FOGLIO LAPIS - GIUGNO 2005

 
 

Nel 2003 circa 75 milioni di persone, quasi un quarto della popolazione degli Stati Uniti, frequentavano il sistema scolastico dalle materne alle università – Il dato relativo alle elementari e alla secondaria, 49,6 milioni di alunni, è il più alto dopo quello registrato nel 1970 (48,7) – Allora erano i figli del baby boom registrato negli anni Cinquanta, oggi tocca ai figli dei figli – Il ruolo dell’immigrazione e la composizione delle classi per provenienza etnic a

 

La popolazione scolastica degli Stati Uniti sta subendo un secondo contraccolpo del cosiddetto baby boom, l’impetuoso incremento delle nascite che cominciò dubito dopo la fine della seconda guerra mondiale e si protrasse fino all’inizio degli anni Sessanta. Si tratta di quello che gli studiosi dei fenomeni demografici chiamano effetto eco: i molti bambini nati in quel periodo di particolare ottimismo e fiducia nel futuro fecero segnare un record di presenze nel sistema scolastico. Nel 1970 le dodici classi della scuola elementare e della secondaria (si parla qui complessivamente dell’istruzione pubblica e privata) erano frequentate da 48,7 milioni di alunni. Il primato è rimasto tale fino al 2003, quando si è verificato appunto l’effetto eco: stavolta a affollare le scuole sono stati i figli dei baby boomers (i nipoti del baby boom, se così si può dire), che con il sostanzioso contributo di una crescente immigrazione hanno portato al nuovo record: 49,6 milioni di alunni.

È il Census Bureau di Washington, l’ufficio federale che gestisce le statistiche demografiche, a fornire questi dati. Ne fornisce anche altri. Per esempio quello relativo alla popolazione scolastica complessiva, dalla materna all’università. Si tratta di 74,9 milioni di giovani e giovanissimi americani, quasi un quarto della popolazione. Questa la suddivisione fra i vari ordini di scuole: 8,6 milioni nelle materne e nelle preschools, 32,5 nelle elementari, 17,1 nelle secondarie, 16,7 nei colleges. Ovviamente i dati sull’andamento delle nascite permettono facili proiezioni del fenomeno nei prossimi anni: si prevede dunque che la popolazione scolastica si manterrà su questi livelli ancora per qualche tempo, per poi registrare un leggero ridimensionamento attorno al 2010 (a causa di un calo della natalità negli anni Novanta) e puntare nuovamente verso l’alto negli anni successivi.

I quasi cinquanta milioni di alunni registrati nelle dodici classi comprese fra i sei e i diciotto anni d’età rappresentano una sfida assai impegnativa per il sistema scolastico degli Stati Uniti. Anche perché il fenomeno si presenta diffuso in modo tutt’altro che uniforme: la pressione è maggiore nei distretti attorno alle grandi aree urbane e in alcuni stati del West come la California o il Nevada. Il Census Bureau fa sapere a titolo d’esempio che i distretti attorno a Houston, Atlanta e Las Vegas sono alle prese con aumenti della popolazione scolastica del venti per cento negli ultimi cinque anni. I problemi che ne conseguono riguardano gli organici docenti, le classi sovraffollate, la necessità di corsi preliminari d’inglese per i piccoli immigrati o appartenenti a famiglie naturalizzate da poco tempo. Infatti oltre un quinto degli studenti americani ha almeno un genitore nato all’estero.

In alcune aree, per esempio nella parte più settentrionale del Midwest in cui l’immigrazione è marginale, mentre gli effetti di secondo grado del baby boom sono compensati dalla tendenza di molte famiglie a trasferirsi in altre parti degli Stati Uniti dove maggiore è l’offerta di lavoro, si registra il fenomeno esattamente opposto: una progressiva riduzione degli alunni che porta alla chiusura di numerose scuole. I problemi che ne conseguono sono di natura completamente diversa: per esempio in certi distretti rurali ci sono ragazzi costretti a un’ora, addirittura due ore di bus per presentarsi alle lezioni.

Di particolare interesse i dati relativi alla composizione etnica delle classi americane, che negli ultimi tempi è stata sensibilmente modificata dai fenomeni migratori. I ragazzi “bianchi non ispanici”, come recita la classificazione ufficiale, che nel 1970 costituivano il 79 per cento degli alunni nelle dodici classi (elementare più high school), nel 2003 sono scesi al 60 per cento. Nello stesso periodo i neri sono saliti dal 14 al 16 per cento, gli asiatici dall’1 al 4 mentre gli hispanics, la minoranza di lingua spagnola che costituisce il gruppo di più forte espansione, sono balzati dal 6 al 18 per cento. Anche la dispersione scolastica colpisce in modo etnicamente differenziato: riguarda infatti il tre per cento dei bianchi e il cinque di neri e ispanici.

Quanto all’istruzione universitaria, le statistiche avvantaggiano prevedibilmente i bianchi, ma anche gli asiatici, penalizzando neri e ispanici. La cifra di 16,7 milioni di ragazzi che nel 2003 frequentavano i colleges è infatti composta da un 68 per cento di bianchi, un 13 di neri, un 7 di asiatici e un 10 per cento di ispanici. Le statistiche federali forniscono infine un dettaglio di particolare interesse: fra i giovani americani che affollano i colleges le ragazze si ritagliano la parte del leone: raggiungono infatti il 56 per cento.

 

                                      r.f.l.

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