Devo parlare di questo discorso abbastanza astratto che è il destino del carcere. Credo che sia inevitabile che arrivi a vedere quello che c’è oggi e che lo confronti in quanto meno due ipotesi possibili. La prima ipotesi è quella rappresentata dalla situazione penitenziaria degli Stati Uniti. É una valutazione che faccio di questo sistema – e credo che gli Stati Uniti siano assolutamente disinteressati alla cosa – profondamente negativa, però ieri nell’ascoltare il prof Hill ho visto che le valutazioni critiche nello stesso Paese di appartenenza a questo sistema sono frequenti, sono notevoli, tanto che quelle che indicherò sono già state fatte dal prof. Hill nel suo intervento.

Guardiamo cos’è successo: è successo che praticamente alla fine degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta si sono trovati insieme due discorsi completamente diversi. Uno è stato il discorso della politica, che ha incentrato il discorso sulla sicurezza, particolarmente la sicurezza urbana. L’altro discorso è stato quello della teoria, della scienza, il discorso esperto come si dice, ha colto l’inefficienza del carcere sotto il profilo riabilitativo, e ha fatto fuori questa ipotesi. In pratica questi discorsi, che sono partiti da posizioni che potremmo dire di destra e di sinistra, assolutamente contrarie, si sono trovati per strada e hanno poi viaggiato insieme. Allora, fine anni Sessanta, dal discorso sulla sicurezza si produce subito una quadruplicazione in pochi anni dei fondi destinati agli organi di polizia delle varie città. Non è tanto pacifica questa scelta di campo, perché vi sono commissioni, addirittura una commissione presidenziale di persone indipendenti che nel 1967 suggeriva che era opportuno – il problema era il sovraffollamento che allora era modestissimo poi fra l’altro – allargare il discorso sulle misure alternative. Nel 1973 praticamente si insisteva sul fatto che non fosse opportuno aprire nuove carceri, e quindi che in quel piano che già era stato fatto fosse opportuno che si facesse una moratoria relativa alla costruzione di nuove carceri.

Comunque sia, questi due discorsi cominciano a viaggiare insieme come vi accennavo e la crescita è quella che sapete più o meno tutti: nel 1973 l’indice di prigionizzazione era del 98 su centomila abitanti, nel ’75 era di 111 su centomila abitanti, nell’80 138, nell’85 202, nel ’90 297, nel ’95 411, oggi 726. Se vedete poi, l’aumento ha una progressione che non conosce sosta ma c’è anzi un incremento nell’aumento. Vorrei sintetizzare quello che è successo all’inizio di questo processo: a seguito delle critiche radicali rivolte da progressisti e da conservatori al modello penitenziario riabilitativo, questo viene abbandonato. I progressisti rilevano che l‘asserita riabilitazione è manipolazione nell’individuo, che la sua gestione è ingiusta in quanto risulta negativa per gli svantaggiati privi di risorse sociali. E questa è una valutazione, mi sembra, sempre pertinente che si può fare: alla fine di questo processo gli svantaggiati stanno in galera in una maggioranza impressionante. I conservatori sostengono che il sistema porta ad un eccesso di clemenza nei confronti del condannato. I percorsi penitenziari riabilitativi vengono abbandonati e le pene diventano sempre più severe.

In questo aumento della severità ci sono degli aspetti tecnici e degli aspetti invece di carattere più generale, di carattere politico-sociale. Gli aspetti tecnici all’inizio sono soprattutto legati a quello che, se vogliamo renderla in terminologia nostra, è il discorso sulla certezza della pena. Il modo di determinare la pena indeterminatamente, e di prevedere poi che nell’ipotesi di pena da eseguire ci fossero ammissioni alla libertà, alle misure alternative molto anticipate rispetto alla fine pena massima che era prevista, ecco questo discorso viene colto come troppo aleatorio, troppo incerto, in definitiva ingiustificato. Viene poi il discorso che la pena deve essere vera e si apprestano prontuari perché ci sia una pena esatta in termini di anni, di mesi e di giorni, per il singolo fatto che viene commesso. Alla fine del processo poi, che dura una ventina d’anni se vogliamo, c’è sempre più evidente l’inasprimento ulteriore del concetto della certezza reso con questi termini sportivi che fanno molta fortuna in America e anche da noi: a tre falli si è fuori, cioè si è dentro, si è in carcere e ci si resta. Ne nasce una pena sostanzialmente permanente, in cui le ipotesi di uscita sono molto incerte.

