Precedenza assoluta

Investire nella scuola non soltanto per garantire il pieno sviluppo delle potenzialità individuali, non soltanto per recuperare i giovani talenti dirottati dal lavoro nero e dalla criminalità, non soltanto per adempiere un obbligo sociale e un impegno costituzionale: ma anche per assicurare al paese competitività in un mondo sempre più integrato – La caduta delle frontiere mette a nudo quello che gli specialisti non dell’istruzione ma dell’alta finanza definiscono “deficit grave di scolarizzazione

Se il sistema scolastico italiano non viene profondamente rinnovato, che sarà di noi fra cinquant’anni? A porsi l’interrogativo, a suonare l’allarme, a scuotere energicamente la letargica noncuranza con cui vengono di solito trattate le questioni dell’istruzione, non sono stavolta gli addetti ai lavori. Questa domanda è implicita in un documento del servizio studi della Banca d’Italia. Gli specialisti del nostro istituto di emissione offrono alcune cifre: nel 1991 soltanto il 72 per cento della popolazione italiana aveva quel diploma di scuola media inferiore che pure dovrebbe essere il coronamento formale dell’obbligo scolastico. Ancora: solo il 28 per cento degli italiani aveva in tasca, sempre nell’istantanea scattata otto anni fa, un diploma di scuola media superiore o una laurea. Vogliamo guardarci attorno per capire meglio? Ecco: di francesi con diploma superiore o laurea ce ne sono il 50 per cento, di tedeschi l’82. altre cifre comparate, relative alle spese per l’istruzione in rapporto al prodotto interno lordo e alla percentuale di giovani secolarizzati, potete trovare all’interno di questo giornale. Esse confermano quello che la Banca d’Italia definisce “deficit grave di scolarizzazione”. Frequentano infatti corsi di studio meno dei due terzi degli italiani compresi fra i 5 e i 24 anni, contro per esempio i poco meno che tre quarti dei giovani spagnoli o i quattro quinti dei belgi. C’è poi un’altra realtà che le cifre non dicono, ma che certo non è esaltante per noi nel confronto internazionale, e riguarda la qualità dell’istruzione: infatti avere un diploma in tasca è quasi sempre una condizione necessaria, quasi mai una condizione sufficiente per potere aspirare a un lavoro qualificato. In tempi di frontiere aperte, una simile situazione è insostenibile. Abbiamo fatto miracoli per entrare in Europa, ora per restarci a testa alta dobbiamo compierne un altro, la moltiplicazione dei pani e dei pesci della cultura e della formazione. In che modo? Antonio Fazio, governatore della Banca d’Italia, indica la strada di una maggiore autonomia organizzativa per gli istituti, di una competizione nella scuola pubblica e fra pubblica e privata, della libertà di scelta e della pari opportunità garantita a tutti, dei prestiti a lunga scadenza per chi non possa coprire i costi degli studi superiori. Fazio riconosce che molto si sta facendo in questa direzione ma denuncia che quanto si sta facendo ancora non basta: la distanza da percorrere e il distacco da colmare sono troppo lunghi. E’ evidente, aggiungiamo noi, che in una situazione come questa si pongono due problemi paralleli e complementari: quello di aumentare gli stanziamenti per la scuola e quello di organizzarne l’uso secondo criteri di maggiore efficienza. Si tratta insomma di spendere più denaro e di spenderlo meglio. Sul primo punto, è chiaro che il “deficit di scolarizzazione” accumulato finora rende insufficiente la parte che le spese per la scuola si ritagliano nell’insieme degli investimenti pubblici. Si consideri che portare l’incidenza relativa al livello della Francia, elevare cioè le risorse destinate all’istruzione di neanche un punto percentuale dal 4,9 al 5,8 del prodotto interno lordo, significherebbe mettere ogni anno a disposizione della scuola maggiori fondi per un ordine di grandezza attorno ai 18 mila miliardi di lire. Nei conti pubblici il piatto piange? Ebbene, siamo certi che un riequilibrio degli impegni a favore dell’istruzione, se accompagnato da un uso corretto delle risorse nel quadro di un moderno disegno riformatore, nel lungo termine si tradurrebbe in tali vantaggi di ordine generale da ripercuotersi positivamente su ogni capitolo di bilancio. Nell’attesa concediamoci un sogno: basterebbe recuperare una fetta neanche tanto grossa di evasione fiscale…

 

                                                              Alfredo Venturi

 

Per non parlare a vanvera

Parte in alcune province del Sud l’indagine conoscitiva sulla condizione scolastica, scaturita da un’intesa fra la Lapis e il Comando della Regione militare meridionale – Un questionario per i militari di leva – L’operazione si propone fra l’altro di contribuire a fare chiarezza sul fenomeno della dispersione, che sembra sfuggire all’analisi statistica

