Tra il dire e il fare

L’incontro con due personalità esemplari, espresse rispettivamente dalla Francia cristiana e dalla Francia laica: l’Abbé Pierre fondatore di Emmaus e Bernard Kouchner creatore dei Medici senza Frontiere – La lezione di un impegno concreto, diretto al cuore dei bisogni umani: nei due casi specifici il bisogno della casa e quello della salute – Quando "farsi carico" è ben altro che una vuota espressione retorica

Li ho incontrati a Parigi perché mi sembrava di non poterne fare a meno, per quella mia idea, fissazione forse, secondo cui i problemi della scuola troveranno soluzione soltanto se sarà a società intera a interessarsene. Ed anche a causa di un’abitudine che ho in comune con loro, l’essere sempre pronta a scendere in campo personalmente, dovunque esista il problema per cui si batte la Lapis, almeno per tentare di "fare" qualcosa anziché soltanto "dire". L’Abbé Pierre fondatore di Emmaus e Bernard Kouchnern creatore dei Medici senza Frontiere, e poi dei Medici del Mondo, per noi nati intorno agli anni Sessanta, noi che se pur piccoli abbiamo respirato quel desiderio di rinnovamento che portò il vento del ’68, loro due, così diversi ma così simili nell’impegno pratico alla soluzione dei mali della società, hanno rappresentato qualcosa di veramente nuovo, anche rispetto ai giovani studenti d’allora che pretendevano quel rinnovamento: ma che poi troppo spesso, diventati adulti, dopo tante chiacchiere, tanto "politichese", tanti sit-in davanti alle stanze del potere, hanno finito con l’indossare giacca e cravatta diventando più arroganti e inconcludenti degli anziani contestati, che oltre alla notevole preparazione professionale ebbero almeno il merito di lasciarsi contestare con stile: due elementi che oggi ai vertici non sempre abbondano. L’Abbé Pierre, ad un certo punto della sua vita, si guardò intorno e prese atto che erano tanti, troppi, i senzatetto, non aspettò un cambiamento della politica sociale del suo paese, la Francia. Diventò lui medesimo la soluzione. "Farsi carico", per usare l’espressione tanto cara a chi in genere risolve nel "dire" tutta la sua carica di energia, il suo impegno a favore della collettività, per poi sentirsi a posto con la coscienza. Quel "farsi carico" appunto è per lui la realtà di tutta la vita. E mi si permetta di affermare che fin dall’inizio non fu nemmeno l’abito che indossa il motivo che lo spinse perfino a mendicare per aiutare i suoi poveri: quel giovane di buona famiglia, poi frate, nella sua letterale interpretazione della parola di Cristo nonha fatto molti adepti tra quelli che vestono come lui. Colpiscono le sue prese di posizione da uomo libero e cosciente, per esempio sulla questione del controllo delle nascite, nonostante il condizionamento subito all’interno della rigida struttura di cui fa parte, la Chiesa cattolica. Leggendo i suoi scritti una frase in particolare ci illumina sulla grandezza, data dalla semplicità, di questo essere umano: "quando mi trovo davanti un ragazzo di vent’anni provo ancora la stessa sensazione di quando, bambino, pensavo che fosse lui il grande". Un bambino di quasi novant’anni a noi della Lapis ha detto che la scuola è essenziale perché ciò che i bambini apprendono in quella sede può essere altamente educativo anche per i loro genitori. Per tradizione di civiltà, la Francia usa chiamare figure come questa e come quella del fondatore di Medici senza Frontiere nei centri di decisione: l’Abbé Pierre è stato deputato e Bernard Kouchner, oggi segretario di stato alla Sanità, è un politico d’eccezione, di quelli che come ha auspicato il nostro Presidente nel suo discorso augurale per il nuovo anno usano "servire il popolo", non servirsi del popolo. Un politico illuminato, versatile, con l’ottimismo di chi non ha mai smesso di lottare per gli ideali da cui è partita la sua azione. Un uomo che scrive: "A chi appartiene la sofferenza degli uomini? Agli altri uomini. Per aiutarne uno non aspettare d’aver trovato la soluzione per salvarli tutti". E ancora: "Nessuno ci costringeva a sentire quei lamenti, a tendere l’orecchio al di sopra degli oceani, a leggere i giornali con tanta attenzione per indovinarvi il più flebile richiamo. Non sentivamo gli uomini genere, ne avevamo il sospetto". E questo bastava per farlo partire con i suoi colleghi medici, rischiando la vita per alleviare la sofferenza di altri esseri umani. Un modo di vivere la politica, di "fare"politica, che vorremmo ritrovare nei nostri ministeri, quando bussiamo a quelle porte per farci interpreti del malessere di chi non ha voce. Ma dietro quelle porte può anche capitare – è capitato a chi scrive – di sentirsi dire da persone investite di alte responsabilità direttive che "la gente non fa che lamentarsi", dunque "non bisogna dar retta alla gente". Noi cerchiamo di scoprire che cosa c’è dietro i lamenti, e anche che cosa c’è dietro i silenzi. Per poi passare dal dire l fare, secondo l’insegnamento di uomini come Kouchner e l’Abbé Pierre, nel nome dei quali vi auguriamo Buon Anno.

                                       Marilena Farruggia Venturi
                                        Presidente LAPIS

 

Abbé Pierre: una scuola che duchi i genitori

Secondo il fondatore di Emmaus i valori della tolleranza appresi sui banchi possono arrivare alle famiglie attraverso i figli, contrastando efficacemente certi pregiudizi come il razzismo – La grande piaga dell’analfabetismo, o della alfabetizzazione insufficiente, nell’era della comunicazione globale – La democrazia è un bene prezioso: ma vivrà soltanto se sarà continuamente tormentata dal pensiero della minoranza senza voce degli emarginati

Nonostante gli sforzi della solidarietà, io secolo sta per concludersi con una situazione molto negativa del livello di vita e della promozione umana e sociale della popolazione del mondo. Ci sono speranze che il prossimo secolo possa essere più soddisfacente da questo punto di vista?

