Vorrei risalire un versante del discorso che forse è stato meno praticato e che è più congeniale a chi come me non ha una costante esperienza di contatto con la realtà carceraria in quanto piuttosto se ne occupa, pur avendo dei contatti anche con la stessa, dal punto di vista degli studi e dell’analisi dei dati, delle ricerche, ecc. Il passaggio che mi porta a considerare la situazione specifica dei soggetti così come è stata toccata efficacemente da chi mi ha preceduto, è un passaggio che io riesco a praticare leggendo dati, risultati di interviste, ricostruzioni storiche dell’evolversi dei fatti, del pensiero, delle culture. E purtuttavia credo che questo modo di avvicinarci ala realtà del carcere ci dia la possibilità, che in fondo rappresenta anche una grande risorsa, di riuscire a leggerlo con un minimo di distacco, che consenta di elaborare delle rappresentazioni, quindi anche delle proposte, che tendono a sottrarsi rispetto alle costruzioni prevalenti, a quelle acquisite e date per scontate, nel modo di porre le questioni. Ritengo in altre parole che ci siano una serie di elementi inconsapevolmente acquisiti, di luoghi comuni inconsci, nel rappresentarsi il problema del carcere e della pena, che uno studio invece di carattere statistico, storico, culturale consente di fare emergere, e quindi di decostruire.

Il mio discorso quindi è un discorso che deve partire dalla questione della recidiva che con voluta provocazione ho indicato nel titolo del mio intervento come “onda lunga della pena”, da considerarsi come un fenomeno che riassume in sé molti elementi di queste inconsce acquisizioni che costituiscono l’immaginario, il senso comune sulla pena, e che nella sua drammaticità e nel modo in cui propone i problemi nella stessa implicati, fa emergere appunto queste distorsioni. Parto da una constatazione che nasce da un confronto tra elementi diversi della storia del pensiero, che  riguarda la storia della pena e del carcere. Cioè la radicale antitesi che esiste tra il pensiero che sottende la giustificazione dell’aggravamento di pena nel caso di recidiva, e il pensiero dei criminologi che hanno studiato come l’itinerario che porta verso definitive carriere devianti passi proprio attraverso il reiterarsi della punizione.

Da un lato cioè, se noi leggiamo in controluce che cosa giustifica l’aggravamento della pena, ritroviamo inevitabilmente gli elementi della retributività da un lato e della funzione rieducativa dall’altro; nel senso che la retributività comporta rispetto a una persona che, pur punita, non ha accettato, non ha interiorizzato il senso del pagamento del suo debito attraverso la punizione, e, nonostante l’esperienza attraversata, torna a delinquere, un inevitabile aggravamento di pena. Se quindi questo non gli è bastato, ciò significa che la sua volontà, che lo porta appunto secondo il principio del libero arbitrio a scegliere di nuovo di violare la legge, ha compiuto qualcosa di più grave; e questa maggiore gravità inevitabilmente va sanzionata con un aggravio di pena. E d’altra parte dal punto di vista della rieducazione si potrebbe sostenere che, visto che la prima esperienza, quella quantità di cura non è stata sufficiente, è necessario un surplus di trattamento, diciamo così, terapeutico,  un surplus di cura, perché sia effettivamente rieducato visto che la cura precedente non è bastata.

Nella sostanza tutti gli elementi che giustificano la pena si appuntano attorno alla necessità di un aggravio di sanzione per reagire a chi non ha capito la lezione.

Le teorie dell’etichettamento sottolineano al contrario come la successiva conferma del tipo di sanzione punitiva, che viene applicata a chi ha intrapreso un comportamento illegale, conduca ad approfondire e radicalizzare l’interiorizzazione del ruolo deviante, facendo assumere definitivamente l’identità deviante, strutturando definitivamente il suo comportamento dentro questo ruolo. In relazione allo stesso il sistema di relazioni in cui è collocato va a ristrutturarsi in modo tale da confermarlo sistematicamente, così da costruire aspettative di devianza che troveranno conferme nei comportamenti devianti del soggetto coinvolto. Quindi siamo di fronte a due pensieri antitetici, il primo non a caso derivante da un legame che nasce dal pensiero liberale e che unisce in un continuum che andrebbe approfondito – e non ho qui il tempo di farlo – tra pensiero classico e pensiero positivo, che partendo dall’idea del rapporto tra stato e cittadino considera tutti i cittadini uguali davanti alla legge, come entità astratte, e applica la pena come una retribuzione negativa rispetto al danno socialmente prodotto, o come una forma standardizzata di rieducazione. Il secondo invece nasce dallo studio scientifico del comportamento umano, dall’analisi empirica dei fenomeni, e contrappone a quella rappresentazione astratta e filosofica l’evidenza dei fatti.

