FOGLIO LAPIS - DICEMBRE 2000

 

 

Una singolare ventata di nostalgia ha accolto il varo della riforma dei cicli scolastici - Si rimpiange il passato, si evoca la scuola elementare di De Amicis, commentatori e personaggi della cultura e dello spettacolo vengono sollecitati a evocare le loro prime esperienze fra i banchi - Una volta ancora l'emotività prevale sulla ragione, un misoneismo istintivo sulla documentata necessità dell'innovazione

 

E' stato un pianto corale, una gara di nostalgiche evocazioni. Quotidiani, periodici, trasmissioni radiotelevisive si sono contesi i racconti, i ricordi, le lacrime. Che cosa ricorda dei primi anni di scuola? Molti personaggi dell'attualità non si sono fatti pregare: chi potrebbe resistere alle tenere memorie dell'infanzia?

Particolarmente richieste le testimonianze di gente un pochino attempata, dunque in grado di tuffarsi con il ricordo in anni già ricoperti dalla magica polvere della storia. Abbiamo così passato in rassegna i banchi di legno verniciati di nero, le penne col pennino, le indelebili macchie d'inchiostro, i calamai periodicamente riempiti dai bidelli, la grande stufa di terracotta rossa che riscaldava l'aula, le ore passate in castigo dietro la lavagna. Qualcuno ha evocato ritratti di re e duci appesi alle pareti, carte geografiche con grandi pezzi di Africa dipinti di verde, le nostre colonie perbacco. E soprattutto lei, la maestra, o lui, il maestro, visto che l'insegnamento elementare non è sempre stato risorsa quasi esclusiva dell'altra metà del cielo. L'insegnante dei primi anni, protagonista della fase più delicata, e spesso risolutiva, della nostra formazione. E' stato un inno alla scuola deamicisiana delle buone intenzioni e dei buoni sentimenti, alla piccola vedetta lombarda, alla maestrina dalla penna rossa. Ai luoghi comuni insomma.

Un autorevole commentatore del Corriere della Sera, Angelo Panebianco, commenta criticamente l'annunciata riforma dei cicli scolastici e versa una lacrima sulla fine di quella scuola elementare che, cito testualmente, "ha insegnato a tutti noi a leggere e scrivere". A tutti noi? Leggere e scrivere? Ma una recentissima indagine comparata del Cede, ripresa dall'Ocse e citata da Tullio De Mauro, ministro della Pubblica Istruzione, rivela impietosamente che un terzo degli italiani è sulle soglie dell'analfabetismo e un altro terzo si aggira pericolosamente nei paraggi. Dunque solo un italiano su tre è in grado di leggere e scrivere senza problemi. Quanto poi al consumo di libri, alle cognizioni di massa facilmente verificabili dando un'occhiata a una della tante trasmissioni televisive fondate sui quiz, siamo a livelli non esattamente lusinghieri. Se questi sono i risultati della maestrina dalla penna rossa, sembra davvero il momento di mandarla in pensione.

Ma è proprio così? La riforma manda in pensione la vecchia figura dell'insegnante elementare? Niente affatto. Si limita piuttosto a integrarne la funzione con quella dei docenti attualmente impegnati nella scuola media. Finora si è parlato di cicli, creando il nuovo percorso della scuola di base, ma ancora non sono stati definiti i programmi e i compiti. Si pensa a un ruolo ancora esclusivo del maestro nel primo biennio, quello della prima alfabetizzazione, seguita da anni in cui i docenti "medi" affiancano l'insegnante elementare e da anni in cui essi assumono il ruolo centrale. I critici sostengono che in questo modo si fa un impresentabile miscuglio, confondendo un personale programmato per avere a che fare con i piccolissimi e professori addestrati per insegnare agli adolescenti. Ma questo non è esatto: in realtà gli attuali docenti di scuola media non hanno, di solito, una formazione didattica. Sono semplicemente portatori di competenze che si ritiene siano in grado di trasmettere. Tutto questo viene facilmente dimenticato, nel fuoco di una polemica preconcetta e misoneista, che prende il posto di quello che invece potrebbe e dovrebbe essere un vasto articolato dibattito sui contenuti della riforma.

Un altro argomento critico riguarda gli organici. Si dice che la riforma dei cicli finirà con il ridurre il fabbisogno complessivo di insegnanti. Ora io non so se questo sia vero, il ministero smentisce decisamente questa prospettiva, altri la considerano realistica e inevitabile. Ma il punto non è questo. Il punto è che la scuola non può ridursi a ufficio di collocamento: la qualità di una organizzazione scolastica non si misura sulla base della densità di occupazione che vi è connessa. Si misura unicamente sulla base dei risultati: del patrimonio di cognizioni, della capacità di pensare, di organizzarsi, di risolvere i problemi, dell'attitudine alla lettura, del livello di curiosità e del desiderio di continuare ad apprendere che i ragazzi portano con se' all'uscita dall'esperienza scolastica. Se, come sembra ovvio, una scuola più efficiente significa anche un organico più folto di insegnanti, tanto meglio: ma con tutto il rispetto per le organizzazioni di categoria anche questo punto, come i tanti che hanno polarizzato l'attenzione all'annuncio della riforma, non è altro che un sacrificio della ragione sull'altare del sentimento e del luogo comune. Così come lo è, con in più l'aggravante del calcolo strumentale, la tentazione di cavalcare, dopo averlo alimentato, il malcontento di molti docenti di fronte alla riforma, visto che gli insegnanti sono una bella fetta del corpo elettorale. La formidabile scommessa di adeguare la scuola alla sfida dei tempi merita ben altro che la miopia di queste visioni e il piagnucolio delle nostalgie deamicisiane.

 

Alfredo Venturi

 

 

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