Il rafforzamento di questo processo è accompagnato da due coefficienti: il primo la liquidazione del carcere trattamentale, il secondo il ritorno della fiducia nel carcere come strumento idoneo a prevenire e a reprimere la criminalità. Questo, voglio dire non per essere polemico contro l’intelligenza scientifica, ma si era partiti dal discorso che il carcere era inutile e improduttivo e quindi andava chiuso, il risultato è che il carcere viene rilanciato alla grande ed è lo strumento essenziale della crescita. Ma tutto viene accompagnato da questa terminologia un po’ tipica, che è quella della guerra al crimine, della guerra alla droga, sono tutte le formule reaganiane che accompagnano e lanciano questo grande aumento. Però diciamo, per la strada di questo grande aumento si trova anche una teoria che inquadra il discorso, la teoria delle pratiche attuariali. Leggo da uno dei libri di cui ho particolarmente fatti uso in questo lavoro, che è il libro di Lucia Re, Carcere e globalizzazione. Il boom penitenziario negli Stati Uniti e in Europa, e leggo “la nuova teoria penale sostituisce al paradigma classico della punizione individualizzata del reo una penalità incentrata sul controllo di gruppi e di aggregati, di soggetti considerati potenzialmente devianti. Le nuove politiche penali non s’interessano più alla dimensione morale della criminalità, al problema della colpa e dell’equità nella sfera penale, ma si limitano a porsi degli obiettivi manageriali, ancorati a una logica puramente utilitaristica. In questo quadro puntano sia le politiche di controllo della devianza, sia le politiche di repressione. Le prime divengono essenzialmente politiche di controllo del territorio, le seconde abbandonano definitivamente il paradigma trattamentale e perseguono la incapacitazione dei potenziali criminali”.

Guardate, ieri il prof, Hill ha già detto alcune di queste cose: come le tecniche assicurative – per questo si parla di pratiche assicurative – non intendono eliminare il rischio, così le nuove tecniche di controllo penale muovono dalla convinzione che la devianza è ineliminabile e che in una società complessa non è possibile evitare un alto tasso di criminalità. L’obiettivo delle nuove politiche penali è pertanto non la riduzione del crimine ma la gestione efficiente del sistema penale, compito primario delle politiche penali è prevenire il tasso di rischio di cui sono portatori i diversi gruppi sociali e individuare le strategie di incapacitazione più efficienti. É quello che praticamente rende poi la formula di un altro studioso, è quello di punire la povertà, e punire le sacche di sottosviluppo sociale. Nel commentare questi discorsi, se mi permettete una battuta, i termini che si usano spesso – l’ho sentito ricordare prima – la discarica sociale, dice Vacquant per esempio l’aspiratore delle scorie sociali, nella politica del trattamento dei rifiuti quello che si dice essere fondamentale è la riduzione dei rifiuti, mentre qui il problema non appare ed è lo stesso che riguarda le assicurazioni, alle quali non interessa assolutamente che il rischio si riduca, no, il rischio deve essere crescente perché se è crescente rende di più. Io naturalmente posso enfatizzare ma la sostanza è questa.

Quali costi ha una politica di questo genere? Dei costi enormi. Il costo di un detenuto ogni anno è in media di 22 mila dollari, però l’età del detenuto va avanti, e andrà avanti sempre in galera inevitabilmente, e per un uomo di 55 anni il costo è calcolato in 69 mila dollari. In carcere ci sono centomila minori per i quali il costo è di 100 mila dollari per persona. Quindi un costo economico diretto enorme. Evidentemente queste risorse vanno trovate da qualche parte. Dove vengono trovate? Nella riduzione inevitabile delle risorse sociali generali. Ad esempio in California nel decennio fra l’80 e il ’90 sono state costruite diciannove nuove carceri e nello stesso periodo e nello stesso Stato l’organico dell’amministrazione penitenziaria è aumentato di 25 mila unità, quello del sistema universitario si è ridotto di 8 mila unità. Poi c’è quello che era il welfare minimo degli Stati Uniti che naturalmente ha ridotto le risorse disponibili che venivano impiegate. Io riassumo in una frase di David Garland la valutazione complessiva dei costi sociali: “le nuove forme di controllo della criminalità implicano costi sociali difficilmente sopportabili, inasprimento delle divisioni sociali e razziali, consolidamento dei processi criminogenetici, perdita di credibilità dell’autorità penale, crescita dell’intolleranza e dell’autoritarismo, accentuazione della pressione penale sulle minoranze, configurando una sorta di nuova segregazione razziale”.

