetto se non con ostilità. C’è chi vorrebbe per i suoi bambini classi di soli italiani, e gli stranieri raggruppati in classi speciali. Ma provate a immaginare che cosa potrebbe uscire, da quei ghetti. Fortunatamente c’è anche chi raccoglie la sfida in modo positivo: ci sono maestri che sanno trarre il meglio dalle loro aule multietniche, per esempio invitando gli alunni stranieri a parlare dei loro paesi d’origine, delle loro tradizioni, della loro lingua. Creando così una didattica dal vivo della geografia e della storia.

Le iniziative di questi docenti tranciano di netto l’alternativa che si pone davanti alla scuola alle prese con una simile scommessa: se cioè quelle diversità vadano annullate nell’assimilazione o se invece sia opportuno esaltarle nel rispetto reciproco. Nel primo caso abbiamo il modello francese, quello che al tempo delle colonie obbligava il piccolo africano a imparare la storia su un testo il cui primo capitolo s’intitolava Nos ancêtres les Gaulois, I Galli, nostri antenati. Capitolo illustrato dalla figura di un guerriero pallido e biondo, che se fu capace di tener testa alle legioni romane non per questo era proprio familiare dalle parti dei tropici. Fu un’assimilazione totale, che almeno aveva il pregio di essere immune da pulsioni razziste, tanto che culminò nella cooptazione di ministri africani nel governo di Parigi. Il secondo caso richiama invece la prassi coloniale britannica, massimo rispetto ma ognuno al suo posto.

Oggi non è più tempo di colonie e la questione si pone in termini nuovi. Assimilare significa negare un’identità, o parte di un’identità: dunque incoraggiare risentimenti e rancori. Accogliere senza cancellare la cultura d’origine, affiancarla piuttosto alla nostra in cui gli ospiti stranieri si sono catapultati, secondo un’interazione di esperienze all’insegna di un civile rispetto reciproco, comporta invece la costruzione di una società sfaccettata e ricca di potenzialità. Piuttosto che di multicultura, dovremmo parlare d’intercultura. Si tratta di aprire spazi alle realtà lontane, ciò che non comporta ovviamente la rinuncia a lasciare che la nostra identità si collochi naturalmente al centro dell’attenzione. Certo non è facile, ma è precisamente ciò che fa quel maestro che nella sua classe arcobaleno indica un punto della carta geografica e annuncia: oggi parleremo dell’Ecuador, il paese dal qualche proviene il nostro José… José, vieni a raccontarci qualcosa della tua terra… Lo sapete ragazzi quanto è distante l’Ecuador dall’Italia?

                                                          Alfredo Venturi 
                                         

    


                                                  

 
 

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