Ieri sera quando percorrevo le terre dell’Etruria e sentivo aleggiare lo spirito di Tarchon, che arando le Vostre terre vide comparire da un solco Target, pensavo che questo popolo straordinario aveva già un grado di alta civiltà, che non corrispondeva all’immagine troppo superficiale che oggi molti danno agli Etruschi.

Il ricordo del popolo etrusco è accentrato non tanto sulla vita godereccia, sensuale e ricca di superstizioni, ma sul culto dei morti.

Alle volte nelle pitture tombali si trovano figure mostruose, transumane, che rappresentavano l’aldilà, come un passaggio inquietante in cui l’anima veniva scortata da demoni.

Forse così si voleva esprimere il senso del peccato e quindi della futura pena, che i reprobi avrebbero dovuto espiare.

E’ ben noto che il concetto della pena come retribuzione, dovuta  in seguito ad un fatto criminoso o ritenuto tale dalla legge vigente, era ampiamente sentito in tutti i popoli antichi.

La legge di Hammurabi del XXIII secolo a.C. già afferma che “se uno fa perdere un occhio ad un altro perde egli il proprio”.

Lo stesso principio detto “della legge del taglione” lo troviamo nel Levitico XXIV e nella legge delle XII Tavole (453 a.C.).

La pena-castigo che era ispirata ad un concetto retributivo ed afflittivo, aveva lo scopo di intimidire ed era volta ad impedire che si verificassero ulteriori fatti criminosi; scopi che noi chiamiamo di “prevenzione generale”.

Dante Alighieri quando parla di pena e di contrapasso, si riferisce ad un concetto di retribuzione, alle volte persino feroce (basta vedere i disegni del Dorè).

Neppure vengono da lui condonate le private vendette: infatti il Conte Ugolino della Gherardesca (accusato di aver tradito i Pisani favorendo i Genovesi alla Meloria) ebbe il conforto di mordere il cranio del suo nemico.

Anche il problema dei rapporti tra l’individuo e la società hanno origine antichissima.

Platone nella “Repubblica” dice che lo scopo ed il fondamento della società è la Giustizia: “Anche una banda di briganti non potrebbe venire a capo di nulla se i componenti violassero le norme della giustizia”.

Aristotele dice che l’uomo per conseguire la felicità deve rispettare la convivenza sociale.

Ora saltiamo qualche secolo e passiamo agli Illuministi del 1700.

Secondo Rousseau e Montesquieu, l’uomo per contratto deve necessariamente essere sociale e quindi accettare le leggi del suo paese (abbandonando la naturale libertà).

Ugo Grozio e Cesare Beccaria nel 1700 nei loro insuperabili trattati – ricordiamo “Dei delitti e delle pene” -  affermano che la pena deve mirare al recupero dell’individuo per raggiungere lo scopo dell’ “utilità” ( che è il benessere e quindi la felicità di tutta la società).

I positivisti Augusto Comte e Spenser Feurbach ed altri cercarono il fondamento del comportamento dell’uomo nella biologia e nella società e quindi negarono la responsabilità individuale  in quanto l’uomo non è libero, ma è determinato da fattori esteriori.

A conclusione di questo rapido excursus storico, arriviamo finalmente al secolo XX e cioè ad epoche a noi più vicine.

E’ noto il dissidio tra la scuola classica di Francesco Carrara e quella positiva di Enrico Ferri, di Lombroso e di Garofalo .

La scuola classica parlava di “funzione etica retributiva della pena”; la scuola positiva studiò scientificamente l’uomo delinquente, ossia non libero ma determinato e quindi non responsabile moralmente.

Cesare Lombroso, Ferri, Garofano, negarono il libero arbitrio, sostituendo la responsabilità legale e sociale alla colpa morale.

Nacque poi la terza scuola (Zanardelli), che contemperava i principi della scuola positivista e quelli della scuola classica.

Nel 1930 venne promulgato il Codice “Rocco”, ancor’oggi vigente, il quale ripristina il concetto del libero arbitrio (l’art. 85 del Codice Penale dice che è imputabile chi è capace di intendere e di volere, quindi chi è capace di determinarsi liberamente).

La pena però veniva intesa come retribuzione, ossia “un dolore maggiore del piacere che si voleva conseguire con il reato” (Manzini).

Veniva così nuovamente assunto un effetto intimidatorio della pena, o di prevenzione generale.

