FOGLIO LAPIS - GIUGNO 2005

 
 

Non bastano le buone intenzioni per guarire i mali immensi del continente, né serve a molto una politica di aiuti in bilico fra assistenza caritativa e disordine organizzativo, e per di più indebolita da egoismi nazionali e bilanci asfittici – Sono del tutto inutili quegli sforzi che ignorano l’esigenza fondamentale dello sviluppo – Bisogna puntare sulle priorità vere: costruire scuole invece che mandare armi, rilanciare l’agricoltura invece che regalare cibo

 

Hic sunt leones, stava scritto una volta sulle carte dell’Africa: qui stanno i leoni. Con la sola eccezione della parte settentrionale affacciata sul Mediterraneo e della valle del Nilo, del continente si conoscevano soltanto le coste e una fascia più o meno ampia a ridosso del mare. Il resto era leggenda, misteriose profondità dalle quali emergevano avorio e schiavi: era il cuore di tenebra, la terra dei leoni. Poi l’esplorazione permise di conoscere l’immensità di quel pezzo di mondo, i suoi fiumi, i deserti e le foreste, la sua umanità varia e vitale. Ancora pochi decenni, e in lontane capitali europee ecco i diplomatici all’opera per farsi a fette l’immenso territorio. E così comparvero carte finalmente dettagliate con le loro grandi macchie di colore: rosa le colonie di sua maestà britannica, violacei i possedimenti francesi, verdi quelli italiani. Poi arrivò la decolonizzazione: culminata all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso nell’indipendenza di una ventina di paesi e conclusa, a metà dei Settanta, con la libertà tardivamente restituita a quello che fu l’impero portoghese.

Oggi la rappresentazione cartografica del continente offre un fitto reticolo di frontiere che dividono alcune decine di stati. Sono gli stessi confini che avevano tracciato le potenze coloniali, tagliando spesso popolazioni omogenee perché obbedivano a criteri ben diversi da quello etnico, criteri di ordine strategico o economico, perfino capricci di corte. La frontiera fra Kenya e Tanzania, una linea con andamento sudest-nordovest, a un certo punto volta bruscamente, per includere il monte Kilimangiaro in territorio tanzaniano: fu una rettifica, un grazioso dono della regina Victoria a suo nipote, il Kaiser Guglielmo II, che aspirava a veder troneggiare nei suoi possedimenti africani una vetta oltre i cinquemila metri. Il Kenya era infatti britannico, l’allora Tanganyika germanico: anche se i nomadi Masai che percorrevano le terre divise dal confine, sudditi a volte di Londra a volte di Berlino, erano ben lontani dal concepire simili diavolerie geopolitiche. Altra bizzarra creazione delle cancellerie europee la striscia di Caprivi, che impedendo il contatto del Botswana con l’Angola e la Zambia prolunga fino allo Zimbabwe il territorio della Namibia. Prende il nome dal Reichskanzler Leo von Caprivi, il successore di Bismarck, che voleva garantire al possedimento tedesco dell’Africa di Sudovest (nome coloniale della Namibia) l’accesso alle acque dello Zambesi.

All’interno di queste frontiere artificiali i paesi africani combattono la loro ardua battaglia per lo sviluppo. Bisogna dire che a mezzo secolo dalla decolonizzazione il bilancio non potrebbe essere più deludente, né in più netto contrasto con gli entusiasmi sollevati a suo tempo dall’affacciarsi dei nuovi stati sovrani sulla ribalta internazionale. Il solo barlume di luce è rappresentato dalle speranze suscitate dall’Unione africana e dai suoi propositi di una sempre più stretta integrazione: ma anche questo è un cammino accidentato, irto di ostacoli, frenato da difficoltà oggettive e egoismi nazionali. Nell’attesa dei tempi migliori che può suggerire una buona dose di ottimismo della volontà, il quadro dell’oggi è spaventoso. Cominciamo con il dato che più interessa i lettori di questo nostro periodico, quello che si riferisce alla scuola. Ebbene, nel continente abitato da mezzo miliardo di persone sono centoventi milioni i bambini e ragazzi in età scolare privati dell’istruzione. La condizione dell’infanzia è allarmante anche da altri punti di vista: per esempio sono quattordici milioni i bambini ai quali l’Aids ha strappato uno o entrambi i genitori.

Vogliamo completare il quadro? È persino difficile inserirlo in una dimensione intercontinentale: infatti dei trenta paesi che guidano la drammatica graduatoria internazionale della mortalità infantile, ventotto sono africani (le due eccezioni si chiamano Cambogia e Afghanistan). E ancora: la parte subsahariana del continente, l’Africa nera insomma, presenta la tragica singolarità di essere l’unica regione del mondo in cui negli ultimi decenni la speranza media di vita si è accorciata invece che allungarsi. E poi le guerre e le guerriglie, nonostante gli sforzi dell’Unione africana se ne contano una quindicina e hanno fatto milioni di morti, soprattutto nel Congo e nel Ruanda, alimentando i lucrosi commerci dei mercanti di armi.

