FOGLIO LAPIS - DICEMBRE - 2006

 
 

Una ragazza alle prese con una grave emergenza sanitaria racconta la sua esperienza ospedaliera – Senso di smarrimento, di estraneità e d’impotenza – Un rapporto con i medici che riscatta attraverso uno straordinario calore umano il peso dell’incomunicabilità e dei problemi organizzativi – Il racconto si è imposto nel concorso per il premio di studio del liceo “Francesco Petrarca” di Arezzo intitolato alla memoria del dott. Pier Luigi Dal Pozzo  

 

 

È stata l’immediatezza dell’esperienza personale, resa con vivida efficacia, a imporsi nel concorso indetto dal liceo “Francesco Petrarca” di Arezzo in memoria del dott. Pier Luigi Dal Pozzo. L’esperienza di una ragazza che a sedici anni si è trovata a dover affrontare una grave emergenza sanitaria. Il tema sollecitava una riflessione sulla frase di un celebre clinico, Massimo Aloisi, che invitava i medici a tenere nella debita considerazione il fatto che il paziente, oggetto delle loro cure, è prima di tutto una persona e come tale va considerato. L’elaborato, che qui riportiamo integralmente, si è aggiudicato il premio con la seguente motivazione: “Con un impianto assolutamente personale, la prova risponde alla traccia attraverso una ricca serie di considerazioni sempre ben controllate  da rigore logico e valorizzate da una efficace carica emotiva: qualità che rendono l’elaborato veramente convincente sia per l’equilibrio e la maturità delle riflessioni (tutte intensamente meditate) sia per la pregevolissima padronanza espositiva”.

 

     Superficie fredda della barella sotto le gambe, luce tenue che filtra dalle tendine verdi e che si scontra aspramente con il bianco delle pareti, degli scaffali, delle attrezzature e del camice del medico che mi scruta in silenzio, con occhio esperto; in piedi vicino a me, eppure cosi lontano.

     Se lo ricordava che sono una donna, un essere umano come lui?

     Prende in mano oggetti strani, sembra sappia a cosa servono. Tutto dipende da lui adesso.

     Spogliati”.

     Se lo ricordava che poco fa ero una bambina, che avevo paura?

     Massimo Aloisi sostiene che l’avrebbe dovuto ricordare. Poi via, spinta in una strada impervia, meta sconosciuta, prima tappa un nome strano, che non voleva dire niente per me, che nessuno mi ha spiegato, soffocando la mia volontà di conoscenza con sorrisi e discorsi futili.

     Un paternalismo odioso di cui peccano molto spesso i medici, che tendono a lasciare che il paziente navighi in un alone di incomprensione. Pensando probabilmente che sarebbe inutile spiegare, che non potrebbe capire.

     Secondo Aloisi il clinico dovrebbe scoprire nel malato un uomo; potrebbe farlo sentendosi uomo egli stesso prima che medico.

     Se soltanto cogliesse tutti i processi psicologici che avvengono in un secondo nella mente del paziente ad ogni suo sguardo, se si rendesse conto di quando incida, per chi sa di avere la vita in mani altrui, il suo uso di una parola piuttosto che di un’altra.

     Ho percepito negligenza, eppure non mi sento di rimproverare molto alla categoria dei medici; trovo la problematica molto complessa e delicata.

     Il clinico è gravato di un grandissima responsabilità, pratica e morale.

     La sua figura è da sempre uno dei cardini della società. Storicamente c’è stato un grande mutamento del rapporto medico–paziente con lo sviluppo della tecnologia, che ha allontanato i due fisicamente, ed ha distrutto la stretta confidenza preesistente; ma sarebbe fuori luogo etichettare come negativo questo processo naturale.

     Ad ostacolare ulteriormente il rapporto c’è il carico di lavoro quasi ingestibile di cui sono oberati i clinici d’ospedale, che si trovano costretti a svolgere il loro compito nel modo più corretto professionalmente, rapido e sbrigativo possibile.

     Per questo si è creata una “collaborazione a catena”: il paziente non viene seguito da un medico in particolare che lo guida lungo la sua strada, ma si trova ad “essere passato” di medico in medico, passivamente.

     Freddamente spinto, bendato, su sentieri che non conosce e che deve superare. 

     Deve farlo, trovando forza solo in sé.

     Eppure non vedo come i medici possano fare diversamente, alla luce delle loro condizioni di lavoro.

     Ammiro profondamente le persone che hanno il coraggio e la forza di vivere a stretto contatto con una realtà cosi pesante, e che hanno deciso di lavorare per aiutare uomini che stanno male.

     Nel mio percorso ospedaliero ho creduto di aver incrociato degli angeli. Clinici che nell’unica ora in cui sono stati a contatto con me mi hanno trasmesso moltissimo, mi hanno stretto la mano e, pur lasciandomi preda dell’incomprensione, mi hanno fatto dimenticare dove mi trovassi.

     Persone fantastiche che, al di là di tutti i problemi organizzativi che portano alla negligenza, riescono ad aiutare almeno un po’ chi comunque un percorso difficile lo deve attraversare, prima di tutto con sé stesso.

 

                                                   Elena Mirra

 

   


                                                  

 
 

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