"E’ possibile, e sotto la responsabilità di tutti. Viviamo, grazie a Dio, in regimi di democrazia, il che vuol dire che coloro che governano consultano e ascoltano l’opinione pubblica. Ma in questi paesi come l’Italia o la Francia la maggioranza è composta da persone che non sono in miseria, dunque gli altri non sono che una minoranza, e questo in democrazia è una debolezza. La minoranza non è quella che si fa sentire, quindi i candidati, gli elettori si preoccupano di soddisfare i desideri di miglioramento di coloro che non ne avrebbero bisogno perché hanno già abbastanza, piuttosto che i desideri di quelli che non hanno l’indispensabile. Quello che ci vuole è una conversione nel cuore di coloro che hanno affinché si dicano ‘e gli altri?’. Se non ci convertiamo tutte le mattine stropicciandoci gli occhi e chiedendoci ‘che cosa farò oggi affinché gli eletti, i ministri, mettano in primo piano la preoccupazione di salvare coloro che si sono perduti?’, se non c’è questo la democrazia inevitabilmente dopo un certo tempo sfocia in dittatura, appoggiandosi ai disperati… Guardiamo come si è formata l’orribile avventura, breve ma terribile, di Hitler: tutto è nato perché ha fatto appello allo spirito di rivalsa per la disfatta del ’18 e alla disperazione di quelli che in Germania erano in quel momento una maggioranza… Sappiamo benissimo che di demagoghi ne esistono, non c’è bisogno di fare i loro nomi, in Francia e in Italia, che possono rilanciare l’avventura hitleriana. Dunque stiamo attenti, la democrazia è quanto vi è di meglio, ma se non è ogni giorno tormentata dal pensiero degli emarginati, della minoranza, potrebbe essere un giorno distrutta".

In questi ultimi anni le politiche di stabilità hanno limitato in molti paesi gli investimenti sociali. Più recentemente c’è stato un certo cambiamento. Quale sarà il ruolo del sociale nell’avvenire dell’Europa e del mondo? La priorità sarà l’uomo o l’economia?

"Dobbiamo guardare la realtà alla luce del passato storico. Noi tutti sentiamo persone eccellenti che gemono dicendo: l’Europa che si sta facendo è l’Europa del business, degli affari, del denaro. Io dico loro: ma siate un po’ realistici, guardate il passato storico, quando mai si sono visti due gruppi umani, due province unirsi perché vi siano ferie retribuite, assegni familiari, previdenza sociale? Lasciate che l’Europa si faccia così come si fa, altrimenti non si farebbe, forse ci disgusta ma si farà attraverso il business, ma quando si sarà formata, allora dovrà iniziare nell’unione dei sindacati, dei movimenti tradizionali che fanno avanzare le leggi, dovrà iniziare la lotta per leggi sociali europee. Questo d’altra parte non è un sogno, dal momento che quando c’è stata la chiusura di una fabbrica automobilistica in Belgio, vantaggiosa per gli operai delle fabbriche francesi, abbiamo visto una manifestazione comune di quelli che erano stati colpiti dal provvedimento, gli operai licenziati, e quelli che ne traevano vantaggio. E’ stato probabilmente il primo sciopero internazionale, non si era mai vista una cosa del genere. Lasciate che l’Europa si faccia col business, e poi preparatevi a movimenti di rivendicazione ragionevoli, ben studiati e sopranazionali".

L’analfabetismo è una forma di povertà dell’uomo e della società. Che ruolo assegna all’alfabetizzazione nell’ambito degli investimenti sociali e della solidarietà?

"Nel suo paese, l’Italia, come nel mio, la Francia, la maggioranza non è cosciente della percentuale di bambini e di adulti che forse non sono proprio analfabeti, conoscono l’abc, ma che sono illetterati, non sono capaci di leggere una riga, un articolo di giornale. All’epoca del servizio militare obbligatorio quando la recluta entrava in caserma si provava a fargli fare una pagina di scrittura, ma le percentuali di coloro che non sapevano scrivere tre righe era spaventosa. La nostra epoca ha caratteristiche che non si erano mai viste nella storia dell’umanità. Una di queste caratteristiche è la possibilità di far sì che nessuno più possa dire, di fronte a un evento o una disgrazia, non si sapeva, non lo sapevamo. Quando Pol Pot ha fatto scomparire la metà della popolazione del suo paese, lo sapevamo, e nessuno ha fatto niente. E di ciascuna delle catastrofi, delle disgrazie che accadono, noi siamo informati. L’importante è che dall’informazione, che ci rende consapevoli dell’analfabetismo, si passi all’azione prendendo iniziative, quartiere per quartiere, quasi casa per casa, di aiuto reciproco fraterno, dove quello che sa leggere non faccia il furbo ma consideri che lui e i suoi genitori sono stati colpevoli, perché non si sono preoccupati di assicurare realmente l’alfabetizzazione".

In Italia quasi 500 mila bambini che dovrebbero frequentare la scuola non rivanno…

"Io, se non le ho su un foglio di carta, nelle cifre mi riperdo. Comunque non conta la cifra, 500 mila o 300 mila, non ha molta importanza. Anche se fossero soltanto dieci dovremmo dirci, svegliamoci!"

La società europea è sempre più multietnica e multiculturale. Ma ci sono reazioni di xenofobia e di razzismo. Che cosa pensa del ruolo della scuola in proposito? Ritiene possibile una scuola che sia in grado di integrare senza necessariamente assimilare?