E’ chiaro che a fronte di questo conflitto, di questa tensione, leggi come la recente cosiddetta ex Cirielli, in quanto viene a sanzionare più duramente la recidiva, dimostrano tutta la loro – lo dico senza falsi pudori – arretratezza culturale, rispetto all’evolversi del pensiero scientifico. Per non parlare di altri tipi di arretratezza. Ma ciò che rinforza e ulteriormente conferisce senso al carattere conflittuale di queste diverse rappresentazioni noi possiamo appunto coglierlo, sul piano applicativo di queste astratte costruzioni filosofiche, su cui la giustificazione della pena si regge, attorno all’idea della rieducazione attraverso un surplus di sanzioni. Qui a lume di logica ovviamente - la scienza medica ci conforterebbe in questo senso a livello metaforico – il ripetersi di una cura che si è dimostrata sbagliata non può avere altri effetti che aggravare la malattia. Potremmo cioè esattamente rovesciare il ragionamento che giustifica l’aggravio di pena in caso di recidiva. Se la sanzione penale si è dimostrata inappropriata così da determinare successive violazioni della legge, è sostanzialmente irragionevole, corrispondente a una irrazionalità puramente emotiva e non fondata in alcun modo scientificamente, la ripetizione della stessa cura. Anche perché si è dimostrato che una cura limitata non ha funzionato da vaccino, anzi ha determinato un aggravarsi del male.

E d’altra parte un ulteriore aspetto che va assolutamente colto è che, nell’esperienza della recidiva, si riconferma fino in fondo l’estraneità dell’atteggiamento, dell’esperienza del soggetto, rispetto al significato della pena. Cioè la recidiva è la rappresentazione concreta, fattuale del fatto che il tipo di significati che la società ha inteso trasmettere al soggetto attraverso l’irrogazione della sanzione afflittiva, è un tipo di esperienza, riassume in sé un’ interiorizzazione di elementi, che sostanzialmente si dimostrano distonici, se non addirittura del tutto estranei rispetto alle capacità percettive del soggetto. Lo stesso infatti vive immerso in un’altra dimensione culturale, in un altro contesto di significati, in un altro ambiente immaginario. Sono proprio questa estraneità e questa lontananza che fanno emergere l’originalità del soggetto, il quale riconferma l’habitat culturale da cui proviene, rafforzato dall’esperienza detentiva, radicalizzato da risentimenti e reazioni umanamente non gestibili in termini di autocontrollo, molto spesso, e che quindi in quanto tale esterna l’originalità del suo essere rispetto alle definizioni giuridiche che gli sono state addossate.

La recidiva in questo senso emerge dalla distanza fra l’idea che del soggetto ha il diritto, e ciò che il soggetto concretamente è nell’infelicità della sua esperienza. Gli elementi che confermano queste mie considerazioni nascono appunto da una ricerca abbastanza recentemente fatta, i cui risultati sono stati pubblicati anche sulla Rassegna criminologica penitenziaria, con la quale siamo andati a intervistare un centinaio di ex detenuti che si trovavano in carcere nuovamente dopo esperienze di recidiva.Attraverso tale indagine abbiamo cercato di capire come avevano vissuto la pena nella situazione precedente, come avevano vissuto la situazione dell’uscita dal carcere e come erano arrivati di nuovo a violare la legge e a ritrovarsi detenuti.