Diceva Trilussa che la statistica è quella cosa per cui, se io mi mangio un pollo e il mio vicino resta digiuno, risulterà che avremo mangiato mezzo pollo a testa. La diffidenza popolare nei confronti dei valori medi è assai diffusa, e del resto l’approssimazione con cui molto spesso vengono sciorinate dalla stampa le cifre che ci riguardano non contribuisce certo a familiarizzare l’opinione pubblica con dati e tabelle, diagrammi e proiezioni. Quante volte per esempio ci tocca sentir definire nei giornali o nei telegiornali “città più cara” quella in cui i prezzi in un certo periodo sono cresciuti di più: senza alcuna considerazione per i livelli di partenza… Quante volte si compie la disinvolta operazione di dividere la gigantesca somma del debito pubblico per il numero degli italiani, per poi affermare che ognuno di noi (neonati compresi, è la precisazione d’obbligo) ha un onere individuale di tot milioni di lire: come se fossimo noi i debitori, noi che al contrario abbiamo prestato denaro allo stato acquistando i titoli pubblici… 

Confronti 1

Spesa per l'istruzione in alcuni paesi in rapporto percentuale al prodotto interno lordo.
Fonte: Calendario Atlante De Agostini, 1999
Anno di riferimento: l'ultimo disponibile
Finlandia

8,4

Stati Uniti

5,3

Irlanda

6,4

Olanda

5,3

Francia

5,8

Spagna

5,0

Gran Bretagna

5,5

Italia

4,9

Austria

5,5

Giappone

4,7

Svizzera

5,5

Russia

4,1

Portogallo

5,4

Grecia

3,0

Confronti 2

Percentuale di studenti nella popolazione fra i 5 e i 24 anni nei paesi della UE.
Fonte: Ministero del Bilancio e Tesoro - Comitato euro
Anno di riferimento: 1991-'92
Olanda

87

Irlanda

68

Belgio

80

Austria

66

Gran Bretagna

78

Svezia

65

Spagna

74

Grecia

65

Francia

72

Italia

64

Danimarca

72

Portogallo

63

Germania

71

Lussemburgo

55

Finlandia

69

   

 

E’ un peccato che la statistica subisca simili maltrattamenti, visto che si tratta della sola ottica attraverso la quale sia possibile farsi un’idea corretta dei grandi fenomeni sociali. Senza il supporto dei dati si rischia inevitabilmente di parlare a vanvera. I dati purtroppo non sempre esistono, non sempre sono aggiornati, a volte si direbbe che vengono rimossi. E’ quella che noi chiamiamo reticenza statistica, un ostacolo a volte paralizzante per chi voglia approfondire un tema. Un caso che ci riguarda molto da vicino è quello della dispersione scolastica: noi non ci stancheremo mai di denunciare le lacune della documentazione in materia. In parte, è doveroso riconoscerlo, queste lacune dipendono dal fatto che certi aspetti del fenomeno sono aleatori, impalpabili, difficilmente registrabili. Prendiamo il caso di un ragazzo di tredici-quattordici anni che attraversa le ultime classi dell’obbligo coprendo con certificati medici assenze continuative. Oltrepasserà l’età canonica e risulterà in regola: di fatto è un caso di evasione che sfugge alle registrazioni ufficiali. Un contributo importante per colmare questa lacuna statistica verrà presto dall’indagine conoscitiva che proprio questo mese, grazie a un’intesa fra la Lapis e il Comando della Regione militare meridionale, prende il via in alcune province del Sud. Ai ragazzi che si presentano alla visita di leva verrà proposto di compilare un formulario anonimo, con una serie di domande relative all’esperienza scolastica, alle eventuali abitudini di lettura, e così via. Ne uscirà uno spaccato, certo di estremo interesse, sul rapporto con la scuola di un significativo campione della popolazione maschile: sarà per esempio finalmente possibile alimentare, con questi dati, le analisi sui vari aspetti della dispersione scolastica. Ovviamente ci proponiamo, confidando ancora sulla sensibilità e sulla disponibilità dei comandi militari, di allargare l’iniziativa ad altre province. Un altro indispensabile fondamento oggettivo alle riflessioni sulla scuola, così come su qualsiasi realtà sociale, è dato dalle cifre comparate. Come quelle riportate in questa pagina, che riguardano l’incidenza delle spese per l’istruzione sul prodotto interno lordo in un gruppo di quattordici paesi, e il tasso di scolarizzazione della popolazione giovanile nei quindici paesi dell’Unione Europea. Come si vede dal raffronto, l’Italia si trova in una posizione non certo adeguata alla sua tradizione culturale. Tanto meno adeguata, come non a caso denunciano gli specialisti della Banca d’Italia (si veda l’articolo in prima pagina), alla grande scommessa sul nostro futuro nell’Europa unificata e in un mondo sempre più strettamente integrato. E’ chiaro che per venire a capo del problema occorre un ripensamento profondo degli ordini di priorità, bisogna capire che l’indirizzare più risorse verso la scuola non è semplicemente un’opera buona: è un investimento necessario per tenersi al passo con i tempi.

 

                                                                           a.v.