"E’ certamente possibile, non mancano esempi in cui, grazie a Dio, si è realizzato. Penso che sia giusto insistere sulla scuola, perché questo processo deve iniziare dai genitori, mamma e papà, ma se è vero che sono mamma e papà a segnare, talvolta per il resto della loro vita, i loro bambini con quello che per loro è primordiale, è ugualmente vero che sono i bambini della scuola a far evolvere i genitori. I genitori possono essere più o meno razzisti, avere avversione per uno che è nero… ma se vedono i loro ragazzi a scuola giocare senza farci assolutamente caso con il bianco, il nero e il meticcio, allora l’educazione stessa dei genitori si fa attraverso quella dei bambini data nella scuola. E poi non c’è solo la scuola vera e propria, c’è la scuola della vita religiosa, le parrocchie, tutti i raggruppamenti spirituali. Ma questi lo fanno? Fanno capire che non è perché i bianchi sono migliori che Gesù è nato in una razza bianca, ma che sarebbe potuto altrettanto bene nascere in una razza nera?"

 

Bernard Kouchner: per un mondo migliore

Il fondatore di Médécins sans Frontières, oggi segretario di stato alla Sanità nel governo francese, guarda con fiducia al futuro – Le preoccupazioni sociali sono tornate finalmente all’ordine del giorno nell’agenda europea – Ma per guarire le grandi piaghe del mondo occorre l’impegno di tutti – Solo così il ventunesimo secolo potrà riservarci delle belle sorprese – Il ruolo essenziale della scuola, anche in materia di integrazione, e la priorità della lotta contro l’analfabetismo

"Il ventunesimo secolo? Credo che difficilmente potrà essere peggiore del ventesimo. Non può che migliorare, credo". Bernard Kouchner, l’uomo che 28 anni fa lanciò con Médécins sans Frontières la grande sfida di una solidarietà laica e militante, oggi segretario di stato alla Sanità nel governo di Lionel Jospin, reagisce con un ottimismo venato di ironia alla domanda che gli abbiamo posto. Gli abbiamo ricordato le parole di un personaggio minore dei Miserabili, il grande romanzo sociale di Victor Hugo ambientato nei primi decenni dell’Ottocento: "Il nostro secolo è assai cruento, ma il ventesimo secolo sarà felice…" Beh, sappiamo com’è andata… "Quello che volge alla fine", osserva Kouchner, "è stato il secolo dei massacri più imponenti, dei genocidi, come potrei dire, insuperabili. Ma credo che il ventunesimo secolo, se gli uomini non sono egoisti, se lo sono di meno, se si prendono carico del destino degli altri e non solo del proprio, non può che migliorare. La produzione, l’economia, tutte queste cose hanno fatto molti progressi. Se volessimo prenderci carico dei quaranta milioni affetti dall’AIDS nel Terzo Mondo lo potremmo fare: è una questione di volontà di ognuno di noi, non di volontà politica, l’espressione ‘volontà politica’ è stupida. Uno stato non può prendersi carico di questo, ci vorrebbe una volontà collettiva, potremmo farlo… No, penso che il ventunesimo secolo ci riservi delle belle sorprese. Ma sarà necessario, come posso dire, metterci del nostro, sarà necessario dar prova di grande volontà". C’è dunque speranza che venga corretto il bilancio così negativo di oggi in materia di condizioni di vita nella maggior parte dei paesi del mondo? Kouchner insiste sul concetto della partecipazione individuale: "ci sono speranze ma ciò necessita un impegno e una presa di coscienza molto chiari e un impegno costante; ci sono speranze perché ci sono delle cose che progrediscono. Globalmente nei paesi ricchi la situazione migliora, nonostante ci siano sacche di miseria e precarietà rilevanti, ma la situazione migliora nei paesi ricchi. Nei paesi poveri solo il problema dell’AIDS è terribile: ci sono quaranta milioni di persone che moriranno se non facciamo nulla, quindi ci vogliono degli sforzi di solidarietà. Sì, c’è speranza, se gli uomini e le donne di questo pianeta capiscono che si tratta di un loro problema individuale, che non devono semplicemente aspettare il denaro dalle amministrazioni o dai politici, bisogna che si impegnino in prima persona in questa lotta". Segretario di stato in un governo di sinistra, Kouchner registra con soddisfazione come le necessità dell’uomo stiano tornando in primo piano fra le priorità dell’azione politica, almeno a livello di Unione Europea. "Finalmente in Europa la concezione sociale viene collocata in primo piano, prima di quella economica. Naturalmente l’economia è necessaria, se l’economia non funziona, se non vi è sviluppo, non ci sarà il sociale. Ma l’abbiamo visto recentemente al vertice francotedesco di Potsdam: la Francia e la Germania, che contano in Europa, così come l’Italia, l’Inghilterra in un certo modo – ci sono tredici paesi socialisti o socialdemocratici in Europa che hanno dichiarato essenziali le preoccupazioni sociali, più ancora delle preoccupazioni della costruzione economica. Questa è una novità, vuol dire piani sociali, vuol dire patti di lavoro, vuol dire determinazioni economiche che forniranno, io spero, lavoro". Si aprono dunque spazi nuovi per affrontar certi mali della società, a cominciare da quelle patologie di fondo che si chiamano analfabetismo, razzismo… "L’analfabetismo, certo. In Francia si fa uno sforzo considerevole, ma ciononostante c’è ancora un tasso di questo fenomeno che è insieme incomprensibile e intollerabile. Va depistato, combattuto. Perché con l’analfabetismo niente educazione, e senza educazione niente progresso". Il razzismo è un problema forse ancora più complesso, e che introduce o fa da sfondo ad alcuni corollari, per esempio la questione di una integrazione libera dall’arrogante pretesa dell’assimilazione. "Sì certo, è un lungo dibattito. Assimilazione… integrazione… Quello che conta è non essere razzisti e non esibire queste reazioni scandalose che si vedono ancora nel nostro paese più ancora che nel resto d’Europa, alludo all’estrema destra. L’integrazione a scuola è essenziale, la scuola è essenziale. Adesso si chiede molto alla scuola, si chiede molto agli insegnanti, si chiede molto a questa istituzione fondamentale. Credo che vi sia uno sforo individuale anche al di fuori della scuola, cioè una istruzione civica, una iniziativa dei cittadini e dei gruppi sociali. A scuola naturalmente si impara ma dopo, uscendo da scuola, dobbiamo continuare a ‘fare lezione’, se così posso dire, dobbiamo continuare a occuparcene, a prenderci carico di questo problema, altrimenti l’integrazione non funzionerà".