In sintesi, anticipando un po’ il senso di tutto ciò che emerge dalla ricerca e che conferma le considerazioni da cui sono partito, quello che più è dato cogliere è stato non tanto il riprodursi – perché anche nella cultura solidaristica si radicano dei luoghi comuni – delle classiche difficoltà, la solitudine, la disoccupazione, l’assenza di casa, la rarefazione dei contatti sociali, l’emarginazione e via dicendo, cioè tutto quello che più immediatamente ci rappresentiamo quando pensiamo alle difficoltà di chi esce dal carcere; quanto piuttosto un disorientamento culturale, un modo di percepire la realtà, la propria realtà e quella dei rapporti sociali in cui si è collocati, e la stessa esperienza detentiva che non rientra nelle coordinate culturalmente istituzionalizzate prevalenti nel nostro vivere civile. In altre parole, anticipando in sintesi il maggior risultato emergente da questa indagine, che poi esemplificherò con qualche dato, si vive in una situazione di sospensione, di rarefazione ideativa e percettiva dei contesti in cui si è collocati, di difficoltà di ricostruire dei riferimenti, tale per cui il significato delle azioni, dei comportamenti, delle situazioni, non è percepibile nello stesso modo in cui è percepibile nella realtà condivisa dalla maggioranza delle persone, che sembrano essere rispettose della legge.

Ci sono degli elementi che confermano questa situazione percettiva di fondo, per esempio per quanto riguarda i contatti con la famiglia. Il rapporto con la famiglia si presenta in linea di massima molto positivo. C’è da parte del detenuto una idealizzazione, in linea di principio, di ciò che è la famiglia, quanto meno la famiglia di origine, per cui il detenuto recidivo dice, nel 70 per cento dei casi, che ha ottimi rapporti con la famiglia d’origine. Un po’ meno, il 37 per cento, dice di avere ottimi rapporti con la famiglia di nuova costituzione. Però quando andiamo a verificare l’ottima qualità di questi rapporti concretamente, dal punto di vista dei fatti, abbiamo solo un 19 per cento di soggetti che hanno preso contatti con la famiglia prima di uscire dal carcere, cioè che si sono attivati per essere aiutati davvero dalla famiglia. Successivamente solo il 10 per cento si è effettivamente poi rivolto alla famiglia una volta uscito dal carcere, a fronte del fatto che d’altra parte il 40 per cento di persone non si esprimono proprio su questo punto, cioè non hanno nulla da dire a proposito dei rapporti con la famiglia. C’è dunque una distanza enorme fra ciò che viene affermato in linea di principio e viene idealizzato e ciò che realmente accade, perché se la famiglia è una specie di bene intoccabile, che va comunque riaffermato e che costituisce un orientamento ideale verso cui riparare nella situazione di difficoltà, o rivendicando comunque una propria dignità affettiva, una propria appartenenza affettiva che fa parte dell’immagine positiva del sé, nei fatti poi questa consistenza di rapporti non esiste.

Altrettanto noi possiamo dire a proposito del lavoro, un altro cardine di quello che dovrebbe essere il reinserimento. Per quanto riguarda il lavoro emerge una situazione di fatto molto difficoltosa. Il 20 per cento era disoccupato dopo la detenzione. Tutte le altre situazioni di lavoro sono riferibili a lavori dequalificati e precari, i lavori fissi erano stati ottenuti solo dal 20 per cento di detenuti. D’altra parte il tema del lavoro nell’immaginario di chi stava per uscire, con riferimento all’esperienza di libertà precedente alla successiva detenzione, non era recepito in termini di autoattivazione, tant’è che il 25 per cento non dice di essersi attivato per cercare un lavoro prima di uscire. C’è quindi  un rapporto diretto fra la scarsa consapevolezza dell’importanza della cosa, la difficoltà di attivarsi e l’assoluta precarietà e scarsa qualità dell’esperienza lavorativa nella fase successiva. Questa scarsa qualità, questo carattere diciamo di difficoltà viene riconosciuto, perché ad essere soddisfatti delle condizioni di lavoro sono solo il 25 per cento, mentre il 56 per cento di chi lavorava avrebbe voluto volentieri cambiare lavoro, in quanto non era contento del lavoro ricoperto. Però quando andiamo a cercare di misurare che difficoltà effettiva, che peso effettivo ha avuto questa difficoltà nella recidiva, a fronte di una scala di affermazioni possibili, a riconoscere il lavoro come una difficoltà è solo il 10 per cento. E a riconoscere il lavoro come la maggior causa della propria ricaduta è solo il 5,6 per cento.