 

A proposito di guelfi e ghibellini

Un contributo al dibattito in corso sul finanziamento delle scuole private: una nostra lettrice si dichiara d’accordo sul sistema formativo integrato, ma sostiene che prima bisognerebbe riformare i cicli e definire le modalità dell’obbligo scolastico – Una precisazione sul nostro editoriale di dicembre

Ho letto l’editoriale sulla parità scolastica nel numero di dicembre della vostra rivista e l’ho trovato estremamente ambiguo e incompleto. Ambiguo perché in sostanza non prende una posizione, incompleto perché non riporta le ragioni degli uni e quelle degli altri (i Guelfi e i Ghibellini come sono definiti nell’articolo). Premetto che non sono contraria a un sistema formativo integrato pubblico-privato perché in una società complessa ed in rapida evoluzione sempre più ci sarà bisogno di unire le forze di fronte a bisogni crescenti in qualità (conoscenze aggiornate, dinamiche riconvertibili) e in quantità (il processo formativo non concentrato in una porzione di esistenza ma esteso a tutta la vita). Per storia, formazione culturale ed esperienze (insegno da più di venti anni) sono propensa a ritenere che il sistema scolastico pubblico sia per uno stato democratico insostituibile ed auspico un maggior interesse da parte del mondo politico e della società civile e soprattutto che non vengano sottratte ulteriori risorse ai già risicati bilanci. Ciò premesso vorrei puntualizzare alcuni punti che voi avete tralasciato:

1)      Lo Stato ha il dovere di assicurare il diritto allo studio a tutti i suoi cittadini e cittadine indipendentemente dal tipo di scuola scelto, provvedendo ad assegnare sussidi per i libri di testo, borse di studio, sgravi fiscali a quelle famiglie che si trovino in difficoltà a dare ai figli una adeguata educazione. Questo non vuol dire che se gli Agnelli o i Berlusconi di turno vogliono mandare i figli a Eton o a Poggio Imperiale lo Stato debba farsene carico.

2)      La legge sulla parità, secondo la mia opinione, dovrebbe essere rimandata a dopo la riforma della scuola e dei cicli. Che senso ha oggi fissare criteri e standard quando non si è ancora definito quali dovranno essere i contenuti disciplinari, le sequenze, le modalità di espletamento dell’obbligo scolastico? E’ chiaro che al momento attuale la presentazione in Parlamento di tale legge risponde a logiche di opportunità e a voto di scambio.

3)      Le scuole private che vorranno partecipare a un sistema integrato di formazione dovranno rispettare delle regole tra le quali l’accettazione di qualsiasi alunno ne faccia richiesta (indipendentemente dalla razza e dal credo religioso), l’accettazione di alunni portatori di handicap, l’istituzione di organi collegiali aperti a tutte le componenti, l’abolizione della divisione per sesso, la trasparenza nella gestione dei bilanci, la trasparenza nelle assunzioni del personale il quale dovrà godere degli stessi diritti e dello stesso trattamento economico e sindacale del personale della scuola pubblica. Insomma anche nella scuola privata prificata dovrà valere la Costituzione Italiana e in particolare l’art. 3 che dice “ogni essere umano deve godere degli stessi diritti indipendentemente dalla razza, dal sesso, dal credo politico e religioso…”

4)      Allo stato attuale in Italia la scuola privata è per la quasi totalità scuola confessionale (d’altra parte le scuole istituite a fini di lucro perché dovrebbero essere parificate e finanziate?) con criteri di gestione ed assunzione non rispondenti a quanto auspicavo sopra, pur avendo in molti casi buoni o eccellenti standard formativi. I contrasti tra laici e una certa parte del mondo cattolico nascono proprio da questo: nelle scuole confessionali parificate dovrà valere il Codice di Diritto Canonico o la Costituzione?

5)      Ho letto con una certa inquietudine le dichiarazioni del Cardinale Biffi il quale afferma che ogni famiglia deve poter scegliere per i propri figli una scuola che dia una educazione omogenea al credo politico e religioso della famiglia stessa. Questo vuol dire, se portato alle estreme conseguenze, che si auspica una società a isole dove ciascun gruppo etnico o religioso gestisce in proprio la trasmissione della conoscenza e dei valori. A ciascuno la sua scuola: una per i cattolici, una per i protestanti, una per gli ebrei, una per i musulmani, una per i nordisti, una per i sudisti, una per i croati, una per i serbi, una per i bosniaci… (abbiamo un esempio delle conseguenze di questa logica al di là del mare Adriatico). Dove andrebbe a finire l’idea di scuola come palestra per l’educazione al rispetto dell’altro, al confronto democratico, anche serrato e duro, tra opinioni, culture, credi religiosi differenti? Come si può creare un comune denominatore per una società democratica multietnica e multireligiosa?

6)      Quando i Padri della Costituzione (in particolare Calamandrei che fu ispiratore dell’art. 33 e i molti cattolici democratici che lo votarono) scrissero “senza oneri per lo Stato” non credo intendessero solo esprimere una opzione contabile ma una precisa scelta di formazione ispirata al confronto delle culture e alla trasmissione di valori di pluralismo, tolleranza, convivenza pacifica.