 

Insegnare la Fantastica: l’ultimo caso

Un laboratorio di poesia realizzato con la tecnica della "Fantastica" – Brunelleschi e il "voto" della sua cupola impropriamente riempito – Abbandonarsi alla parola, lasciarsi dominare dall’oggetto – Il fascino della creatività, intesa come capacità di rompere continuamente gli schemi dell’esperienza – Sei punti fondamentali a uso degli operatori di Fantastica per i bambini

28 febbraio 1996.

Pongo questa data per scrivere nel giorno che Fini disse a Dini: "Sei Pinocchio". Devo ricordare il laboratorio di poesia realizzato preso la ala "Lorenzo il Magnifico" della Biblioteca Nazionale di Firenze con la tecnica della Fantastica., fui a Firenze quattro volte meravigliose, quasi cupolari: il 17, il 24, il 31 gennaio e il 7 febbraio 1995, per costruire un laboratorio di poesia formulato sulla base di un principio di Fantastica che si chiama "la libertà di essere dominati dall’oggetto". Se i mkiei interlocutori fossero "nati domi", cioè cupole: "Laghi di fiamma sotto / i domi azzurri" (Carducci), o più semplicemente operatori di Fantastica per i bambini, potrei ripetere loro sei punti che mi sembrano fondamentali:

1. Ogni bambino obbedisce ai suggerimenti dell’oggetto che ha in mano (del "suo" giocattolo), imparando ad usarlo nel gioco a cui è destinato, battendo tutti i sentieri che esso offre alle sue attività. Lo usa anche come mezzo per esprimersi, quasi incoraggiandolo a rappresentare i suoi drammi. Il giocattolo è lo scoiattolo del gioco, il mondo che egli vuole conquistare e con il quale si misura; ma è anche una proiezione, un prolungamento della sua persona.

2. Inventare storie, fare "poesia come fare" con i giocattoli è quasi naturale, è una cosa che viene da sola. La poesia non è che un prolungamento, uno sviluppo, una esplosione degli scoiattoli del gioco.

3. L’operatore di Fantastica ha sul bambino, mentre gioca con lui, il vantaggio di disporre di un’esperienza più vasta, di poter spaziare più lontano con l’immaginazione. Il gioco riarricchisce, conquista organicità e durata, si apre su nuovi orizzonti.

4. Non si tratta di giocare al posto del bambino, ma di giocare "con" e "per"lui, per stimolare la sua capacità inventiva messa in gioco come nella messa, per consegnargli i nuovi strumenti che userà quando gioca da solo, per insegnargli a giocare. E mentre si gioca, si parla, nasce la lingua. L’operatore di Fantastica impara dal bambino la libertà di essere dominato dall’oggetto, a parlare al giocattolo come Geppetto parlava a Pinocchio già da quando era stato un semplice pezzo da catasta. Impara dal bambino a parlare ai "pezzi" del gioco; ad assegnare loro ruoli e nomi, a trasformare un errore in un’invenzione,un gesto in una storia. Impara dal bambino ad affidare ai pezzi del gioco certi messaggi segreti che dicano al bambino che gli vogliamo bene, che può contare su noi, che la nostra forza è la sua. Nasce così un Teatrino in cui agiscono gli oggetti ed entrano in scena i parenti: un po’ alla volta, tutto l’ambiente; appaiono e scompaiono personaggi fiabeschi… Il vero problema è che la realtà assomiglia alla fantasia più sfrenata. Dunque, la Fantastica deve essere anche una Realistica. Se il mondo intero è un teatrino (una ribalta), il bambino si salva se ricorda "questo bambino", e insieme all’operatore di Fantastica saprà scrivere un nuovo "vocabolario politico", senza il quale qualsiasi futuro sarà solo "rapina di futuro".

5. Se il giocattolo viene costretto e limitato a un ruolo prevalentemente "tecnico", allora sarà rapidamente esplorato, esaurito; il bambino e l’operatore di Fantastica incontreranno nel gioco anche la noia. Saranno necessari i mutamenti, i "tradimenti", i colpi di scena, i salti nell’assurdo che favoriscono la scoperta.

6. L’operatore di Fantastica dovrà imparare dal bambino i principi essenziali della drammatizzazione legata alla persona (che, probabilmente, deriva dall’etrusco phersu), in origine "maschera degli attori", poi, per estensione, "personaggio, individuo". E saranno poi loro, gli adulti, a portare questa drammatizzazione a un livello più alto e stimolante di quanto non possa fare, con le sue forze che restano deboli e limitate, il piccolo inventore.