Emerge allora qualcosa davvero di disorientante, cioè noi pensiamo che lavoro significhi reinserimento, normalizzazione , rieducazione, reintegrazione civile e via dicendo, ma queste persone hanno dentro qualcosa di diverso, sono cioè immerse in una dimensione in cui queste considerazioni sono necessariamente laterali rispetto al loro vissuto centrale e dove l’aspetto fondamentale e più sostanziale molto probabilmente – perché noi leggiamo in negativo, cioè troviamo più spazi vuoti che spazi pieni, troviamo piccoli spazi pieni che lasciano grandi spazi vuoti - il poco che emerge da questi piccoli tratteggi ha a che fare con un profondo vissuto precedente, con l’impossibilità di entrare adeguatamente in rapporti sociali soddisfacenti, in una dimensione di estraneità e di conflittualità con le istituzioni che le vedono come nemiche essenzialmente, o come termine continuo di un conflitto dal quale è necessario proteggersi.

Quello che è strano in questo carattere di luogo comune che il termine lavoro assume, è che nonostante la difficoltà lavorativa venga minimizzata come causa della recidiva, viene invece massimizzata quando diventa una richiesta, cioè quando si chiede che cosa bisognerebbe fare, il 25 per cento dice “dateci un lavoro”. Non è molto per la verità, è sempre una percentuale assai limitata, però decisamente più consistente rispetto a quella piccola percentuale che riconosce nel  lavoro una difficoltà nella recidiva. Forse è l’emergere di un luogo comune, forse l’emergere di un risentimento, di un bisogno di riaffermazione, di una qualche rivendicazione.

Un altro aspetto che viene fuori in modo significativo è il fatto che nel momento in cui si pongono delle prospettive sul da farsi e su chi dovrebbe fare, il carattere di rivendicazione da parte degli ex detenuti nuovamente detenuti è molto deciso: il 50 per cento dice che dovrebbe essere lo stato ad aiutarli ad inserirsi, cioè dice l’autorità centrale, non l’ente locale né i servizi sociali, ma proprio lo stato, cioè è chi ha condannato, chi ha deciso la reclusione che deve aiutarli nella situazione dopo il carcere. Mentre le aspettative sono abbastanza rarefatte e stereotipate, oltre al 25 per cento di chi chiede lavoro c’è un altro 15 per cento che parla della casa, c’è un buon 13 per cento che parla del permesso di soggiorno, ovviamente con riferimento agli immigrati. Ma c’è una sfasatura ancora una volta tra il tipo, l’oggetto della richiesta, che è piuttosto contenuto e rarefatto, e il referente della richiesta, che è l’autorità centrale, individuata come il responsabile di una possibile soluzione. E quindi esprime un risentimento, una rivendicatività generica, piuttosto che una richiesta specifica associata a delle misure concrete su problemi concreti.

Sono questi gli elementi – non ho tempo di illustrarne altri - che intendo portare per parlare appunto di rarefazione. Dicevo prima: il fatto di prendere atto di questo stato di cose, che va unito al fatto che la recidiva ondeggia fra il 70 e l’80 per cento dei casi, e che quindi al di là delle migliori intenzioni, delle migliori esperienze che in certi contesti si possono sviluppare, delle idee possibili di trattamento, - il fallimento della capacità rieducativa della pena in termini statistici è assolutamente evidente – non può non portare a interrogarci a fondo sull’adeguatezza e sulla fondatezza dei riferimenti di conoscenza, di giustificazione in termini di teoria di pensiero, dell’applicazione della pena. Io non riesco a scindere gli aspetti empirici, vedere queste persone così disorientate e poco consapevoli, da ciò che socialmente fonda la sanzione, la misura cui sono state sottoposte, l’esperienza che forzosamente hanno attraversato, e che continuerà ad essere applicata fin che la legge resta in questi termini. E quindi ciò che resta centrale, credo che questo sia il nucleo di tutto, al di là di tutte le analisi più recenti sull’amministrativizzazione della pena, sulle tecniche di controllo del territorio ecc. – e in definitiva il fatto che la punizione resta in fondo sempre fondata sostanzialmente sull’idea che bisogna pagare, che se si sbaglia si paga, e che la società ha bisogno che chi sbaglia in qualche modo sconti negativamente gli effetti del suo errore.