 

Patrizia Failli Cardinali

 

Una doverosa precisazione sul contestato editoriale in cui si parlava di Guelfi e Ghibellini. Alla nostra lettrice è parso ambiguo e incompleto perché, rileva, non entrava nel vivo della questione parità schierandosi da una parte o dall’altra, né delle due parti contrapposte si riferivano le ragioni. Ma non era questo lo scopo dell’articolo, che si proponeva invece di sottolineare come la materia del contendere, per quanto importante, sia del tutto secondaria rispetto alla sfida che sta di fronte alla scuola italiana: la grande sfida del rinnovamento e della qualità. Sfida sulla quale ci soffermiamo anche in questo numero, riportando dati e valutazioni sul ritardo internazionale della nostra scuola. Ben prima di occuparsi del rapporto fra scuola pubblica e scuola privata, si tratta dunque di colmare quel ritardo riformando profondamente il sistema nel suo insieme: questo volevamo e vogliamo affermare. Quanto alla parità, ben venga: ovviamente nel rispetto sia della legge ordinaria e costituzionale, sia dei necessari criteri di qualità e di efficienza. Sul tema specifico ovviamente torneremo: e ogni contributo sarà gradito.

 

                                                                                a. v.

 

I bambini nella città ostile

Il pediatra Marcello Bernardi denuncia la mancanza di una strategia dell’attenzione nei confronti dell’infanzia – Come sconfiggere il germe dell’intolleranza – Lo sfruttamento commerciale dei piccoli telespettatori

Un quotidiano di Roma ha recentemente denunciato una grave carenza nel sistema sanitario italiano: molti ospedali sono privi di un pronto soccorso pediatrico, o quando c’è è del tutto inadeguato alle esigenze, cliniche ma anche psicologiche, dei piccoli pazienti. Davvero la situazione è così lacunosa? Giriamo la domanda al prof. Marcello Bernardi, pediatra e libero docente di puericultura e auxologia, autore di opere come Gli imperfetti genitori, Il nuovo bambino, L’avventura di crescere. Gli chiediamo, più in generale, di illustrarci la sua opinione sul rapporto fra le città italiane e le necessità della popolazione infantile. La conversazione si è poi estesa ai tempi dell’intolleranza razziale, dello sfruttamento commerciale dei bambini, del volontariato. “I nostri nuclei abitati, le città in particolare”, dice il prof. Bernardi, “nulla hanno a che vedere con le esigenze dei bambini, proprio niente. In particolare, se vogliamo porre l’accento sull’assistenza sanitaria reale, i deficit sono innumerevoli, anche se le cose vanno meglio al Nord che al Sud. Più in generale manca quella che un grandissimo pediatra, il prof. Bugio, chiama la strategia dell’attenzione nei confronti del bambino: manca a livello sociale e a livello costituzionale. Che poi ci siano delle strutture efficienti, questo sì, ma che siano a misura di bambino, ho i miei dubbi”.

E per questo contrasta con tutte le attenzioni che ricevono in casa…

No, no, guardi, sono attenzioni false anche quelle, gli compriamo dei giocattoli, li mettiamo sopra un piedistallo, con delle corone d’alloro: ma l’attenzione vera al bambino manca, manca davvero…

Avrà letto certamente del campo nomadi di Roma dove un bambino è morto di freddo, dove mancavano servizi e acqua corrente. Colpa di carenze organizzative o di insensibilità verso i diversi?

Tutte e due, direi tutte e due. Non c’è dubbio che l’indifferenza, l’ignoranza e l’insensibilità nei confronti degli strati più degradati, più bisognosi, più deboli della popolazione, immigrata o no, sono un grave problema. In più noi viviamo nel paese della burocrazia, della più inutile, della più dannosa fra le burocrazie. Ecco, noi accostiamo proprio queste due qualità, tra virgolette: l’indifferenza da una parte e la burocrazia dall’altra, non so quale delle due sia la più micidiale, ma messe assieme sono irresistibili”.

L’atteggiamento di rifiuto di molti adulti nei confronti degli stranieri, in particolare degli immigrati clandestini, si ripercuote spesso sui figli, che non di rado mostrano sentimenti di diffidenza nei confronti del piccolo “nero” che incontra al parco o gli siede accanto a scuola. Che possiamo fare secondo lei?

E’ un problema di cultura. Noi ci eravamo illusi nel ’45 di avere eliminato definitivamente il razzismo, invece è un grave errore pensare che questo sentimento sia esclusiva di fanatici, pazzi o criminali. In qualsiasi campo, politico, sociale o culturale, il razzismo c’è, è inutile negarlo, c’è e ci chiude gli occhi davanti a un bambino nero che muore… noi diciamo, beh, poteva starsene a casa sua… Ma non mi faccia dire di più…

Come si fa a preservare i bambini da questo contagio?

Educandoli, dando il buon esempio, parlando con loro. Se ci comportiamo da persone civili i bambini imparano… I bambini amano tutti, io vedo tante amicizie fra i bambini italiani e i bambini gialli, neri… I bambini sono portati ad amare tutti, se qualcuno è diverso semmai li incuriosisce… ma poi arriviamo noi con le leghe, le fondazioni, eccetera…

Lei condivide la critica corrente secondo cui i programmi televisivi per bambini sono dominati esclusivamente da esigenze commerciali?

Certo, e da che altro scusi? Chi è il matto che fatica a fare dei programmi se non ha il proprio tornaconto in soldi? Tutti adorano il vitello d’oro, davanti ai soldi tutto il resto non conta niente e questo si riflette anche sui programmi televisivi. Che poi qualcuno lo faccia proprio per vocazione, per sentimento, per principio, può darsi, non posso mica negarlo, ma la sostanza è questa. Tutti i programmi tv, anche quelli per i ragazzi, sono interrotti dalla pubblicità”.