Formulati questi sei punti, avrei potuto costruire un laboratorio di Fantastica per operatori destinati a ogni bambino. Ma i miei interlocutori erano adulti e basta (tra loro c’era – è vero – qualche buona pasta) di Firenze e provincia. Mi trovavo nella città del Cupolone. "Dentro ci si deve poter ottenere il voto!", dissi ai miei interlocutori. E continuavo: "L’arte del poeta è come quella dell’architetto. Brunelleschi ne sapeva qualcosa. Ma i suoi voti non sempre sono capiti. Per esempio, i voti rotondi esterni dell’Ospedale degli Innocenti vennero subito ricoperti da formelle di terracotta. Entrando in Duomo, a Firenze, ci vuole poco a capire che la cupola del Brunelleschi, così come è stata restaurata negli affreschi che già la deturpavano, per essere data in pasto alle televisioni, ha perso il senso del voto, è profondamente offesa. Andava, semplicemente, riportata al nitore della prosa dell’intonaco iniziale e alla forza della pietra. Perché nell’architettura, come nella poesia, esiste soprattutto una forza cosmica… E non siamo più nemmeno umoristi! L’umorismo, diceva Heine, è l’arte di mostrare il volto in lacrime e subito dopo il didietro. E i più non sapevano, e non sanno, che secondo la visione del Brunelleschi l’architettura come cristallo era l’equivalente interno, non solo l’esterno della strofe stereometrica, per l’integralità poetica, cioè cosmica, di apparenza e di struttura…" Mi pare dissi questo. Ma però ho aggiunto qualche parola di troppo. Chi seguiva il laboratorio, se lo ricorderà sicuramente meglio di me. Ma veniamo a Fini, che dice a Dini, il 28 febbraio, "Sei Pinocchio", bestemmiando contro la Fantasia. Perché le bugie di Pinocchio sono creazione vera, pura, illimitata, e non c’è nessuno, purtroppo, che le sappia dire. E’ terrificante! "Attenzione a giocare coi cognomi", dico sempre: "…perché sono pieni di gnomi! Un Mancino contrariato può essere pericoloso a se stesso e agli altri. Un Violante può essere una viola dentro una volante… E gli operai non ci sono più! Lo capissero destra e sinistra, che hanno coperto di sole il paese reale. Tutti gli usi della parola tutti – sosteneva Gianni Rodari – è certamente un bel motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo… Creatività è sinonimo di pensiero divergente, cioè capace di rompere continuamente gli schemi dell’esperienza (anche politica, dico io). E’ creativa una mente sempre al lavoro, sempre a far domande, a scoprire problemi dove gli altri trovano risposte soddisfacenti, a suo agio nelle situazioni fluide nelle quali gli altri fiutano solo pericoli, capace di giudizi autonomi e indipendenti, che rifiuta il codificato, che rimanipola oggetti e concetti senza lasciarsi inibire dai conformismi… E’ creativa – dico io – una mente che si lascia tentare. Come è efficace la tentazione! Bisogna "tentare" per "essere tentati" dalla Fantasia. Avrebbero riconosciuto i miei interlocutori, di esserci incontrati già là dove il sole rivela la purezza delle serpi?… Forse qualcuno mi aveva già visto,o doveva aver sentito parlare di me, perché costruimmo insieme quest’oggetto di parole, accettando la libertà di essere dominati da lui:

La purezza delle serpi
Il prurito della luce
Il bilancio delle foglie
Il bellocchio della strega
La camicia della via
Il pattume della palla
La pensione rediviva
Il solletico del cacio
La rivolta della tassa
Lo svolazzo dell’imposta
La fatica del sedere
La chiusura dell’aperto…

Titolo, Gabbiani come cambiali. Glielo do ora io, perché in "Fantastica" si può sempre aggiungere o togliere qualcosa, o niente. Perché il niente è come il voto: è molto importante. Il primo verso dell’oggetto di parole considerato, la purezza delle serpi, era venuto fuori l’anno precedente, il 5 maggio 1994… Ricordando il Manzoni?… Chi stavano ricordando,i miei interlocutori, prima di me?… Napoleone?… "L’ultimo caso che ricordo, è quello di un frustone di due metri che stava al sole d’agosto davanti alla mia casa. Vedendomi ha cercato di fuggire, ma io con uno spazzolone sono riuscito a giocarci un po’", diceva Ivo Morini, l’anno precedente, e Alma Borgini, l’anno dopo, avrebbe scritto la Vèrmicia (Manifesto biologico del Futurismo): "La lucertola non è un animaletto verdastro che guizza su un muro assolato, ma la vèrmicia che striscia e si dilata in una galleria buia, in cui si appiattano le paure, e i treni, lunghi vermi neri, sfondano il buio". Chiara Bartolini, che mi avrebbe parlato di un caso difficile, scrisse che la vèrmicia "strusciò sul fondalazzurro plastificato verniciando la scia filante del proprio passo serpentino, speronando la lente-palla deformante dell’acqua in cui librovagando guazza, celacangiata finalmente in gatta o farfalla". Liliana Ugolini, rimasta un attimo indietro, mentre io proseguivo con Flavia Bisogni fino a Piazza Signoria, scrisse che la vèrmicia è "il verme che di scatto scambia l’interrogazione, molliccio sforma il punto. Da qui sorse la micia, camicia di lucertola e inganni,in quegli anni annotò lo stratta-gemma. Tolse la gemma a-stratto e restò di naso con il punto stretto in pugno, ritratto d’un estratto di verme e la micia fu la vèrmicia del tutto". Che succede a pensare "il Papa che s’era steso un minuto, e gli sona ‘l telefono"? oppure "il Papa che si gira per prendere la carta, ma è finito il rotolo"?… Sono ipotesi fantastiche. Interrogativi. Dissi: "L’interrogativo è l’ipotesi fantastica del vuoto", e alma Borgini scrisse: "Il Papa, con una fila di vescovi neri, saliva su un monte bianco, altissimo": Se Palazzeschi fosse stato presente, avrebbe detto: "Mi state plagiando!". "Certo!", gli avremmo risposto: "… Ti stiamo rifacendo il naso come a Pinocchio… Ma potremmo rifare anche un’altra cosa a qualcun altro; per esempio il budino a Budda". Liliana Ugolini scrisse: "Il Papa prese le papere in sala. Budda cosse l’oca, mangiò il paté e poté col vino fingersi fegato nel pasticcio di budino"… Che mutismo genera la Fantasia! Il mutismo di una stecca. Quando Budda si sollevò dal cuscino, si sentì il cuscino che diceva: "Io sono un cuscino e mi schiaccio; s’io fossi sedia, mi alzerei". Si sentì una stecca che diceva: "S’io fossi violino, pizzicherei la chiave delle note devote e nottoline"… A che proposito Nadia Barbetti scrisse: "S’io fossi Luna, non sarei piena?"… Giorgio Tuti, nelle sue libere divagazioni involontariamente compositive, annotava:

"Vecchia Ermengarda
contadina sarda…
attenti! Chi la guarda
poi la sposerà".

