Torna a Foglio Lapis - febbraio 2001
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Reazioni discordanti hanno accolto il varo della riforma - Ma c'è un punto che nel fuoco della polemica rischia di passare inosservato: quella che scatterà fra pochi mesi sarà una struttura sperimentale, sottoposta a verifiche triennali da parte del parlamento - Inoltre le indicazioni programmatiche andranno interpretate e applicate nei singoli istituti secondo il principio dell'autonomia - La nuova sfida è la formazione dei docenti
 

"Una scuola moderna e adeguata ai tempi". "La nuova scuola dell'analfabetismo di massa". Fra questi due opposti commenti, scelti a caso fra quanti ne sono approdati nei giorni scorsi alle pagine dei giornali, si snoda la gamma delle reazioni alla grande riforma che il ministro Tullio De Mauro ha presentato lo scorso 7 febbraio illustrando i nuovi curricoli della scuola di base. Si potrebbe anche tentare una scherzosa fusione delle due battute: forse non c'è contraddizione, visto che una scuola perfettamente adeguata ai tempi potrebbe anche essere proprio quella che produce analfabeti. Ma la materia non è di quelle che si prestano allo scherzo, e tanto per non lasciare in sospeso il punto specifico ricordiamo subito una cosa a proposito di analfabetismo: che la nuova scuola proposta da De Mauro sia destinata a produrne è ancora tutto da dimostrare, che la scuola vecchia ne abbia prodotto, e in quantità davvero eccessiva, è invece una certezza. Fra una scuola che ha mostrato limiti di questa natura e una scuola diversa da quella, comunque fortemente innovativa, ancora da vedere alla prova e in ogni caso sottoposta a verifiche con possibilità di correzioni fondate sull'esperienza, non abbiamo dubbi: viva la riforma.

Chi legge questo periodico è generalmente bene informato in materia educativa, non staremo dunque a ripetere i dettagli di questa riorganizzazione, ampiamente illustrati dalla stampa quotidiana e del resto facilmente reperibili nel sito del ministero della Pubblica Istruzione (www.istruzione.it). Ci preme soltanto sottolineare alcuni punti del documento e alcuni aspetti delle reazioni che ha suscitato. Innanzitutto il suo carattere non definitivo ("queste non sono le tavole della legge", dice De Mauro), che di per se' spunta molte frecce critiche. Il progetto partirà con l'anno scolastico 2001-02 e già nel 2004 dovrà essere sottoposto a verifica. Sulla base di quel primo bilancio il parlamento potrà introdurre quelle modifiche e quelle integrazioni che l'esperienza avrà dimostrato opportune. Poi, di tre anni in tre anni, il periodico appuntamento con la verifica.

E' ovvio che molto, se non tutto, dipende dalla qualità degli insegnanti, e che per trasformare il corpo docente in un organismo compatibile con questa nuova scuola occorrono ben più di tre anni: confidiamo che il parlamento saprà tener conto anche di questo. Infatti la grande scommessa che attende i riformatori è oggi quella della formazione degli insegnanti. Problema assai complesso di cui ci preme di sottolineare un aspetto molto generale, persino banale, eppure decisivo: per trasmettere il sapere non basta averlo acquisito, bisogna possedere gli strumenti, le tecniche didattiche, l'addestramento. La capacità di realizzare quel fatidico cortocircuito che è una buona relazione con la persona che apprende.

Ma torniamo ai controversi curricoli. Ha fatto scalpore la scomparsa dell'insegnamento sistematico della storia dai primi quattro anni. Si comincerà soltanto negli ultimi tre della scuola di base, per completare il tradizionale percorso con il primo biennio obbligatorio della secondaria. Scandalo? Chi scrive ama la storia come le pupille dei suoi occhi, ma non per questo concorda con chi rimpiange la ciclica ripetizione del programma che per tre volte, dalle elementari alle medie inferiori fino alle superiori, ci ha trascinati a spasso nei secoli dalla preistoria al Novecento. Tanto più che il risultato finale di questo triplice imbonimento, o almeno del doppio percorso di chi si è fermato al termine dell'obbligo, è una ignoranza abissale quanto diffusa: qualche giorno fa, in una serie di interviste volanti nelle strade di Roma in occasione della disputa sul rientro dei Savoia, quasi nessuno sapeva dire il nome dell'ultimo re d'Italia, e soltanto alcuni il nome del primo. "Giulio Cesare", è stata la risposta più fantasiosa. Che dire poi di quel simpatico concorrente a un telequiz, lacerato dal dubbio che Cavour potesse essere a capo del governo attorno al 1896?

Ben venga dunque la cronologia storica presentata soltanto a partire dai dieci anni di età: non soltanto histoire-bataille fine a se stessa ma successione di eventi correlati con la geografia e spiegati con le risorse delle scienze economiche e sociali, dopo che nei primi anni dell'istruzione di base si sarà cercato di familiarizzare i piccoli con i concetti spazio-temporali. Così la grande vicenda umana che si snoda nei secoli troverà ad attenderla menti preparate, forse perfino curiose. E la storia potrà essere qualcosa di più che un arido elenco di date.

Osservano alcuni che la riforma è bene impostata, ma non è completa. E' vero, ma perché mai dovrebbe esserlo? Perché non dovrebbe lasciare la definizione dei dettagli operativi, e magari l'arricchimento dei programmi, all'autonomia dei singoli istituti? Che scuola è mai quella in cui tutto, fino nei più minuziosi particolari, discende dall'alto come lo spirito santo? In un'epoca di parallela esaltazione della dimensione sovranazionale da un lato, delle identità locali dall'altro, si dovrebbe salutare con soddisfazione la possibilità che la storia e la geografia, per esempio, vengano fatte partire dalle singole tradizioni cittadine, o regionali, per poi acquisire gradualmente la loro misura nazionale, europea, planetaria.

Qualcuno, come l'ex ministro Luigi Berlinguer, lamenta che non c'è abbastanza cultura musicale nella nuova scuola. Anche questo è vero, ma certo ce n'era ancor meno nella vecchia. E in ogni caso è aperta la strada verso adeguate integrazioni, nell'ambito dell'autonomia o attraverso le verifiche triennali. Questa della musica è in ogni caso una preoccupazione legittima. Non soltanto per la sua altissima valenza culturale, ma anche per il fatto che la musica, come l'informatica, è una efficace chiave d'accesso agli interessi dei giovanissimi. Anche per questo si tratta di elementi decisivi per una scuola moderna. Il computer è una finestra spalancata sul mondo e può rappresentare una scorciatoia, tecnicamente familiare e didatticamente gradita, verso ogni genere di conoscenza. La musica porta con se' luoghi e stagioni, spirito del tempo e genius loci, al tempo stesso è la sola vera lingua universale, è insomma al di là del suo valore intrinseco un focale punto di partenza per qualsiasi esplorazione del sapere. Anche qui ogni possibilità di successo si misura sulle capacità dei docenti: è questa la nuova sfida. Mentre decolla la riforma della scuola che insegna, vengono al pettine i nodi della scuola che insegna a insegnare.

 

Alfredo Venturi

 

 

FOGLIO LAPIS - FEBBRAIO 2001