Quello che sconvolge è che non si fa altro che parlare di bambini…

Guardi che ci sono tante persone in buonafede, che si impegnano sul serio e ne parlano con passione, e non per guadagnarci, non per crearsi una celebrità. Ci sono e sono più di quanto non pensiamo. Ma quello che capita sotto i nostri occhi, l’immagine, è fatta di sfruttatori, cui i bambini interessano solo perché vendono giocattoli, vestitini, prodotti igienici, alimenti preconfezionati, ecc.

Che cosa pensa del ruolo del volontariato?

Tutto il bene possibile, per ora non ho avuto delusioni, anzi motivi di ammirazione. E’ l’unico settore che sfugge al vitello d’oro”.

Magari con qualche eccezione…

Lei prenda qualsiasi chiesa, qualsiasi religione, qualsiasi organizzazione di idealisti: i cialtroni esistono anche lì. Ma tra i volontari ci sono tanti ragazzi che io conosco bene, che avevo curato da bambini e che ho seguito: è gente d’oro, veramente gente d’oro, bravissimi, disinteressati, generosi, intelligenti”.

 

L’Italia è il giardino

La storia di un manubrio e di una sella di bicicletta che divennero la “Testa di toro” di Picasso – Che sia possibile una metamorfosi in senso contrario? – Come sbarazzarsi utilmente del tempo attraverso i numeri – Vocabolario: istruzioni (fantastiche) per l’uso

Poesia fantastica, come si fa? Come riesco a farla insieme ai ragazzi? Per dare un’idea, userò una metafora concreta. Tengo spesso tra le mani questa mia “testa di toro”, come tutti gli uomini che riescono a mettersi continuamente in qualche nuova attuazione, magari inventata al solo scopo di giocare, e sono convinto assertore dell’utilità della sua stupenda inutilità. Se fossi Ricasso, direi: “Ricordate la Testa di toro che ho esposta recentemente? Ecco come è stata concepita. Avevo notato in un angolo un manubrio e una sella di bicicletta disposti in modo tale che assomigliavano a una testa di toro. Ho messo insieme questi due oggetti in un certo modo. Insomma, ho fatto di quel manubrio e di quella sella una testa di toro che tutti hanno riconosciuto come tale. La metamorfosi si era compiuta e mi auguro che un’altra metamorfosi si faccia in senso contrario. Supponete che la mia testa di toro sia gettata tra i rottami. Un giorno forse un ragazzo si dirà: Ecco qualcosa che potrebbe servire molto bene come manubrio per la mia bicicletta”. La Testa di toro di Ricasso esprime bene il risultato del mio pensiero intorno alla costruzione di una possibile Poesia fantastica insieme ai ragazzi. L’abbrivio lo presi insieme a Gianni Rodari, poi ho lavorato alcuni anni per ottenere risultati come quelli conseguiti alla scuola media “Calamandrei” di Firenze. Ecco quello che penso e sono capace di fare. In opposizione al sistema di riferimenti incanalato, manipolato e determinato dalla logica e dalla ragione, esiste un altro modo, non meno reale, fatto di immaginazione, di fantasia e di presagi più profondi, che aspira costantemente, iniziando con la più tenera età, da quando cioè siamo bambini, a definirsi realtà e a penetrare nella nostra visione della realtà… appartiene, diremmo, usando il latino, all’”homo absconditus” e molto meno all’”homo editus”. La tecnica che riesco ad usare a scuola con i ragazzi per esplicitare quel “modo” sotto forma di “Poesia fantastica” consiste essenzialmente nella combinazione del casuale: avvicinando insieme ai ragazzi, come esplicherò fra poco, oggetti estranei fra loro io miro a far emergere nei singoli oggetti il lato “bizzarro-portentoso” così che anche gli oggetti più comuni della più comune realtà si trasformano in “oggetti delle reazioni poetiche”. I ragazzi, insieme a me, sono capacissimi di trovare parole il cui “significante” coincide praticamente con le reazioni poetiche determinate dagli oggetti che si sono avvicinati. Preciso adesso il lavoro fatto alla scuola media “Calamandrei” di Firenze e, in parallelo, alla scuola media “Cisalpino” di Arezzo. All’inizio dei miei incontri con i