Credo che più o meno queste cose siano abbastanza trasparenti, per non dire molto di più, posso dire che la crescita dell’intolleranza e dell’autoritarismo è bene espressa nella formula che accompagna questo percorso, quella della tolleranza zero, che vuol dire intolleranza. E poi per la perdita di credibilità dell’autorità penale si deve dire che praticamente – questo è vero anche in Italia, con l’esperienza degli arresti numerosi che vengono fatti, delle retate – spesso il giudice nel momento del giudizio svolge una funzione più notarile che giudiziaria. In conclusione, possiamo sintetizzare, un carcere esteso e pesante assicura uno stato ridotto e leggero: la privazione dei sistemi di protezione e assistenza sociale, le gravi difficoltà di accesso all’assistenza sanitaria, lo svuotamento dei sistemi di garanzia del giudizio, la desindacalizzazione sono tutti aspetti di un sistema pubblico leggero che produce quella generale insicurezza cui si risponde appunto con un carcere pesante. Si semina vento, il vento dell’insicurezza, per raccogliere la tempesta del carcere.

Cerchiamo d’identificare la differenza fra quella che è la caratteristica dell’intervento penale e del carcere in particolare e quella che dovrebbe essere la caratteristica di ogni intervento sociale, questo è importante, questo sa di dovere rispondere alla complessità delle situazioni critiche in modo articolato – se no non è quello che deve essere – quello invece, il carcere, invece è una risposta semplificata, uguale per tutti, con la quale, rimossa ogni intenzione riabilitativa, non si ottiene che il sequestro della persona nella ignoranza dei suoi problemi: la sua, come si è già detto, incapacitazione. Con il sistema delle misure alternative in USA - d’altronde con il Regno Unito sono stati i primi che hanno parlato di misure alternative da tantissimi anni - ecco cosa succede per le misure alternative: alla fine del 2003 il totale delle persone sottoposte alla carcerazione con le misure alternative era salito a 6,9 milioni, pari al 3,2 per cento della popolazione adulta residente: un adulto ogni trentadue persone era penalizzato. L’aumento del numero di detenuti si è accompagnato quindi a un rilevante aumento delle persone sottoposte a misure penali.

Come sono queste misure penali? Un’altra citazione da Vacquant (il libro si chiama Punire i poveri. Il nuovo governo dell’insicurezza sociale ed è uscito nel 2006 in italiano): “Trenta anni fa i Parole officers uscivano dalle scuole per assistenti sociali e studiavano i fondamenti della psicologia e della sociologia, oggi mentre i casi da seguire sono raddoppiati essi si formano nelle scuole di giustizia criminale, dove apprendono le tecniche di polizia e l’uso delle armi da fuoco. La nuova filosofia panoptica che li guida è sottolineata da questo slittamento semantico: i programmi di Parole sono stati recentemente ribattezzati Liberazione sotto controllo e Controllo in comunità, sotto il nuovo regime liberal-paternalista infatti l’individuo liberato con la condizionale non è tanto un ex pregiudicato restituito alla libertà quanto un quasi-prigioniero in attesa di un imminente ritorno dietro le sbarre”. Da trampolino la liberazione con la condizionale, trampolino verso la società, è diventata una trappola, fra l’85 e il ’97 il tasso degli individui in libertà vigilata che completano con successo la fase di supervisione esterna è crollato dal 70 al 44 per cento, e nel giro di venti anni l’impatto di quelli ripresi e rifiniti in carcere è raddoppiato, passando dal 16 per cento di nuovi ingressi nel 1980 al 34 per cento nel 1997.

Guardate che questi dati riguardano l’esito della misura alternativa mentre ecco, il nostro modesto mondo dà indicazioni del tutto diverse sulla recidiva di persone che hanno finito la misura alternativa nel 1998 e che fino al 2005, sette anni, non sono ricadute nel reato nel numero dell’81 per cento, quando il 19 per cento invece ha recidivato. E dal carcere invece le proporzioni sono assolutamente opposte. Quindi credo che sia utile ricordare un’altra cosa, sempre dal libro di Vacquant, I miti  culturali del pensiero unico securitario è uno dei capitoli, dice che è stato venduto questo successo della tolleranza zero a New York e Vacquant dice che è un falso, perché non è così, non ha avuto assolutamente il successo di cui si parla, e lui cita queste prove. La prima prova è che la diminuzione era cominciata prima. La seconda, come ha detto il prof. Hill, che il riflusso della criminalità è altrettanto notevole in Stati che fanno politiche diverse, completamente opposte. Terza prova, New York aveva già attuato una politica di questo tipo, ma non era diminuita la criminalità. E poi aggiunge tutta una serie di fattori che invece spiegano la riduzione. Il primo è che c’era una notevole, una florida crescita economica, il secondo era che il grosso dei reati era legato alla frantumazione del mercato della droga: si era frantumato fra tanti piccoli gruppi, si è oligopolizzato e ha prodotto meno reati. Poi altre cose ancora, anche interessanti, per esempio la sindrome del fratello maggiore: il fratello minore vede che più ne fa il fratello maggiore… e si guarda bene dal ripetere le sue esperienze. E inoltre il fatto che certe zone a rischio hanno i loro anticorpi che sono le chiese, che sono le associazioni, e che in qualche modo riescono a fare un controllo informale. Dice Vacquant, ed è una battuta, una delle poche cose che si può senz’altro togliere tra i fattori di diminuzione della criminalità è la carcerazione aumentata. Questo è pacificamente un dato che non è collegato alla diminuzione della criminalità.