Allora ritengo, prendendo spunto da alcune considerazioni di Thomas Mathiesen nel suo noto libro tradotto in italiano Perché il carcere?, e cercando di approfondirle, che sia fondata l’idea che la retributività della pena sia ontologicamente impossibile. In che termini? Nei termini della impossibilità di pensare effettivamente a una quantità di sofferenza che sia proporzionatamente comparabile con ciò che è la sostanza della violazione della legge. Perché questo? E’ facile coglierlo: in fondo la pena riassume tutte le forme di violazione della legge attorno a un’unica idea riparativa, che è la privazione del tempo di libertà. Ora, la privazione del tempo di libertà non è come il denaro. Se è vero che la società mercantile in cui la pena ha preso corpo ed è venuta alla luce nella sua formulazione liberale classica, è una società che ha assunto il tempo come valore di scambio, e d’altra parte questo è stato tradotto anche in moneta, e quindi c’è un’idea della capacità, del valore del denaro di rappresentare in sé qualsiasi tipo di bene, qualsiasi tipo di oggetto e quindi essere elemento possibile dello scambio tra beni, tra risorse diverse, perché riassume in sé il minimo comune denominatore di tutti i valori possibili, al contrario il tempo di vita, cioè il tempo della persona, il tempo del singolo, come esperienza di quantità di libertà sottratta, non è un bene oggettivo, non è un bene asettico, non è un simbolo che rappresenta simbolicamente un valore di scambio; è un tempo che si colloca profondamente nella specificità dell’esperienza del soggetto, nella qualità della sua realtà di vita, e in quanto tale non è comparabile con il tipo di beni che gli articoli del codice penale intendono proteggere attraverso questo tipo di sanzioni.

C’è un fraintendimento profondo tra il senso del danno sociale - che poi sono molto diversi i danni socialmente prodotti dalle diverse condotte criminali – e la retribuzione di queste condotte attraverso la privazione del tempo: come se questo potesse essere misurato in termini equivalenti con la qualità dei danni prodotti dai diversi comportamenti illegali. Quindi è uno scambio sostanzialmente impossibile. E’ uno scambio che se è impossibile dal punto di vista pubblico, cioè del valore dei beni tutelati attraverso la legge penale, lo è anche dal punto di vista privato. Dal punto di vista pubblico l’impossibilità dello scambio è resa evidente dal fatto che l’eterogeneità di cui ho parlato finisce con l’essere superata dall’assunzione dal punto di vista del codice del tempo di pena come strumento di descrizione della gravità del fatto, di materializzazione della gravità del fatto, piuttosto che come effettivo strumento di uno scambio possibile. Rovesciando il discorso, è la quantità di tempo che va a descrivermi la qualità del reato, è un linguaggio in qualche modo, ma non è corrispondente, misurabile con la gravità dell’atto in sé, nella sua specificità.

Dal punto di vista intersoggettivo siamo altrettanto di fronte a una grande eterogeneità, e qui pongo un elemento a cui sicuramente il discorso di Hulsman si è agganciato, vale a dire il vissuto del danno del reato da parte della vittima, che va collocato nella sua condizione sociale, nel sistema di risorse di cui può fruire, che va differenziato a seconda della identità sociale, dell’esperienza e della percezione del soggetto; si tratta comunque sicuramente di una cosa ben diversa dal tempo di libertà sottratto, che a sua volta poi al suo interno si differenzia moltissimo a seconda della condizione sociale dell’individuo condannato. Quindi siamo di fronte a entità distorte, sproporzionate, non scambiabili, in cui lo scambio sostanzialmente perde di significato o meglio ne assume uno puramente ideologico.