Flavia Bisogni si accorse che "la cioccolata per Budda era meglio di un ovino". E fece incazzare i pastori. Ma lei sapeva disegnare una pecorina su una pietra come Giotto. Concludo questa memoria di laboratorio, osservando galileianamente: "I poveri sono spesso a pancia vota… Sarebbe fantastico il discorso di un papa, in Piazza San Pietro, a piazza vota!… Sarebbe la metafora compita della povertà nella poesia". Lidia Aglietti scrisse frasi shock in otto sillabe, come "la carità del diavolo", "il ruggito dell’agnello", "il gridare della muta", che, nelle favole, sembra siano usate dalla fata buona. Giovanna Blandini osserva "una piccola lenticchia, lì sopra il tavolo, sola, abbandonata, e piange… - Perché nessuno mi prende? – diceva. Cade per terra, e viene schiacciata da un piede, e si sbriciola, e si sente felice". Concludendo. Dopo Dini, se volete mettere in moto la Fantasia… senza una Fantastica, state Fini! Non ci riuscirete mai.

                                                        Filippo Nibbi

                                                       (3- continua)

 

La difficile scommessa di Scisciano

Gli animatori della comunità Jonathan, da cinque anni impegnata nel salvataggio di ragazzi difficili, illustrano la loro esperienza – Il problema dei corsi di recupero, in una scuola non sempre all’altezza della sfida – Che fare, quando alla disfunzione della famiglia si aggiunge quella istituzionale – Una materia da riordinare sul piano normativo

Come sostituire ai valori capovolti del mondo criminale quelli di una convivenza rispettosa e responsabile? Nel viaggio che la Lapis sta compiendo nelle "aree a rischio" d’Italia, alla scoperta della grande questione del disagio scolastico collegato alla delinquenza minorile, capita fortunatamente di imbattersi non soltanto nel problema, che è gigantesco per dimensioni e spaventoso per qualità, ma anche in seri tentativi di soluzione. E’ il caso della comunità Jonathan, realizzata a Scosciano (Napoli) da Vincenzo Morgera e Silvia Ricciardi, che hanno accettato di illustrarci la loro esperienza.

"Abbiamo cominciato cinque anni fa, in cinque anni qui sono passati circa duecento ragazzi. Cosa abbastanza rara, ospitiamo insieme ragazzi di ambo i sessi: e dopo tutto questo tempo possiamo dire che la sperimentazione è riuscita. Tanto da permetterci di allargare l’esperienza, elevandola al livello di una programmazione di recupero e di prevenzione, avviando anche degli interventi sul territorio, nelle scuole".

Intervento nelle scuole in che modo?

"Abbiamo avviato programmi con attività di prevenzione che prevedono moduli di animazione, concerti, ecc., dove i ragazzi vengono coinvolti a produrre prevenzione, entrando nell’immaginario con una rappresentazione. Ad esempio in alcune scuole è stato chiesto ai ragazzi di curarselo, il disagio, con la produzione di disegni, di scritti… Ovviamente disegnavano siringhe, sparatorie…"

Che pensi dell’iniziativa di quel giudice, che ha "punito" un piccolo delinquente imponendogli la lettura di certi libri ad hoc?

"Sono cose che non si possono generalizzare, se si facesse qui da noi diventerebbero tutti degli intellettuali. Evidentemente quel giudice ha agito in un contesto in cui ci sono presupposti di recupero tangibili, concreti. Ma in una situazione come la nostra, dove l’intervento prima che sul ragazzo andrebbe fatto sul territorio o sulle istituzione preposte a evitare che il ragazzo possa trovarsi in certe situazioni, potrebbero essere gli insegnanti a dover essere obbligati a leggere, a sviluppare una maggiore sensibilità e informazione".

So che avete fatto dei corsi di formazione…

"Tra le varie nostre attività, quella della formazione di operatori sociali sta diventando centrale perché nasce da un bisogno, da una carenza. Noi incontriamo insegnanti dalla figura multipla, cioè sono maestri, psicologi, sociologi, assistenti sociali, insomma nella realtà diventano niente, e la stessa cosa vale anche per gli operatori… non sempre l’operatore è pronto per affrontare certi tipi di situazione, perché manca la formazione, manca la possibilità di scambiarsi conoscenze, di comunicare metodi e modelli operativi. In una parola, manca la possibilità di crescere professionalmente. Il fatto è che non esiste una scuola di operatori, per cui chiunque può essere chiamato a svolgere questo ruolo".

Che cosa possono fare gli insegnanti della scuola dell’obbligo?

"Il discorso non si può limitare agli insegnanti. La scuola non è riuscita a riformarsi rispetto ai bisogni della formazione, dei modelli, dei valori.nel suo insieme la scuola rimane importantissima, perché è l’agenzia educativa che dovrebbe funzionare quando non funzionano le famiglie. Se alla disfunzione familiare si aggiunge quella istituzionale il problema diventa enorme. E allora noi dobbiamo racchiudere il nostro intervento a un livello puramente umano. Noi lavoriamo sui valori, della famiglia, della legalità, dell’onestà: perché non esiste il ragazzo difficile ‘chiuso’, esiste l’incapacità a relazionare da parte del pedagogo, dell’insegnante. Anche il ragazzo più strutturato, più deviato, il delinquente che ha fatto una scelta valoriale, lascia spazio ad un rapporto. Questa per noi è esperienza. E su questo la scuola è incapace di agire perché mancano gli strumenti, le capacità e a volte anche la volontà, perché questo è un lavoro duro, di sacrifici, basato su una volontà enorme di ricercare quello che di buono sta negli altri".

Non è facile, con venti o trenta alunni…

"Non è facile, perché se è vero che gli insegnanti sono spesso incompetenti o svogliati, è anche vero che ci sono ragazzi che vanno a scuola armati, semplicemente perché il loro padre gira armato. Non dimentichiamo quello che è successo a Secondigliano, una vergogna cittadina e nazionale: il professore picchiato, il ministro che minimizza…"

Che fare nelle scuole a rischio?