Esiste un terzomondismo militante che tende a scaricare sull’Occidente ogni colpa del disastro. Con analisi così approssimative non si fa molta strada. Certo l’Occidente ha le sue colpe e non sono poche, ma non bastano a fornire una corretta chiave di lettura. La tratta degli schiavi non fu soltanto occidentale, e a vendere la merce umana erano i capi delle etnie africane. Lo stesso colonialismo non fu soltanto brutale conquista ma s’intrecciò spesso con lotte di potere locali. La corruzione che corrode le economie del continente non si può definire una piaga esclusivamente esogena. Autentiche responsabilità furono invece l’assalto alle identità culturali (anche attraverso il proselitismo missionario) e lo sfruttamento economico fondato spesso su pratiche predatorie. Come le monocolture di prodotti di pregio (cacao, caffè, cotone, arachidi) che distrussero l’agricoltura di sussistenza. Una volta si coltivava la terra per ricavarne cibo destinato a tutti, non denaro riservato a pochi. Un errore analogo lo si sta compiendo oggi attraverso la politica degli aiuti. Nel continente assediato dalla fame arrivano carichi di cibo, che fra l’altro servono a smaltire le nostre eccedenze agricole, ma al di là della necessità contingente questa pratica è controproducente, fa infatti diminuire la propensione al lavoro e svaluta i risultati della fatica. Che bisogno c’è di piegarsi nei campi se prima o poi arrivano navi e aerei carichi di grano?

Bisognerebbe invece investire sull’agricoltura, aiutare gli africani a frenare la spinta all’urbanesimo, che è insieme conseguenza e causa della progressiva desertificazione del continente, trasforma le città in desolate megalopoli popolate di gente senza lavoro, moltiplica nei formicai urbani le insidie sanitarie. La malnutrizione, la malaria, la tubercolosi sono fra le più frequenti cause di morte. E soprattutto l’aids, che in certi paesi ha svuotato di personale gli uffici, i servizi, le scuole. Anche in materia sanitaria l’enfasi dovrebbe essere posta non tanto sull’invio di farmaci (che pure sono necessari nell’emergenza) quanto sulla creazione di strutture stabili, sulla formazione di medici e infermieri, sulla diffusione delle informazioni necessarie alla prevenzione. Lasciando perdere certi paralizzanti pregiudizi ideologici o religiosi: per esempio l’aids può e deve essere combattuto diffondendo l’uso di profilattici, anche se si tratta al tempo stesso di strumenti anticoncezionali sgraditi agli integralisti delle varie fedi.

La comunità internazionale ha indicato da tempo un obiettivo per affrontare i problemi dello sviluppo in Africa e altrove: destinare alla cooperazione lo 0,7 per cento della ricchezza prodotta. Purtroppo ne siamo lontanissimi: attualmente la media fra i paesi donatori non raggiunge lo 0,25 per cento. In tutto fanno 56 miliardi di dollari all’anno: la cifra è imponente ma è circa la metà di quanto servirebbe, secondo la Banca mondiale, per finanziare i progetti in corso. Pochi giorni or sono è stata annunciata la cancellazione di una parte della montagna di debiti che i paesi poveri hanno accumulato nei confronti dei ricchi: gran bella cosa, ma i suoi effetti concreti sono limitati a quei casi in cui la restituzione del dovuto era di fatto iscritta nei bilanci. In molti altri paesi quei debiti erano già stati cancellati, in pratica, dall’evidente impossibilità di rimborsarli.

L’Africa ha ricevuto nel 2004 aiuti per circa diciassette miliardi di dollari, ma in buona parte sono stati assorbiti dai costi di funzionamento delle agenzie internazionali, mentre un’altra parte si è perduta nei meandri della corruzione. Inoltre gli aiuti sono spesso condizionati da clausole che rispecchiano interessi nazionali: per esempio si offre di finanziare la costruzione di una diga o di una fabbrica, a patto che a realizzarla siano imprese del paese donatore. Ovviamente non sono quasi mai quelle che offrono le condizioni migliori. È necessario mettere ordine in tutto questo, coordinare interventi più efficaci e disinteressati. Bisogna che ci abituiamo, noi gente dell’Europa e dell’Occidente, a sentirci direttamente coinvolti nella grande questione africana. Se qualcuno non si sentisse abbastanza motivato da un dovere elementare di solidarietà umana, possiamo ricordargli che sono in gioco anche i suoi interessi: vogliamo o non vogliamo attenuare, se non rimuovere, le ragioni che spingono alla fuga milioni di persone, esuli obbligati dalla miseria che bussano alle nostre porte? Invece di abbandonarci a vani piagnistei terzomondisti dobbiamo calarci nel concreto: per esempio favorendo un massiccio programma di investimenti nell’istruzione, capaci di creare generazioni in grado di raccogliere la sfida. Infatti se si fanno le scuole, il resto prima o poi verrà da sé.

 

                                      Alfredo Venturi

Torna al Foglio Lapis giugno 2005

 

Mandaci un' E-mail!