FOGLIO LAPIS - FEBBRAIO - 2012

 
 

Sembra finalmente consolidata a livello ufficiale una verità tanto ovvia quanto lungamente trascurata: il ruolo determinante dell'istruzione nello stato di salute della società – Evidentemente il tema non poteva sfuggire al “governo dei professori” – Tanto più che l'emergenza economica sottolinea l'importanza dell'efficienza educativa rispetto alla competizione internazionale – Il ministro Profumo vede la scuola come parte dell'innovazione del sistema-Paese

 

Nel suo saggio Investire in conoscenza – Per la crescita economica (Il Mulino, 2009) Ignazio Visco, governatore della Banca d'Italia, sostiene che “i benefici di una maggiore istruzione si estendono a molte altre dimensioni della vita umana”. Ai vantaggi percepibili sul terreno etico e civile Visco affianca le positive ricadute sull'economia: infatti “l'istruzione è anche un investimento redditizio”. Questa non è l'enunciazione di un articolo di fede, ma una verità comprovata da ricerche e comparazioni: per esempio è dimostrato un regolare rapporto proporzionale fra i rendimenti scolastici misurati nei paesi Ocse dalle analisi Pisa (Programme for International Student Assessment) e i livelli di sviluppo economico. Meglio funziona la scuola e più cresce il prodotto interno lordo. Da questo punto di vista siamo messi davvero male: l'Italia occupa infatti nelle graduatorie Pisa una posizione non certo adeguata alla sua straordinaria tradizione culturale, e puntualmente lo stesso si verifica nelle classifiche dello sviluppo.

Cercando d'individuare le cause di questa inadeguatezza del sistema scolastico, Visco ne sottolinea in particolare una, la mancata valorizzazione del merito. Ne potremmo aggiungere un'altra che per così dire sta “a monte”: la scarsa considerazione della cultura in sé che negli ultimi decenni ha inaridito il dibattito italiano. In nessun altro Paese, che si sappia, si è mai sentito un ministro della repubblica affermare che “con la cultura non si mangia”, e dunque non conviene investirvi risorse in tempi di magra. Questa espressione va considerata con attenzione, non soltanto perché rinnega il valore intrinseco della cultura ma anche perché è letteralmente sbagliata, come il governatore della Banca d'Italia sostiene nel suo libro. Infatti “con la cultura si mangia”, a volere riprendere l'espressione piuttosto volgare che tanto ha fatto parlare di sé.

Oggi sarebbe impensabile sentir cadere dall'alto parole simili, se non altro perché il “governo dei professori” è composto da uomini e donne provenienti in buona parte dal mondo accademico e dunque professionalmente impegnati dell'istruzione. E infatti si sentono accenti diversi. Il ministro dell'istruzione, Francesco Profumo, riprende l'analisi di Visco sottolineando che una scuola efficiente produce non soltanto una società più colta ma anche più ricchezza e più mobilità sociale. Per una volta il responsabile del ministero di Viale Trastevere non annuncia la rituale riforma, ma un semplice lavoro di orientamento. In particolare promette uno sforzo perché la scuola sia messa in condizione di sviluppare “la capacità di rispondere con flessibilità e progetti personalizzati alle esigenze degli studenti”. Il tutto nel rispetto dell'autonomia scolastica, e limitando l'azione ministeriale alla verifica dei processi di apprendimento e alla cura professionale del corpo docente. Bisogna che la scuola, dice Profumo, “entri a pieno titolo nell'innovazione del sistema-Paese”.

Due elementi dei quali si discute riguardano rispettivamente la durata degli studi e quella dell'obbligo scolastico: ma si tratta di prospettive che chiamerebbero in causa non gli orientamenti ai quali Profumo dice di voler limitare il suo lavoro, ma una vera azione riformatrice. Dobbiamo dunque considerarle riflessioni da trasmettere al futuro governo “politico”. A proposito dell'obbligo, il ministro adombra la possibilità di un prolungamento fino ai diciassette anni. Al tempo stesso c'è chi considera con interesse l'ipotesi di una riduzione del percorso scolastico dalla primaria al diploma, che potrebbe essere portato a dodici anni dai tredici attuali. Lo fa per esempio il sottosegretario Marco Rossi Doria, sottolineando che in questo modo l'ultimazione dei cicli pre-universitari verrebbe a coincidere con il raggiungimento della maggiore età.

Si fa anche notare che altrove, nella maggior parte dei Paesi, i cicli durano appunto dodici anni, non tredici come da noi. Ma qui si aprono alcuni problemi: quale dei cicli dovrebbe “sacrificare” un anno? La primaria o il liceo? É inoltre prevedibile un'accanita resistenza sindacale, visto che la misura comporterebbe evidentemente un drastico taglio delle classi e dunque delle cattedre. Per l'esercito dei precari, in particolare, questa novità verrebbe a complicare ulteriormente le già grame prospettive professionali.

                                                          Fredi Sergent
                                         

    


                                                  

 
 

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