Una
ragazza alle prese con una grave emergenza sanitaria
racconta la sua esperienza ospedaliera – Senso di
smarrimento, di estraneità e d’impotenza – Un
rapporto con i medici che riscatta attraverso uno
straordinario calore umano il peso
dell’incomunicabilità e dei problemi organizzativi –
Il racconto si è imposto nel concorso per il premio di
studio del liceo “Francesco Petrarca” di Arezzo
intitolato alla memoria del dott. Pier Luigi Dal Pozzo
È
stata l’immediatezza dell’esperienza personale, resa con
vivida efficacia, a imporsi nel concorso indetto dal liceo
“Francesco Petrarca” di Arezzo in memoria del dott. Pier
Luigi Dal Pozzo. L’esperienza di una ragazza che a sedici
anni si è trovata a dover affrontare una grave emergenza
sanitaria. Il tema sollecitava una riflessione sulla frase
di un celebre clinico, Massimo Aloisi, che invitava i medici
a tenere nella debita considerazione il fatto che il
paziente, oggetto delle loro cure, è prima di tutto una
persona e come tale va considerato. L’elaborato, che qui
riportiamo integralmente, si è aggiudicato il premio con la
seguente motivazione: “Con un impianto assolutamente
personale, la prova risponde alla traccia attraverso una
ricca serie di considerazioni sempre ben controllate
da rigore logico e valorizzate da una efficace carica
emotiva: qualità che rendono l’elaborato veramente
convincente sia per l’equilibrio e la maturità delle
riflessioni (tutte intensamente meditate) sia per la
pregevolissima padronanza espositiva”.
Superficie fredda della
barella sotto le gambe, luce tenue che filtra dalle tendine
verdi e che si scontra aspramente con il bianco delle
pareti, degli scaffali, delle attrezzature e del camice del
medico che mi scruta in silenzio, con occhio esperto; in
piedi vicino a me, eppure cosi lontano.
Se lo ricordava che sono
una donna, un essere umano come lui?
Prende in mano oggetti
strani, sembra sappia a cosa servono. Tutto dipende da lui
adesso.
“Spogliati”.
Se lo ricordava che poco
fa ero una bambina, che avevo paura?
Massimo Aloisi sostiene
che l’avrebbe dovuto ricordare. Poi via, spinta in una
strada impervia, meta sconosciuta, prima tappa un nome
strano, che non voleva dire niente per me, che nessuno mi ha
spiegato, soffocando la mia volontà di conoscenza con
sorrisi e discorsi futili.
Un paternalismo odioso
di cui peccano molto spesso i medici, che tendono a lasciare
che il paziente navighi in un alone di incomprensione.
Pensando probabilmente che sarebbe inutile spiegare, che non
potrebbe capire.
Secondo
Aloisi il clinico dovrebbe scoprire nel malato un uomo;
potrebbe farlo sentendosi uomo egli stesso prima che medico.
Se
soltanto cogliesse tutti i processi psicologici che
avvengono in un secondo nella mente del paziente ad ogni suo
sguardo, se si rendesse conto di quando incida, per chi sa
di avere la vita in mani altrui, il suo uso di una parola
piuttosto che di un’altra.
Ho percepito negligenza,
eppure non mi sento di rimproverare molto alla categoria dei
medici; trovo la problematica molto complessa e delicata.
Il clinico è gravato di
un grandissima responsabilità, pratica e morale.
La sua figura è da
sempre uno dei cardini della società. Storicamente c’è
stato un grande mutamento del rapporto medico–paziente con
lo sviluppo della tecnologia, che ha allontanato i due
fisicamente, ed ha distrutto la stretta confidenza
preesistente; ma sarebbe fuori luogo etichettare come
negativo questo processo naturale.
Ad ostacolare
ulteriormente il rapporto c’è il carico di lavoro quasi
ingestibile di cui sono oberati i clinici d’ospedale, che
si trovano costretti a svolgere il loro compito nel modo più
corretto professionalmente, rapido e sbrigativo possibile.
Per questo si è creata
una “collaborazione a catena”: il paziente non viene
seguito da un medico in particolare che lo guida lungo la
sua strada, ma si trova ad “essere passato” di medico in
medico, passivamente.
Freddamente spinto,
bendato, su sentieri che non conosce e che deve superare.
Deve farlo, trovando
forza solo in sé.
Eppure non vedo come i
medici possano fare diversamente, alla luce delle loro
condizioni di lavoro.
Ammiro profondamente le
persone che hanno il coraggio e la forza di vivere a stretto
contatto con una realtà cosi pesante, e che hanno deciso di
lavorare per aiutare uomini che stanno male.
Nel mio percorso
ospedaliero ho creduto di aver incrociato degli angeli.
Clinici che nell’unica ora in cui sono stati a contatto
con me mi hanno trasmesso moltissimo, mi hanno stretto la
mano e, pur lasciandomi preda dell’incomprensione, mi
hanno fatto dimenticare dove mi trovassi.
Persone fantastiche che,
al di là di tutti i problemi organizzativi che portano alla
negligenza, riescono ad aiutare almeno un po’ chi comunque
un percorso difficile lo deve attraversare, prima
di tutto con sé stesso.
Elena
Mirra
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