ragazzi, ho portato in classe nelle due scuole una testa di donna in cotto, residuo di una statua da giardino, una pietra nera di aspetto vetroso (l’ossidiana con cui gli Aztechi costruivano la testa delle mazze da combattimento), tre gessetti cilindrici. Ciascun ragazzo ha poi portato da casa un “oggetto trovato”  per lui significativo. L’oggetto di ciascuno è stato appoggiato sopra un tavolo ricoperto inizialmente da un foglio bianco. Accanto agli oggetti portati da me, quelli portati dai ragazzi si “trasformano”, dando luogo a nuove composizioni, nuovi paesaggi; ognuno può intervenire creando associazioni fantastiche o catene di oggetti. Ciascuno “vive” una sua nascosta composizione e cerca di tradurla in parole nella sua metafora. Si trovano e si mettono in comune così parole il cui “significante” coincide praticamente con gli oggetti che le contengono. Nasce un vocabolario fantastico. Nella costruzione del “vocabolario” è bene usare, contemporaneamente, altre tecniche di Fantastica. Ancora non esiste una “Fantastica in tutta regola, pronta per essere insegnata e studiata nelle scuole come la geometria”, ma se esperienze simili a questa continueranno e prenderanno campo, potremmo avere, tra breve, una Fantastica. Espongo ora due tecniche usate. La prima risponde alla domanda, esistenzialmente fantastica, “si può uscire dal tempo?”. Un ragazzo, ad Arezzo, intuì: “Per uscire dal tempo, basta cancellare i numeri”. Quando si dice numeri si pensa subito a 1, 2, 3… a quei numeri, cioè, che il bimbo piccolo impara a ripetere come una cantilena ancor prima di sapere che cosa significano veramente; sono i numeri che servono per contare, una dopo l’altra, le pecore di un gregge quando tornano all’ovile, e sono i numeri che servono per esprimere con una sola parola, più precisa del “sono tante tante”, i quantitativo esatto delle stelle cadute un 10 Agosto, durante la notte di San Lorenzo. Provate per un momento a “prendere alla lettera” l’intuizione di quel ragazzo: scrivete alla lavagna 1, 2, 3… e cancellerete pian piano scoprendo e indagando tante curiose proprietà note fin dal tempo di Pitagora in nature contrastanti come – si diceva – il ben e il male, l’ordine e il disordine, il destro e il sinistro. Sicuramente, i numeri, mentre li cancellerete, “beleranno” per bocca dei ragazzi parole che rivelano la loro natura nascosta e verranno fuori espressioni la cui voce somiglia piuttosto al belato di una pecora. Le stesse parole potranno poi essere usate per un racconto fantastico. La seconda tecnica di Fantastica consiste “nell’isolare, aprendo sotto gli occhi dei ragazzi un vocabolario della lingua italiana alla pagina giusta, un vocabolo interessante ed eccitante e, trattandolo come cosa, ridefinirlo in assoluta libertà d’invenzione”. Due vocaboli che ho proposto di “isolare” alla “Calamandrei”, erano pròco ed ègira. Il primo – non tutti i ragazzi lo sanno – si usa di solito al plurale per indicare gli aspiranti alla mano di Penelope che, secondo l’Odissea, si erano installati nella casa di Ulisse durante la sua assenza; il secondo vocabolo, attraverso lo spagnolo egira, dall’arabo higra (“migrazione”, “fuga”), indica l’inizio dell’era islamica, la fuga di Maometto dalla Mecca a Medina. Ebbene, ridefiniti i due vocaboli in assoluta libertà d’invenzione, chi legge il vocabolario fantastico delle classi II E e II F, troverà che pròco significa “prima e poco” oppure “un poco di cose dove la erre si infila”, e che ègira è la “giostra elettronica di Clonomartico” e significa anche “gira insieme a noi la terra”… Clonomartico è semplicemente il nome di un nuovo pianeta. Nasce così un vocabolario fantastico di base in base al quale è possibile scrivere brevi storie, rapide poesie… Siamo in Toscana; da qui si vede che il “cannocchiale di Galileo” non ha ancora finito di stupirci, aprirci gli occhi su tante cose e, perché no!, di scandalizzarci perché… l’Italia è il giardino, ma NON ERAVAMO POETI.

