I
ripetuti episodi di prevaricazione nelle scuole hanno
portato sotto i riflettori un fenomeno antico che una
volta era considerato una sorta di fisiologico rito
d’iniziazione – La sensibilità attuale lo considera
invece con la giusta severità – Il lavoro
chiarificatore di Città educativa, il laboratorio
d’idee del comune di Roma, e l’incisiva analisi di
Giovanni Campana, un preside modenese che in vent’anni
di professione ha studiato attentamente le violenze di
classe
“Due ragazzi della classe mia prendono in giro una mia
amica solo perché è di colore… La mia amica soffre ma a
loro non importa”. “Il bullo sembra il più forte ma in
realtà è il più debole”. “La lite deve essere alla
pari”. “Il bullo non si accorge di aver fatto soffrire
una persona”. “L’unione fa la forza e tutti devono
combattere contro il bullismo”. Sono alcune fra le molte
osservazioni affluite in un blog (www.cittaeducativa.roma.it/blog)
che Città educativa, l’efficace veicolo d’idee del
comune di Roma, ha dedicato a un tema, il bullismo appunto,
percepito dall’opinione pubblica con sempre maggiore
malessere e allarme. Un tema, del resto, di stringente
attualità non soltanto in Italia.
Città educativa ha anche condotto un’inchiesta su
un campione di studenti romani, dalle elementari alle
secondarie superiori, che conferma la diffusione del
fenomeno. Ne risulta infatti che il cinquanta per cento dei
ragazzi ha partecipato direttamente (come prevaricatore o
come vittima) o indirettamente (come spettatore) a episodi
di sopraffazione o di violenza fra compagni di scuola. Dalla
stessa indagine emerge che il bullismo si avvale sempre più
dei nuovi strumenti di comunicazione ormai diffusissimi fra
i ragazzi: internet, sms, videocellulari.
Sullo stesso tema l’Adi, Associazione docenti
italiani, ha pubblicato in rete nella sua newsletter (adiscuola@tiscali.it)
un saggio di estremo interesse firmato da Giovani Campana,
da vent’anni preside di scuola media a Modena. “Un
fenomeno antico in un contesto nuovo”: così Campana
titola la sua analisi. Fenomeno antico, ma a suo tempo
considerato non problematico, a parte ovviamente le punte
estreme di violenza. Il preside modenese considera di
“deprimente superficialità” le cose che si leggono sul
bullismo nella stampa italiana. Vi manca infatti la
necessaria attenzione alle connessioni fra quel fenomeno e
l’attuale contesto di una società permissiva sì ma anche
“violenta, senza valori, con potenti tecnologie
dell’informazione e dell’immagine a disposizione di
tutti”.
Quarant’anni or sono, argomenta Campana, sarebbe
stato impensabile lanciare una campagna su questo fenomeno:
a parte gli eccessi, “il resto era quel giusto arrangiarsi
fra ragazzi, che ne avrebbe fatto degli uomini”. Non
abbiamo forse alle spalle “secoli di nonnismo nelle
caserme” e vari fascismi che disprezzavano ogni forma di
debolezza? Una volta per un uomo era indecoroso abbandonarsi
in pubblico alla commozione, “oggi piangono tutti, dai
campioni sportivi ai capi di stato”. Molte cose sono
cambiate, “il contesto di civiltà che la nostra società
esprime sembra per molti versi più favorevole che in
passato al rifiuto della violenza”. Per questo oggi si fa
un gran parlare dei bulli, eredi dei tollerati monelli del
tempo che fu.
Secondo Campana questi comportamenti sono la
degenerazione di uno sforzo individuale di affermazione
della propria identità: “è a se stessi che si vuole
arrivare attraverso un certo circuito d’azione su
qualcosa, su altro”. In una certa misura lo studioso di
Modena concorda con l’intuizione dei ragazzi di Roma a
proposito della debolezza intrinseca di chi cerca
d’imporsi con la sopraffazione sull’altro: “la
debolezza di cui mi voglio liberare, la mia debolezza, è lì
davanti, fuori di me, è tutta addosso a questo qui e io la
posso annientare…”.
Un capitolo di particolare interesse del saggio
pubblicato dall’Adi riguarda la difficoltà di
quantificare il fenomeno. Esso infatti comprende un ampio
spettro di manifestazioni, di cui soltanto quelle
denunciate, o comunque le più gravi o le più dannose,
saltano agli occhi e dunque vengono registrate. Al numero
relativamente contenuto di “situazioni prolungate,
pesanti, serie” si aggiunge infatti l’alto numero di
coloro che “vengono comunque colpiti in modo più o meno
leggero e possono entrare in uno stato di prudente
inquietudine”. La presa in giro della ragazzina indicata
come “racchia” o del ragazzino “imbranato” possono
durare mesi, anni, fino all’intero ciclo scolastico.
Con effetti a volte devastanti: “la vittima vede che
la sua vita si fa sempre più stretta, si interroga
angosciosamente sul proprio valore personale, si autolimita
nelle uscite pomeridiane per timore d’incontrare quelli là,
rinuncia al calcio, alla pallavolo, comincia a fare assenze
da scuola dichiarando ai genitori mal di pancia, a volte
somatizza davvero…” Infine, la reticenza di chi subisce:
“le vittime spesso non dicono nulla”. Quando i genitori
intuiscono che qualcosa non va, talvolta peggiorano la
situazione invitando il ragazzo a difendersi, ma lui di
solito è timido, insicuro, la consapevolezza di non essere
in grado di reagire finisce col dare il colpo di grazia alla
sua autostima già vacillante. Per questi ragazzi, e chissà
quanti sono, la scuola è semplicemente un incubo.
a. v.
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