Allora, il modello europeo tutto sommato è buono. É buono finché dura, è buono nel senso che praticamente in termini di documenti europei, intanto devono essere attuate condizioni di vita in carceri che garantiscano il rispetto dei diritti fondamentali della persona, in funzione di documenti approvati nelle competenti sedi si danno indicazioni esaurienti su tali diritti, esiste tutto un sistema di controllo, il Comitato per la prevenzione della tortura, esiste una sede giudiziaria cui ricorrere che appartiene al Consiglio d’Europa. Emerge chiaro un favore all’applicazione del principio di risocializzazione, guardate, questo discorso è ripetuto tal quale in una sentenza del 1974 della Corte costituzionale nostra, in base alla quale la detenzione cessa di essere scontata qualora il detenuto mostri di essere in grado di tornare in seno alla società. La sentenza del ’74, che ha agitato Emilio Santoro poco fa, dice questo. La riduzione del ricorso alle pene detentive e un’apertura significativa all’applicazione delle alternative alla detenzione è indicata come una soluzione, per esempio gli organismi europei hanno voluto soffermarsi sul sovraffollamento, una risoluzione del parlamento dell’Unione europea notava che appunto  il sovraffollamento è un maltrattamento e che in sostanza bisogna agire perché non ci sia, e il modo di agire perché non ci sia è anche indicato non nel fare ulteriori carceri ma nelle misure alternative.

Ecco, questi sono i principi, i principi però hanno la loro flessione e infatti la carcerazione aumenta in tutta Europa, aumenti che non sono ancora quelli degli Stati Uniti, ma che potrebbero diventarlo. Sono aumenti sensibili che non erano avvenuti in passato. Ci sono altri aspetti del carcere, per esempio quello della custodia cautelare, che continua a essere abbastanza importante, noi siamo quasi in vetta, nonostante che negli anni Ottanta avessimo più detenuti in custodia cautelare che detenuti in esecuzione di pena. Solo col codice di procedura penale nuovo è passato il discorso per cui praticamente sono stati più i detenuti in esecuzione di pena di quelli in custodia cautelare, ma questa cosa poi era evoluta positivamente negli ultimi anni, tanto che siamo andati sotto il 40 per cento di detenuti in custodia cautelare, 37-38 per cento, che è un primato per noi. Però ci sono paesi, compreso il Regno Unito che tutto sommato non è assolutamente all’avanguardia, il Regno Unito ha il 16,3 per cento di persone in custodia cautelare, la Germania il 19,6, la Svezia e la Norvegia poco più del 20.

Aumenta l’entità delle pene, e questo anche pensando a quello che è successo altrove – non vi leggo quello che dice Vacquant di quello che è successo in Francia, cercavano diecimila nuovi agenti, hanno fatto un  bando e hanno fatto una campagna pubblicitaria, il risultato è stato che non so se li abbiano trovati, certo il carcere è cresciuto rapidamente ed ha superato i sessantamila detenuti, da 48 mila posti che aveva. Cosa si può dire dell’Italia? Si può dire questo, una cosa pacifica, tra l’altro se noi stiamo più attenti non tanto all’aumento delle carceri quanto all’aumento della penalità, potremo vedere che il carcere più misure alternative porta ad un aumento di quattro o cinque volte dal 1990 al 2005: la penalità aumenta da una cifra di poco più di 36 mila persone con esecuzione di pena detentiva a 180 mila circa. Questo dimostra una cosa che non c’è bisogno di dire, cioè che all’interno del carcere c’è questa detenzione sociale, cioè una detenzione che è nata perché è fallita l’assicurazione in partenza di un disagio sociale su cui non ci sono stati interventi sufficienti, una situazione di sviluppo del disagio per mancanza e insufficienza di un intervento effettivo sullo stesso che lega le categorie degli immigrati, dei tossicodipendenti, e delle persone con problematiche critiche anche mentali che sono stimati in circa il 15 per cento. Gli immigrati sono il 33,3 per cento, i tossici il 29 per cento, si sovrapporranno certamente fra di loro perché ci saranno persone che appartengono ad entrambe queste categorie però i due terzi dei detenuti sono rappresentati da questi sciagurati.