Eppure c’è stato un pensiero, in età liberale, che ha commisurato la gravità della pena alla sottrazione di tempo. Ma dobbiamo considerare da dove viene questo pensiero. Era il pensiero di chi aveva bisogno di dire basta con i supplizi, basta con le torture, basta con le sanzioni assolute, che annientano l’individuo di fronte alla suprema autorità del sovrano offeso da ogni forma di illegalità. E’ comprensibile che storicamente i pensatori liberali intendessero porre un freno a questa esacerbata crudeltà rappresentata dai supplizi, e ponessero la questione della dolcezza della pena come antitesi rispetto a quell’idea: ma pur sempre si muovevano in una dimensione di necessaria applicazione di sofferenza, paradossalmente la dolcezza della pena eredita la crudeltà e l’efferatezza dei supplizi e in questo senso si porta dietro il peccato originale, diciamo così, dell’annientamento del reo rispetto alla supremazia del sovrano.

Oggi storicamente siamo in una situazione in cui possiamo seriamente cominciare a pensare di superare questo peccato originale, di entrare più praticamente nel vivo dei fenomeni sociali. Perché siamo ormai in una situazione di pensiero e di capacità di analisi empirica e di studio dei fatti molto, ma molto più avanzata rispetto alla rappresentazione filosofica liberale del rapporto stato-cittadini. E d’altra parte molto più ricca e avveduta che non fosse la traduzione di quella rappresentazione nel pensiero positivista che andava ad attribuire al reo tutte le negatività possibili, in fondo tornando a proiettare la supremazia dello stato sui soggetti. Oggi siamo in una dimensione culturale, politica, di conoscenza, di ricerca scientifica tale per cui possiamo effettivamente entrare concretamente nella specificità delle situazioni, quindi dei conflitti, per trovare le risposte più adeguate. E allora la domanda che è da porsi è se queste risposte si possono trovare necessariamente ancora e solo attraverso l’afflittività della pena, o non possono cominciare, almeno per una grande quantità di casi e di situazioni, ad essere cercate e trovate nella specificità del contesto in cui si dispiega il rapporto fra i soggetti coinvolti nell’esperienza di illegalità. Quindi, andando a vedere nella loro concretezza gli attori, le situazioni, le aspettative, i danni, le reazioni, le retroazioni, le rappresentazioni da parte dell’opinione pubblica, ecc., con riferimento specifico ai casi che ci troviamo a trattare.

Sono convinto, e concludo, che secondo questa specificità, colta prima che venga applicata la pena affittiva, in modo da potere intervenire in modo adeguato, equilibrato, senza sradicamenti, senza sconvolgimenti di sistemi di relazioni, senza alterazioni d’identità drammatiche, senza strumentalismi e ambiguità, ma vedendo davvero chi sono le persone nel contesto in cui, soprattutto se sono all’inizio, pongono in essere comportamenti socialmente lesivi, una risposta adeguata a questo livello sia molto più efficace, anche in termini di sicurezza, rispetto a una risposta che interviene poi, quando ormai l’applicazione della sanzione affittiva, per ciò che ideologicamente rappresenta, – come eredità del pensiero liberale di cui dicevo prima – ha già consumato tutti i suoi effetti negativi. Da questo punto di vista la china da risalire è molto più dura, le deformazioni da sistemare sono molto più complesse, i danni prodotti sono molto più penetranti rispetto invece al fatto di vedere la situazione metodologicamente nella specificità del contesto.

In questo senso la mediazione è un’ottima esperienza, purché intervenga il più possibile al di fuori della dimensione penale, purché rappresenti una sfera d’intervento che non l’avvilisca a articolazione, appendice residuale rispetto a tutta una dimensione di penalità già consumata e già applicata. Che la persona debba rivedere tutta la sua vita, tutti i suoi errori, alla fine della pena, comporta una rielaborazione molto più complessa e a sua volta deformante, rispetto al fatto che fosse portato davanti alla giustizia il significato della sua azione subito, di fronte alla vittima che ha subito il danno e in questo contesto vada a ridefinire se stesso e a ricucire il legame sociale. Queste sono scelte di fondo che oggi si pongono come determinanti. Io credo che il nostro legislatore sia oggi nelle condizioni di poter fare questo salto di costruzione del problema, di rappresentazione del problema e di scelte di forme diverse d’intervento.

                                                         Giuseppe Mosconi 
                                         

    


                                                  

 
 

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