FOGLIO LAPIS - DICEMBRE - 2010

 
 

Dall’Italia alla Gran Bretagna febbrili manifestazioni studentesche rivelano, dietro le contingenti motivazioni delle proteste, il disagio profondo che investe le giovani generazioni – Se il Sessantotto mise in discussione il “sistema”, stavolta l’elemento di raccordo sono le incertezze esistenziali e un futuro imprevedibile – Attorno a un fenomeno che meriterebbe un’attenzione ben calibrata, balbetta la politica dei luoghi comuni

 

Che cosa hanno in comune le manifestazioni studentesche inscenate le scorse settimane a Londra e nelle città italiane? Ufficialmente si dimostrava in Gran Bretagna contro la triplicazione delle tasse universitarie, in Italia contro una riforma dell’istruzione superiore “al ribasso”, cioè accompagnata e motivata da robusti tagli di spesa. Poiché le due misure sono entrambe figlie delle ristrettezza dei bilanci pubblici, si può dire che proprio questo sia il collante che lega i due fenomeni. Altro elemento corrispondente: sia a Londra, sia a Roma e in altre città italiane, le manifestazioni sono state turbate da incidenti, vandalismi, scontri con la polizia. Le ricostruzioni giornalistiche più obiettive ci parlano, al solito, dell’infiltrazione di frange violente, motivate dalla semplice intenzione di “far casino”, in una massa di studenti intenzionata, al contrario, a dimostrare pacificamente in difesa delle proprie ragioni. Si parla anche di polizia impreparata a Londra, e dunque colta dal panico di fronte a eccessi inaspettati, di polizia anche troppo preparata a Roma, che sbarrando la via ai manifestanti pacifici ha fornito pretesti ai violenti che non aspettavano altro.

Inoltre gli studenti britannici avevano in comune con gli italiani un elemento di fondo. Se il fattore scatenante della dimostrazione di Londra è stato la decisione del governo di portare le tasse universitarie alla bella cifra di novemila sterline l’anno, nei cortei è anche risuonata la protesta più generale contro tagli di spesa che porteranno rapidamente alla scomparsa di mezzo milione d’impieghi pubblici. Così in Italia, l’opposizione alla riforma dell’istruzione superiore s’inserisce nel quadro di un malessere che si può riassumere in un dato: nel quadro generale della disoccupazione quella giovanile sfiora un terzo della popolazione interessata, nel Sud supera addirittura la metà. E trattandosi quasi sempre di persone che ancora non hanno avuto rapporti di lavoro, il loro unico “ammortizzatore sociale” è la famiglia. Qualcuno ha tentato paragoni con i movimenti studenteschi del Sessantotto: ma se quaranta anni or sono si poneva in discussione il “sistema”, al centro della protesta ci sono oggi problemi esistenziali, attinenti al futuro dei singoli.

Certo, questo grande problema è soltanto indirettamente legato alla condizione dell’università. Di cui nessuno, che si sappia, nega la necessità di una riforma: sono le caratteristiche di “questa” riforma a scontentare un po’ tutti. I ricercatori, che sono fra i peggio retribuiti del mondo, e nel testo cercherebbero invano disposizioni sulla periodicità dei concorsi per uscire dalla loro precaria situazione. Gli studenti, che si vedono tagliare le borse di studio e perfino i buoni mensa. I docenti precari, costretti ad alimentare la “fuga dei cervelli”, cercando all’estero quelle gratificazioni scientifiche ed economiche che si vedono negate in patria. Nulla da eccepire invece sull’intenzione di ridurre o accorpare le sedi: novantacinque atenei sono effettivamente troppi, a volte con corsi di laurea che sembrano esistere soltanto per tenere in piedi cattedre inutili, corsi frequentati a volte da un numero risibile di studenti. Coloro che difendono queste obsolete “baronie” mischiano le loro discutibili ragioni con quelle sacrosante di chi vorrebbe un’università più snella, più moderna, effettivamente tarata sul merito, capace di incoraggiare anche chi non ha alle spalle famiglie ad alto reddito.

Quest’ultimo è un altro elemento che accomuna la polemica italiana a quella britannica. Sono due le motivazioni di chi attacca nel Regno Unito lo smisurato rincaro delle tasse universitarie. La prima riguarda gli studenti meno abbienti che proprio non ce la fanno, nonostante la possibilità di dilazioni di pagamento fino al momento in cui la qualificazione universitaria garantirà un reddito lavorativo, ad affrontare un simile impegno. La seconda motivazione: poiché da una buona istruzione usciranno cittadini in grado di fornire beni o servizi migliori, è interesse dello stato, che ne trarrà beneficio, finanziare la formazione. Una posizione apparentemente statalista, che pure era evocata nel programma dei liberaldemocratici, la terza forza britannica fra laburisti e conservatori, ora in evidente imbarazzo di fronte alla decisione del governo di cui fanno parte. Dunque anche a Londra la politica balbetta di fronte a queste sfide epocali: come in Italia, dove nel trionfo dei luoghi comuni si passa da un’accettazione acritica delle ragioni della protesta a una sua riduzione a semplice leva polemica, che si accusa di volere semplicemente sconvolgere gli equilibri di potere. Come se a suo tempo non si fosse manifestato anche contro altri governi, altri ministri, altre riforme.

                                                          Alfredo Venturi 
                                         

    


                                                  

 
 

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