"Richiedono un impegno strutturale, economico, finanziario, quelle scuole hanno un valore istituzionale, come la stazione dei carabinieri o la parrocchia. Eppure in quelle scuole vengono inviati, mi si consenta il termine, gli scarti, quegli insegnanti che non hanno la possibilità di evitarlo. E allora che cosa dà una scuola in cui i professori e il preside dicono che non è successo niente quando un insegnante viene bastonato? Non dà niente, solo un pezzo di carta su cui sta scritto ‘licenza media’".

So che avete sperimentato casi di rifiuto da parte della scuola…

"Proprio così. Già iscrivere i nostri ragazzi per noi è un grosso problema, perché non tutti sono disposti ad accoglierli, esiste una discriminante, esistono dei pregiudizi nei confronti di questi ragazzi. Oltretutto non sono certo favoriti dalle norme e dalla prassi in materia di recupero. Facciamo l’esempio di un ragazzo che rimane in comunità tre o quattro mesi. Viene avviato un percorso di recupero presso una scuola. Quando il ragazzo esce noi chiediamo l’autorizzazione per iscriverlo in una scuola del territorio. Primo problema: non sempre sul territorio esistono scuole che fanno i corsi di recupero. Secondo problema: quando il ragazzo esce non è più seguito come quando stava in comunità. E’ una grossa contraddizione pensare che la famiglia, quella stessa famiglia che probabilmente è all’origine delle sue difficoltà, riesca a provvedere mandarlo a scuola. La verità è che tutta la complessa materia del recupero andrebbe riesaminata e riordinata sul piano normativo. Perché non basta riunire i nostri ragazzi attorno al camino, come facciamo noi d’inverno: bisogna che la scuola funzioni come una struttura di recupero".

 

Istruire, educare o assimilare?

Dopo aver illustrato la priorità dell’uomo e dei suoi bisogni nelle problematiche dell’accoglienza agli immigrati, il prof. Alessandro Baldi del Forum per l’intercultura della Caritas analizza il nodo di una identità che il passo successivo, quello della scolarizzazione, rischia di compromettere – Per trasformare la realtà problematica della multicultura nella risorsa interculturale è necessario non trascurare al di fuori della scuola i percorsi della educazione contestuale

Proseguiamo la pubblicazione delle relazioni svolte al convegno di studi sul tema L’evasione scolastica, una sfida per la società, organizzato ad Arezzo il 25 e 26 ottobre 1997. In questo numero la parte conclusiva dell’intervento del prof. Alessandro Baldi, responsabile della formazione degli insegnanti e degli operatori del volontariato nella direzione del Forum per l’intercultura della Caritas

 