 

                                                            Filippo Nibbi

                                                               (4- continua)

 

Quando si impara per dimenticare

La questione della didattica e la formazione degli insegnanti al centro di ogni problematica sulla qualità della scuola – Il prof. Antonino Mangano denuncia quella che considera una vera e propria mistificazione intellettuale: far passare per handicap di tipo genetico quelli che sono invece svantaggi di natura ambientale – La statistica ci dice infatti che il successo o l’insuccesso scolastico dipendono dal livello culturale dei genitori, dal reddito e dal luogo di residenza della famiglia

Proseguiamo la pubblicazione delle relazioni svolte al convegno di studi sul tema L’evasione scolastica, una sfida per la società, organizzato ad Arezzo il 25 e 26 ottobre 1997. In questo numero la prima parte dell’intervento del prof. Antonino Mangano, all’epoca direttore dell’istituto di pedagogia dell’università di Messina

Il problema della dispersione, il problema della qualità della scuola e della qualità della didattica ritengo siano oggi fondamentali in Italia, inscindibili l’uno dall’altro. Questi problemi, ma anche quelli dell’istruzione in generale, anche i problemi dei ragazzi che apparentemente non hanno difficoltà, che sono considerati “bravi” a scuola, richiedono un ripensamento profondo della didattica e hanno quindi attinenza con la formazione scientifica degli insegnanti. La questione della formazione degli insegnanti è stata per gran tempo emarginata. Una legge del 1973 prescriveva la formazione universitaria “completa” degli insegnanti di scuola primaria (materna ed elementare); si parlò successivamente di specializzazione post-lauream degli insegnanti di scuola secondaria. Non solo non è stato fatto nulla fino ad oggi, ma ci sono molte difficoltà e confusioni in merito, come se la questione fosse appunto marginale. Don Dilani si riferiva alla professoressa e non chiedeva soltanto attendibilità, l’instaurazione di buoni rapporti con gli allievi, chiarezza nella comunicazione: elementi che pur hanno il loro peso. Egli chiedeva un rinnovamento didattico più complessivo, ad esempio la valorizzazione della cultura d’origine dei ragazzi di estrazione sociale inferiore, quella innovazione che oggi chiameremmo interculturalità fra autoctoni. Così egli si esprimeva rivolgendosi ai docenti: la vostra “resta una scuola tagliata su misura dei ricchi. Di quelli che la cultura l’hanno in casa e vanno a scuola solo per mietere diplomi”. Il Direttore generale Maniaci parlava di analfabetismo di ritorno. Aggiungerei che non ci sono soltanto coloro che ritornano all’analfabetismo; ci sono altri che dimenticano gran parte di ciò che hanno “imparato” a scuola. La scuola, non da ora, è caratterizzata da profonda oblivione e stenta a liberarsi da questa assurdità: quella dell’imparare per dimenticare. E’ da chiedersi: perché i ragazzi dimenticano? La risposta va cercata ancora nella didattica, in compiti essenziali che la scuola trascura. La scuola pretende di insegnare solo nozioni, non ritiene, ad es., di dover “insegnare” anche ad apprendere. La scuola certo deve “insegnare” anche ad apprendere. La scuola certo deve “insegnare” delle nozioni, deve promuovere la formazione culturale autentica; ma ciò significa che deve mettere i ragazzi in condizione di auto-apprendere – che è il metodo della ricerca – perché imparino ad apprendere anche e soprattutto da soli, anche quando la scuola non c’è, a prescindere dunque da essa. Ma imparare ad apprendere è importante per apprendere davvero, ossia per non dimenticare. C’è nell’essere umano un bisogno innato: l’ansia di apprendere, l’ansia di conoscere, che presto vengono represse in famiglia e a scuola. Si ridiventa analfabeti, si dimentica quello che si è “appreso” nelle aule scolastiche, perché manca questo fondamento, perché la scuola insegna soltanto delle nozioni già fatte, decontestualizzate, da affidare solo alla memoria; non promuove le condizioni soggettive dell’apprendere, che sono prima di tutto condizioni costruttive del comprendere, fattori necessari del processo di apprendimento. Noi non possiamo pertanto parlare di problemi, di esiti del lavoro scolastico come la dispersione, senza mettere in questione proprio la didattica, e quindi ripensare, ripeto, la formazione dei docenti, che in questo secolo ha registrato dei progressi molto limitati, sino a suscitare la percezione della scuola come un universo immutabile, in un mondo soggetto a rapida evoluzione. Si pensa ordinariamente – lo pensano gli insegnanti in conformità con l’opinione pubblica, finiscono col pensarlo a un certo punto anche gli interessati – che colui il quale apprende male a scuola, chi ha difficoltà di apprendimento in sede scolastica, sia un soggetto meno intelligente. Questo pregiudizio viene sconfessato dalla ricerca scientifica condotta in tutti i continenti nella seconda metà di questo secolo. La ricerca mette infatti in evidenza che il rendimento scolastico, positivo o negativo che sia, si correla in modo diretto a delle variabili, interdipendenti tra loro. Una di queste variabili è la cultura dei genitori. Correlazione diretta o positiva significa, in questo caso, che se la cultura dei genitori, specialmente della madre – “misurata” nell’unico modo possibile, e cioè in base al titolo di studio – è più elevata, i figli hanno più probabilità, statisticamente parlando, di successo a scuola; se la cultura dei genitori è meno elevata, le probabilità di successo statisticamente diminuiscono. I figli di genitori laureati o diplomati, con delle eccezioni che sempre si riscontrano, hanno dunque più probabilità di successo, nella scuola attuale, rispetto ai figli di genitori che non dispongono di questi livelli di istruzione. Si spiega così come la “dispersione scolastica” colpisca soprattutto i quartieri urbani svantaggiati e comunque le aree più depresse di una provincia o di una regione, dove lo “svantaggio culturale” della popolazione adulta è più elevato. La scuola fa “strage di poveri”, dice Don Dilani. Da questo punto di vista, è da precisare che la difficoltà di apprendimento, l’insuccesso nella scuola di oggi, più che un problema di poca intelligenza, di difetto irreversibile di “doni di natura”, è un problema di ambiente, di svantaggio ambientale, reversibile. Non è quindi uno svantaggio