FOGLIO LAPIS - DICEMBRE - 2005

 
 

C’è molta approssimazione nei dati che riguardano la capacità di leggere e scrivere: anche per la difficoltà di definire esattamente che cosa s’intende come soglia di alfabetizzazione – Ma una cosa è certa: la situazione italiana è fra le più desolanti se si considerano i paesi comparabili – I risultati di un’inchiesta fondata sul censimento del 2001 non fanno che confermarlo – Una sola luce nel buio: il ritorno della comunicazione alfabetica attraverso i messaggi sms  

 

Che cosa s’intende per analfabeta? L’analisi della parola è facile: c’è un bell’alfa privativo davanti all’alfabeto, dunque qualcuno sprovvisto dell’alfabeto, o per essere precisi della conoscenza di quella preziosa serie di segni grafici chiamati a rappresentare i suoni della lingua. In pratica, la parola designa chi non sa leggere né scrivere. Secondo l’Unesco, analfabeta non è soltanto chiunque non conosca l’alfabeto ma anche chi, conoscendolo, non è in grado di adoperarlo se non per scrivere soltanto il proprio nome, o al più una frase rituale mandata a memoria. Ci sono insomma dei gradi di analfabetismo o piuttosto, se si preferisce considerare il bicchiere mezzo pieno, dei gradi di alfabetizzazione. Ci sono analfabeti totali e parziali. C’è inoltre un analfabetismo di ritorno, che sarebbe nient’altro che una ricaduta nel vuoto della non lettura e della non scrittura da parte di chi un po’ di abc lo aveva incorporato.

La sostanziale imprecisione del concetto spiega l’approssimazione dilagante negli studi in materia. Quanti sono gli italiani, per esempio, che non sanno leggere né scrivere? L’1,1 per cento fra gli uomini, il 2 fra le donne, risponde l’Unesco (dati resi pubblici nel 2000, la percentuale si riferisce al totale della popolazione oltre i 15 anni di età). Magari!, risponde l’Unla (Unione nazionale per la lotta contro l’analfabetismo), diffondendo i risultati di uno studio condotto dall’università di Castel Sant’Angelo sui dati del censimento del 2001. Fra quei risultati ce n’è uno che parla addirittura di un 12 per cento della popolazione che si può considerare analfabeta. È chiaro che qui il concetto viene esteso ben oltre la totale incapacità di leggere e scrivere. In questo studio si arriva a indicare una massa di 36 milioni d’italiani, quasi i due terzi della popolazione, che pur essendo tecnicamente in grado di leggere e di scrivere ha ben poca dimestichezza con queste pratiche.

Verso la fine dell’Ottocento un poeta siciliano, Mario Rapisardi, facendo il verso a Goethe cantava beffardo: “Conosci tu il paese dei floridi aranceti/ che ha su cento abitanti settanta analfabeti?” Bene, da allora qualche progresso lo abbiamo fatto, ma l’istruzione elementare obbligatoria è ben lontana dall’aver compiuto l’atteso miracolo, quello di produrre un paese di lettori tenaci e appassionati, di gente disinvolta davanti al foglio bianco, o alla tastiera alfanumerica. Il fiasco della scuola italiana è cocente: risulta infatti che fra un quinto e un quarto dei ragazzi e delle ragazze che escono dalla media non sa leggere se non in modo approssimativo. Di fatto non leggono, e alimentano le mortificanti statistiche sul consumo di libri e giornali. Il linguista Tullio De Mauro, uno dei massimi esperti del settore, denuncia che di fronte a questa emergenza non solo non si fa nulla, ma si arriva a tagliare i fondi destinati all’educazione degli adulti che pure, a differenza dall’investimento scolastico, darebbero frutti immediati.

Si parla tanto di scuola di massa, eppure ecco qui i dati: sono soltanto quattro milioni gli italiani che hanno seguito il corso completo di studi fino alla laurea, si tratta di appena il 7,5 per cento della popolazione. Quelli che hanno completato la scuola media superiore sono il 25,85 per cento. Il 30,12 per cento non è andato oltre la media inferiore, mentre il 36,52 per cento si è fermato alla quinta elementare. Poiché non può trattarsi soltanto di vecchi, di gente cioè che andava a scuola quando l’obbligo si limitava alle prime cinque classi, è chiaro che siamo di fronte a una massiccia evasione del dovere costituzionale di passare almeno otto anni sui banchi di scuola, per tacere dell’obbligo prolungato più recentemente introdotto. Non sorprende dunque che le statistiche Ocse sull’istruzione collochino l’Italia al ventottesimo posto fra i trenta paesi che fanno parte dell’organizzazione: fanno peggio soltanto Messico e Portogallo.

Ora poi si fa strada, con l’irrompere delle nuove tecnologie, una nuova forma di analfabetismo, quello informatico. Anche qui l’Italia è in ritardo rispetto alla maggior parte degli altri paesi comparabili per reddito e tradizioni culturali: i due terzi della popolazione non sanno usare il computer. Non a caso la spesa per prodotti informatici si limita al 2,02 del prodotto interno lordo, mentre se si aggiunge quanto si spende per le telecomunicazioni si arriva al 4,26: un dato che vede l’Italia ventitreesima fra i venticinque paesi dell’Unione Europea (più indietro soltanto Spagna e Grecia).

Insomma andiamo piuttosto male, sia con la lettura-scrittura tradizionale, sia con quella che si avventura sugli infiniti sentieri della Rete. Il solo spiraglio nel buio, per chi si sa contentare, è rappresentato da quella sorta di riscoperta della comunicazione alfabetica che è avvenuta fra i giovani e i giovanissimi grazie ai messaggi sms. Si tratta di una scrittura rudimentale e sincopata, ma essendo chiamata a colmare un vuoto pneumatico davvero sconfortante, va salutata e incoraggiata. In fondo non è poi così sballato scrivere ke al posto di che: si faceva anche agli albori della lingua italiana. E l’uso di sigle o di formule abbrevianti (xke al posto di perché) non fa che condensare il messaggio, può essere visto come un apprezzabile lavoro di sintesi. Dopo decenni in cui la comunicazione, soprattutto fra i più giovani, sembrava ridursi alla sola oralità, i telefoni cellulari propongono dunque qualcosa di simile a una riscossa, a una rivincita dell’alfabeto.

 

                                                  r.f.l.  

 

 

 
 

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