Secondo punto di costruzione dell’"iter" è come i bisogni materiali, legati alla prima accoglienza, poi si traducano e si vestano di bisogni in qualche modo intellettuali, spirituali per usare questo termine abusato nel corso del tempo. E qui rientra tutto quello che è un altro aspetto mai considerato della pedagogia, che è la struttura istituzionale, la codificazione normativa. Ecco perché allora noi diciamo che il secondo grande punto di conquista e di passaggio dell’intercultura è dopo la materialità il diritto-dovere di informare. In un recente convegno, dopo avere sentito cose che veramente non stavano né in cielo né in terra mi divertii a dire a un certo punto – ricordo che Di Liegro quasi si commosse – che oggi si vale sempre ovviamente il detto cristiano, ama il prossimo tuo, però io lo emenderei alla fine, ama il prossimo tuo e informalo. Ossia se tu ami il prossimo tuo ma non dici nulla di quello che sta avvenendo, di quelli che sono i diritti, i doveri, delle possibilità, tu non ami affatto nessuno, ami al più il tuo narcisismo. Al momento della prima accoglienza non dire la verità all’immigrato, per esempio nel caso delle ultime ondate di immigrati cosiddetti clandestini, immigrati legati al bisogno che ormai si è avviticchiato all’organizzazione malavitosa, ecco non dire: guardate, voi siete arrivati ma la situazione è questa, in questa zona il lavoro è questo, ecco non informare correttamente è veramente un elemento di rottura dell’interculturalità. Terzo elemento di questa progettualità formativa è l’ancoraggio forte della scolarizzazione. Ci sono due motivi di fondo: la cultura degli emigranti deve disperdersi e unirsi alle culture altre del paese ospitante o deve mantenersi come punto fondamentale? Quale è dunque l’ipotesi? Perché noi abbiamo bisogno di ipotesi forti per poter fare un lavoro serio. Da questo punto di vista rivendichiamo che i giovani immigrati siano immessi nei processi formativi di scolarizzazione. C’è un diritto-bisogno-dovere da parte dei bambini immigrati di apprendere la cultura e la lingua del paese ospitante, anche noi del resto, se andiamo in Francia o in Germania e abbiamo intenzione di trattenerci qualche tempo dobbiamo apprendere qualcosa della lingua… per poterci orientare nella vita quotidiana. Si chiama apprendimento funzionale. Un problema che è stato risolta abbastanza bene con l’iniziativa nord-sud: si insegna l’italiano agli immigrati proprio per dare a questi immigrati uno strumento di sopravvivenza in un mondo sconosciuto. Ma la scolarizzazione come sappiamo è fortemente pervasiva, cioè un conto è accedere ai processi forativi, e un conto poi preservarsi da contaminazioni pervasive della cultura ospitante. E’ un bisogno del nostro paese, dell’Europa quello di ragionare in termini interculturali. Non si può più farne a meno, volenti o nolenti il paese è multiculturale, se lo lasciamo multiculturale sarà la rovina, non c’è dubbio, dobbiamo farlo diventare interculturale. Cioè dobbiamo trasformare, detto alla Di Liegro, la realtà-problema, la multiculturalità, in una risorsa, l’interculturalità. Ma il terzo passaggio, la scolarizzazione,l’educazionalità nella scuola, che è proprio il tema che ci sta a cuore, pone un dilemma: è giusto accedere a quel famoso apprendimento funzionale della lingua e della cultura ospitante, però è anche poi giusto sguarnirsi di fronte alla pervasività del contesto? Noi prima di essere educati a scuola da qualcuno che sa qualche cosa… siamo educati dalla strada, dalla vita quotidiana. Su questo non diamo un giudizio di valore, diciamo che siamo educati permanentemente da qualcosa… E’ un aspetto fondamentale dell’educazione. Allora, nella realtà del nostro discorso, la pervasività può essere accettata come un dato di fatto o deve l’educazione – e la pedagogia, e la riflessione sull’agire educativo – produrre uno strumento più attivo? Questo è il problema. Il problema è quanto l’apprendimento funzionale della lingua, della cultura del paese ospitatesi fermi a questo e quanto invece poi diventi altro, cioè diventi trasformazione del soggetto che diventa un individuo, una persona assimilata. Sentite il termine quanto pesa: assimilata. Allora, l’intercultura deve assimilare, deve respingere, deve trattenere, deve organizzare? Perché non è solo un problema teorico su cui si può scrivere un bel libro, fare un bel convegno: è un problema di sostanza reale dell’educazione. Cioè della qualità della propria vita, del senso che uno dà all’esistenza. Faccio ora una breve riflessione sul concetto di identità… Perché si scontrano oggi due posizioni tra i pedagogisti nelle varie università, lo scontro… è fra istruttivisti e educazionisti. E’ uno scontro storico… ci sono quelli che mettono al centro i contenuti dell’istruzione e quelli che mettono al centro i valori. L’identità se fosse corroborata l’ipotesi che non è un processo chiuso una volta per tutte… ma è un caos di stratificazioni inconsapevoli, inconsce, vissute, patite, allora è chiaro che io non mitizzerei l’identità dell’origine degli immigrati. Origine africana?… i miei amici africani mi riprenderebbero, non amano essere chiamati africani, vogliono essere chiamati nella loro identità contestuale, camerunese, nigeriano, ghanese, ecc… non mi chiamano europeo, io sono italiano, romano – ecco se fosse vera ripeto, se fosse corroborata questa ipotesi, è chiaro che allora l’identità originaria andrebbe a poco a poco a perdere la sua forza… e ciò porrebbe un problema di educazione civica… checchè se ne dica noi non siamo un paese xenofobo, razzista, no. Non lo siamo dal punto di vista della tradizione, anche quando c’è stata la possibilità con le leggi razziali fasciste del ’38. però certamente non siamo neanche molto accoglienti, allora io dico, per lavorare bene sul progetto di identità… io invito gli educatori gli insegnanti gli psicologi ecc. a parlare sempre a partire dal presupposto che siamo razzisti. Perché guardate è un presupposto più corretto, più produttivo. Piuttosto che dire ogni volta io non sono razzista però i nomadi sotto casa… oppure io non sono razzista ma questo negro quanto puzza… io non sono razzista però, porca miseria… voglio dire: questo veramente non è accettabile… E’ forse più corretto abituarsi a dire guardi io sono razzista, non so che dire, però cerco di combattere… posso assicurare che sono in lotta con me stesso e con gli altri per modificare… Altrimenti non si riesce a capire che tipo di lettura noi possiamo avere dell’altro, l’Altro con la A maiuscola… Totalmente altro è Dio in teologia, leviamo totalmente e altro diventa l’uomo come mistero, ma quando l’uomo diventano che mi sta tutti i giorni davanti ed è di origine pakistana e viene ogni giorno a chiedermi qualche cosa, l’altro diventa con la a minuscola. Quante volte Di Liegro diceva: organizziamo il centro di accoglienza per i senegalesi, al contempo produciamo un percorso di rieducazione attiva per adulti, corso di sartoria, corso di fabbro, sono i mestieri su cui lavoriamo, interventi strutturali per i giovani del territorio. Ecco la con testualità, ecco il doppio servizio educativo, cosa che quando non si realizza guardate… se non si realizza vuol dire che non solo non è andata avanti l’idea di tolleranza e di solidarietà… ma ha prodotto resistenze, opposizione, ha fomentato uno spirito negativo. Perché guardate, ricordiamoci questo assunto pedagogico: o io trasmetto valori o io trasmetto disvalori. Ricordiamoci la teoria pedagogica… di Edgar Morin che viene chiamata della mano invisibile. Che dice la teoria, ormai suffragata da migliaia e migliaia di osservazioni e di esperienze? Che non sempre le cose che nascono dalle mie buone intenzioni producono gli effetti desiderati. La mano invisibile modifica il rapporto causa-effetto… Nelle relazioni interculturali noi dobbiamo fare lo sforzo di previsione prima dell’azione. L’ultima considerazione: il processo formativo interculturale deve essere sempre controllato. Concetto fondamentale in una dimensione democratica è la controllabilità, quindi la sua continua trasparenza, perché non abbiamo a che fare con questa o quella disciplina ma abbiamo a che fare con la natura della persona. Quindi quando noi diciamo servizi alla persona, diritti alla persona, tra questi mettiamo il riconoscimento del principio della controllabilità. Guardate per finire su questo punto, la riflessione che posso fare è rendere trasparenti le proprie azioni. Questo è fondamentale. Non avere paura della critica, anzi cercarla. Dire: professore, guardi, noi le mandiamo questo documento… ci vuole dare informazioni? L’intercultura non vive delle problematiche del buio ma vive nella problematica della luce. Chiudo con l’aforisma del "popolo dei fratelli": bisogna camminare almeno cinque lune nei mocassini degli altri per poter capire se stessi.

                                                               

                                                                                    ( 8 – continua )

 

                                                                                                     

 

                                                                                                 

 

                                                                                                            

 

 

                                                                                                     

 

Torna all'archivio delle nostre iniziative

Scrivici!