genetico, imputabile alla “natura”, come si crede in base a concezioni atomistico-isolazionistiche della realtà, fisica e umana. D’altro canto l’intelligenza innata è puramente potenziale; dal punto di vista innatistico noi possiamo solo parlare di intelligenza potenziale, perché l’intelligenza si sviluppa in rapporto con l’ambiente. L’intelligenza potenziale, chiamata intelligenza “A” sul piano scientifico, non è misurabile. Noi possiamo “misurare” soltanto l’intelligenza sviluppata, la cosiddetta intelligenza “B”. allora mi pare che sia le ricerche sulla “eredità culturale” dei ragazzi, sia le ricerche sull’intelligenza e sulla entità dell’intelligenza convergono nel considerare lo svantaggio scolastico come un risultato con correlabile, astrattamente, con l’intelligenza innata, ma con dei fattori ambientali. Oltre la cultura dei genitori, la ricerca scientifica mette in evidenza un’altra variabile, interdipendente rispetto alla prima, rappresentata dal reddito complessivo della famiglia. Il reddito influisce sul rendimento scolastico, anche se ordinariamente non sembra. Il buon reddito, infatti, consente dei viaggi, consente una casa relativamente comoda, in cui il soggetto, ad es., può isolarsi quando studia, consente ancora l’acquisto di giocattoli per piccoli, la frequentazione di teatri, e così via. La terza variabile, anch’essa di natura ambientale e relazionale, è costituita dal luogo di residenza, che determina l’ambito e la “qualità” dei rapporti quotidiani del soggetto interessato. Risiedere in quartieri urbani svantaggiati significa, ad es., che le relazioni interpersonali prevalenti si stabiliscono con coetanei della stessa estrazione culturale, e ciò rafforza gli svantaggi di origine familiare. Vorrei dire che a questo punto si verifica la vera e propria mistificazione intellettuale cui prima accennavo: quello che è un insieme di svantaggi di natura ambientale viene scambiato e confuso, dalla scuola, dalla società e poi dallo stesso soggetto interessato, con uno svantaggio di natura genetica. L’interessato viene percepito o finisce con l’autopercepirsi come  soggetto poco intelligente “per natura”. Tale percezione negativa o stigma, convertendosi in auto-percezione negativa o auto-stigma, influisce, in maniera dissuasiva e demotivante, sull’impegno di studio e sui comportamenti generali dell’interessato, nel corso della sua vita scolastica. Si ritiene di solito che i ragazzi e le ragazze abbandonino la scuola a causa del lavoro minorile, perché la famiglia ha bisogno di lavoro e il lavoro dei minori impedisce la frequenza scolastica. Anche in questo caso, la qualità della didattica, quindi il lavoro della scuola, sembra fuori questione. Questo presunto nesso, causale-lineare, fra lavoro minorile e abbandono della scuola, mi ha indotto a condurre una ricerca, perché mi sembrava strano che i genitori non comprendessero che andare  a scuola è una questione di grande importanza. Che cosa è venuto fuori dalla ricerca? Si è accertato che l’abbandono è preceduto dalla ripetenza e dalla pluriripetenza, che abbandonano la scuola coloro i quali non riescono a navigare nelle sue acque, che quindi prima dell’abbandono il soggetto è andato incontro alla frustrazione dell’insuccesso. Bisogna che gli insegnanti e la coscienza collettiva si rendano conto, nonostante qualche eccezione, di questo nesso, fra insuccesso e abbandono, e che lo capiscano anche gli organi ministeriali: perché se non si fa luce, se si continua a brancolare nel buio dei pre-giudizi, non si andrà a capo delle questioni riguardanti il progresso dell’istruzione. La mia ricerca ha anche accertato che c’è un abbandono definitivo preceduto da un abbandono provvisorio. I ragazzi di solito abbandonano provvisoriamente la scuola in attesa di cambiare, di trovare un educatore vero, col quale “andare d’accordo”. Se ci riescono, vanno avanti; se non ci riescono, interviene l’abbandono definitivo. L’abbandono, quindi, non è correlabile al lavoro minorile; il lavoro minorile di solito viene dopo. Il genitore, per quanto poco istruito possa essere, non ritira mai il proprio figlio o la propria figlia dalle aule scolastiche fino quando il suo profitto è soddisfacente e la promozione probabile; se il ragazzo, fra l’altro, ha piacere di andare a scuola, i genitori fanno qualsiasi sacrificio per mantenervelo. Può darsi che la famiglia sia indigente, che i genitori siano disoccupati o che uno di essi o entrambi non ci siano affatto: la correlazione fra reddito familiare e successo o insuccesso a scuola è stata accennata prima, ma essa non lascia fuori la responsabilità didattica, la mediazione dell’atto educativo, e quindi la normale integrazione del soggetto nelle attività che la scuola promuove. Il lavoro interviene come conseguenza e interviene talora, se mi si consente l’espressione, come “terapia”. Ritrovandosi preclusa la scuola, non volendo lasciare il minore “nella strada”, per i rischi che essa comporta, il genitore, quando c’è, o comunque l’adulto responsabile, lo avvia al lavoro. Spesso il “lavoro” rientra nell’”economia” illegale: un’”economia” gestita dalle organizzazioni mafiose e che è ormai florida in sede internazionale. Essa ricorre ampiamente alla manovalanza minorile, disponibile in certi quartieri afflitti dalla miseria, perché i minori sono poco perseguibili, o non perseguibili affatto, in sede penale. Sono questi, fra l’altro, i meccanismi di riproduzione del fenomeno mafia,perché i minori che entrano nelle organizzazioni mafiose difficilmente ne escono e i più abili “fanno carriera”. Con il che il fenomeno dell’insuccesso a scuola e dell’abbandono cessa di essere un dovere settoriale, di natura etica e democratica: qualcosa che interessa soltanto i diritti umani delle fasce svantaggiate di popolazione. Esso, anche per le connessioni con la criminalità e l’”economia” mafiosa, diviene invece un problema generale e complesso: investe la vita sociale e la qualità della vita nel suo insieme. 

 

                                                                                                                                          ( 9 – continua )

                                                                                                            

 

 

                                                                                                     

 

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