FOGLIO LAPIS - FEBBRAIO - 2009

 
 

Si è creduto a lungo che la spesa per l’istruzione in Italia fosse male impiegata ma quantitativamente elevata – Le recenti statistiche europee dimostrano invece che siamo agli ultimi posti anche come livello di risorse investite nella scuola – Non solo, ma il nostro è l’unico, fra i paesi comparabili, in cui questo impegno di bilancio sia diminuito negli ultimi anni – È chiaro che invertire la tendenza è il presupposto fondamentale di qualsiasi politica volta a garantire il nostro futuro

 

Si spende troppo e male. Così si è detto per anni a proposito del livello di spesa per l’istruzione in Italia. Ancora lo scorso autunno il ministro Mariastella Gelmini insisteva su questo concetto: “non è vero che in Italia si spende poco per la scuola, anzi siamo fra quelli che spendono di più in Europa”. Il problema, insomma, non stava tanto nella quantità di risorse messe a disposizione del sistema scolastico, quanto nella necessità di razionalizzare la spesa, di impiegare meglio quelle risorse. Va da sé che un simile approccio permetteva di giustificare qualche taglio al bilancio dell’istruzione: in fondo di soldi ce ne sono abbastanza e si può anche ridurre qualche voce di bilancio, basta spendere meglio quello che resta.

Ebbene, tutto questo non è affatto vero. Gli ultimi dati forniti da Eurostat, l’ente statistico dell’Unione Europea, ci dicono che le risorse per la scuola italiana, oltre che male impiegate, sono anche scarse. Lo sono, almeno, nel confronto con gli altri paesi. Queste cifre si riferiscono al 2005. Fra i Ventisette, che mediamente dedicano all’istruzione il cinque per cento del prodotto interno lordo, l’Italia occupa il ventunesimo posto, con il 4,4 per cento del pil. Siamo dunque nel gruppo di coda: peggio di noi fanno soltanto la Cechia e la Spagna (4,2 per cento), la Grecia (4), la Slovacchia (3,8), la Romania (3,5). Ai primi posti figurano la Danimarca (8,3 per cento), la Svezia (7), la Finlandia (6,3).

Se invece dell’investimento in rapporto al pil si considera la spesa per studente a parità di potere d’acquisto, la posizione dell’Italia migliora, passando al quattordicesimo posto cioè a metà classifica, con un dato di poco superiore alla media fra i Ventisette. Se invece si considera l’impegno finanziario per la sola scuola elementare, che è sempre stata considerata il fiore all’occhiello del sistema educativo italiano, il nostro paese torna al di sotto della media collocandosi al diciannovesimo posto.

Ma non è tutto. Fra i vari indicatori forniti dall’Eurostat, il più desolante per l’Italia è quello che si riferisce alla differenza della spesa media per studente fra il 2001 e il 2005. Esso ci dice che il nostro è stato l’unico paese che in quel quadriennio ha visto calare l’investimento in tutti e tre gli ordini d’istruzione: primario, secondario e superiore. I tre dati registrano da noi un calo rispettivamente di 136, 823 e 491 euro. Tanto per confrontarci con alcuni paesi, i dati corrispondenti sono 464, 816 e 1903 euro per la Francia, 480, 551 e 1086 per la Germania, 1737, 2033 e 3001 per la Gran Bretagna. Si noti bene, sono tutte cifre con il segno più: a differenza che da noi, in quei paesi l’investimento nei quattro anni è aumentato, in misura particolarmente marcata per l’istruzione superiore.

Sono dati che si commentano da sé. E che si aggiungono ad altri confronti internazionali poco lusinghieri per l’Italia: per esempio nella classifica del consumo di libri, o in quella del numero di laureati, in aumento sì da qualche anno, ma non fino al punto da colmare la differenza con altri paesi comparabili. È una realtà sconcertante, ed è paradossale che calino gli stanziamenti per l’istruzione proprio mentre appare sempre più chiaro che questo investimento è semplicemente vitale per migliorare le prospettive nazionali. Anche economiche, perché è dimostrato per esempio che a indici di lettura più alti corrispondono migliori prestazioni produttive.

Eppure, quando si tratta di ridurre la spesa pubblica, non si esita a calare la scure proprio sulla scuola. Nella situazione attuale, con un disavanzo al di sopra della soglia critica del tre per cento del pil, un debito addirittura superiore alla ricchezza prodotta dal paese in un anno, una crisi economica dalle implicazioni ancora indecifrabili ma certo gravissime sul reddito delle famiglie e sull’occupazione, la protesta per le scarse risorse assegnate all’istruzione può forse apparire intempestiva. Ma non lo è affatto: perché proprio nell’investimento sui giovani è la chiave per restituire al sistema Italia quella vitalità che può metterlo in grado di affrontare le sfide del mondo globalizzato. Lesinare sulla scuola significa, né più né meno, tarpare le ali al paese.

                                                          a. v. 
                                         

    


                                                  

 
 

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