FOGLIO LAPIS - DICEMBRE - 2006

 
 

I ripetuti episodi di prevaricazione nelle scuole hanno portato sotto i riflettori un fenomeno antico che una volta era considerato una sorta di fisiologico rito d’iniziazione – La sensibilità attuale lo considera invece con la giusta severità – Il lavoro chiarificatore di Città educativa, il laboratorio d’idee del comune di Roma, e l’incisiva analisi di Giovanni Campana, un preside modenese che in vent’anni di professione ha studiato attentamente le violenze di classe  

 

 

Due ragazzi della classe mia prendono in giro una mia amica solo perché è di colore… La mia amica soffre ma a loro non importa”. “Il bullo sembra il più forte ma in realtà è il più debole”. “La lite deve essere alla pari”. “Il bullo non si accorge di aver fatto soffrire una persona”. “L’unione fa la forza e tutti devono combattere contro il bullismo”. Sono alcune fra le molte osservazioni affluite in un blog (www.cittaeducativa.roma.it/blog) che Città educativa, l’efficace veicolo d’idee del comune di Roma, ha dedicato a un tema, il bullismo appunto, percepito dall’opinione pubblica con sempre maggiore malessere e allarme. Un tema, del resto, di stringente attualità non soltanto in Italia.

Città educativa ha anche condotto un’inchiesta su un campione di studenti romani, dalle elementari alle secondarie superiori, che conferma la diffusione del fenomeno. Ne risulta infatti che il cinquanta per cento dei ragazzi ha partecipato direttamente (come prevaricatore o come vittima) o indirettamente (come spettatore) a episodi di sopraffazione o di violenza fra compagni di scuola. Dalla stessa indagine emerge che il bullismo si avvale sempre più dei nuovi strumenti di comunicazione ormai diffusissimi fra i ragazzi: internet, sms, videocellulari.

Sullo stesso tema l’Adi, Associazione docenti italiani, ha pubblicato in rete nella sua newsletter (adiscuola@tiscali.it) un saggio di estremo interesse firmato da Giovani Campana, da vent’anni preside di scuola media a Modena. “Un fenomeno antico in un contesto nuovo”: così Campana titola la sua analisi. Fenomeno antico, ma a suo tempo considerato non problematico, a parte ovviamente le punte estreme di violenza. Il preside modenese considera di “deprimente superficialità” le cose che si leggono sul bullismo nella stampa italiana. Vi manca infatti la necessaria attenzione alle connessioni fra quel fenomeno e l’attuale contesto di una società permissiva sì ma anche “violenta, senza valori, con potenti tecnologie dell’informazione e dell’immagine a disposizione di tutti”.

Quarant’anni or sono, argomenta Campana, sarebbe stato impensabile lanciare una campagna su questo fenomeno: a parte gli eccessi, “il resto era quel giusto arrangiarsi fra ragazzi, che ne avrebbe fatto degli uomini”. Non abbiamo forse alle spalle “secoli di nonnismo nelle caserme” e vari fascismi che disprezzavano ogni forma di debolezza? Una volta per un uomo era indecoroso abbandonarsi in pubblico alla commozione, “oggi piangono tutti, dai campioni sportivi ai capi di stato”. Molte cose sono cambiate, “il contesto di civiltà che la nostra società esprime sembra per molti versi più favorevole che in passato al rifiuto della violenza”. Per questo oggi si fa un gran parlare dei bulli, eredi dei tollerati monelli del tempo che fu.

Secondo Campana questi comportamenti sono la degenerazione di uno sforzo individuale di affermazione della propria identità: “è a se stessi che si vuole arrivare attraverso un certo circuito d’azione su qualcosa, su altro”. In una certa misura lo studioso di Modena concorda con l’intuizione dei ragazzi di Roma a proposito della debolezza intrinseca di chi cerca d’imporsi con la sopraffazione sull’altro: “la debolezza di cui mi voglio liberare, la mia debolezza, è lì davanti, fuori di me, è tutta addosso a questo qui e io la posso annientare…”.

Un capitolo di particolare interesse del saggio pubblicato dall’Adi riguarda la difficoltà di quantificare il fenomeno. Esso infatti comprende un ampio spettro di manifestazioni, di cui soltanto quelle denunciate, o comunque le più gravi o le più dannose, saltano agli occhi e dunque vengono registrate. Al numero relativamente contenuto di “situazioni prolungate, pesanti, serie” si aggiunge infatti l’alto numero di coloro che “vengono comunque colpiti in modo più o meno leggero e possono entrare in uno stato di prudente inquietudine”. La presa in giro della ragazzina indicata come “racchia” o del ragazzino “imbranato” possono durare mesi, anni, fino all’intero ciclo scolastico.

Con effetti a volte devastanti: “la vittima vede che la sua vita si fa sempre più stretta, si interroga angosciosamente sul proprio valore personale, si autolimita nelle uscite pomeridiane per timore d’incontrare quelli là, rinuncia al calcio, alla pallavolo, comincia a fare assenze da scuola dichiarando ai genitori mal di pancia, a volte somatizza davvero…” Infine, la reticenza di chi subisce: “le vittime spesso non dicono nulla”. Quando i genitori intuiscono che qualcosa non va, talvolta peggiorano la situazione invitando il ragazzo a difendersi, ma lui di solito è timido, insicuro, la consapevolezza di non essere in grado di reagire finisce col dare il colpo di grazia alla sua autostima già vacillante. Per questi ragazzi, e chissà quanti sono, la scuola è semplicemente un incubo.

 

                                                                   a. v. 

 

   


                                                  

 
 

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