Le leggi Bossi-Fini, Fini-Giovanardi e ex Cirielli, come si è chiamata, ma io posso chiamarla tranquillamente Cirielli, in effetti sono quelle che hanno determinato questa situazione, perché la Cirielli riprende il discorso dei tre falli, mentre la Fini-Giovanardi ha tutta l’aria di ricombattere la guerra non sufficientemente vinta in precedenza contro la droga. La giurisprudenza costituzionale è molto chiara sul fatto che ci deve essere un  momento e un modo con il quale si deve valutare se la pena sofferta in parte ha funzionato, e se la persona può essere mandata fuori. Ecco, se questo può avvenire accede alla misura alternativa, e per le misure alternative, dice già la sentenza del 1974 e ribadiscono sentenze successive dagli anni ’85-’87 fino ai giorni nostri, la misura alternativa deve avere un sistema d’intervento che serva a quello, perché rispetto alle altre funzioni della pena la cui efficienza è indimostrabile – l’unica cosa che si può dire è che aumentando s’intimidiscono di più, ma anche questo… già Manzoni si era accorto che non era proprio la cosa più sicura – la funzione riabilitativa è una funzione di cui la Corte costituzionale stabilisce che ci devono essere gli strumenti, perché gli strumenti sono ragione dell’efficacia della funzione riabilitativa.

Nel nostro futuro non c’è posto, ritengo, per lo slogan “liberarsi dalla necessità del carcere”, mi sembra che sia chiaro. Questo futuro si gioca fra un carcere pesante e un carcere leggero. Il primo si fa strumento di problemi sociali, il carcere in sé, rispetto ai quali usa lo strumento detentivo perché sceglie di non affrontare e risolvere i problemi sociali, quindi è esso un modo più che di risolverli di negarli, di portarli fuori dalla società. Il secondo mantiene la penalità nel suo alveo naturale che è quello di rispondere agli attentati gravi e significativi alla convivenza e alle sue regole: in presenza di un carcere leggero la risposta ai problemi sociali specifici è data da articolazioni pubbliche che se ne devono prendere cura per affrontarli e risolverli, consapevoli che chiudere in carcere quei problemi serve soltanto a reprimere le patologie sociali, a recluderle e aggravarle.

Quale penalità e quale carcere ci attendono? Ho già detto che per rispondere occorre una scelta, non possono essere accettate delle previsioni neutrali. Ho spiegato perché. Quale spiegazione ho dato? Secondo me oltre al tasso di prigionizzazione va calcolato il tasso di umanità, che è un tasso che conta e con il quale bisogna fare i conti nel senso dell’art. 27 della Costituzione, che nella prima frase del terzo comma dice che “le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Questo è un punto fermo dal quale non ci si potrebbe muovere, anche qui devo ricordare che Emilio Santoro lo diceva segnalando che ci sono molte perdite di diritti che si accompagnano alla detenzione e non sono affatto previste e sono trattamenti repressivi aggiuntivi. Quindi in base al tasso di umanità devo dire che non mi sembra che sia a posto la politica penitenziaria USA e quella che sta diventando anche la politica penitenziaria europea per alcuni degli Stati più importanti, quella che potrebbe essere la nostra politica italiana se fosse quella segnata dalle leggi tuttora vigenti, Bossi-Fini, Fini-Giovanardi, e Cirielli.

Concludo dicendo una cosa, che praticamente tutto questo è legato a un’economia complessiva che è quella della globalizzazione. Cosa succederà, dipendiamo tutti esclusivamente da quella? Qualche crepa si vede in questo discorso, per esempio ci si accorge che l’inquinamento generale della Terra determina la necessità di scegliere un modo diverso di fare economia e di fare politica. E come c’è l’inquinamento atmosferico c’è l’inquinamento sociale: questa politica che non si dovrebbe scegliere e che invece purtroppo sembra vittoriosa è una cosa che bisogna negare, perché inquina la società.

                                                  Alessandro Margara 
                                         

    


                                                  

 
 

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