Vogliamo ora ricordare il periodo del 1946, del dopoguerra, che fu particolarmente intenso di idee, di programmi e di ideali.

Allora stava per nascere la Costituzione della Repubblica italiana che si ispirava alla “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo” promulgata in Francia il 4 agosto 1789, e alla Costituzione degli Stati Uniti d’America promulgata a Filadelfia nel 1797.

Nel 1947 veniva così promulgata la Costituzione italiana che nell’art. 27 afferma che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

In questo clima di libertà, di democrazia e di aspirazione ad una vera giustizia, nasceva allora a Genova il Centro Internazionale di Difesa Sociale (che poi diventerà la Società Internazionale di Difesa Sociale per una politica criminale e umanitaria), che presentava un programma coraggioso e ampiamente innovativo che veniamo a riassumere brevemente.

La società deve difendersi dagli atti “antisociali” con delle misure volte soprattutto al miglioramento dell’uomo e al suo recupero.

Si prospettava quindi un sistema volto a migliorare l’uomo e non a punirlo.

Lo Stato – secondo il programma della scuola – non ha il “diritto di punire”, ma solo di “prevenire, rieducare e reinserire nella società”.

La “difesa sociale” respingeva il problema della responsabilità morale, essendo essa propria della filosofia e ritenendo che come tale al di fuori della sfera del diritto.

Inoltre la nuova concezione della difesa sociale non considera più “l’uomo delinquente” visto da Lombroso, poiché tale concezione portava alla punizione e all’emarginazione del colpevole, mentre la nuova teoria mira esclusivamente al recupero dello stesso.

Quindi la prevenzione e la rieducazione sono i mezzi più efficaci per la difesa della società e per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.

Questi mezzi devono essere scevri da ogni sentimento di vendetta.

Il condannato ha quindi il diritto di essere risocializzato e lo Stato ha il dovere di renderlo idoneo alle esigenze della società.

Uno dei punti cardini è la prevenzione, volta non solo ad evitare la commissione dei crimini, ma a correggere anticipatamente le persone pericolose o antisociali.

In effetti abbiamo già una legge del 27/12/1956 n. 1423 che prevede delle misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose e che propone diffide, obblighi e divieti di soggiorno e sanzioni ancora più gravi.

Questa legge all’inizio aveva destato forti perplessità, che sono state però subito cancellate dalle sentenze della Corte Costituzionale.

Merita attenzione un progetto della Società Internazionale di Difesa Sociale per un nuovo tipo di processo, presentato al III Congresso svolto a San Marino nel 1951.

Si parte dalla considerazione che il fatto-reato è rilevante solo ai fini di stabilire l’antisocialità del soggetto e non per stabilire la sanzione o la pena.

Il processo è diviso in due fasi:

1) fase dell’osservazione, come indagine sul comportamento tenuto e sulla personalità dell’autore, volta a stabilire il suo grado di antisocialità;

2) esame da parte di una Commissione che si pronunzia sull’antisocialità dell’autore.

In quel tipo di processo il Pubblico Ministero dovrebbe essere abolito, in quanto manifesta la volontà dello Stato di punire, mentre ha il dovere di risocializzare.

Il difensore è garante della legalità del procedimento e partecipa all’istruttoria e all’udienza.

La parte lesa e la parte civile  sono estranee alla seconda fase del processo.

Le idee del Prof. Filippo Gramatica espresse soprattutto nel volume “Principi di Difesa Sociale” Ed. Cedam 1961, come si è visto, sono del tutto radicali; ad esse seguirà il pensiero del magistrato francese Marc Ancel, Presidente della Corte di Cassazione francese, che assunse – dopo Gramatica – la presidenza della Società Internazionale di Difesa Sociale, e ritenne di applicare un programma  minimo (Marc Ancel “La nuova difesa sociale”, Ed. Cujas, Parigi).

Ad Ancel seguì Simone Rozés, Presidente della Corte di Cassazione francese, ed ora il Prof. Luis Arroyo Zapatero, Rettore dell’Università di Ciudad Real in Spagna.

Fanno parte della Società noti studiosi di tutto il mondo (abbiamo con noi l’olandese Louk Hulsamnn).

Abbiamo parlato di un nuovo tipo di processo proposto dalla Società di Difesa Sociale; ora per rimanere nel tema del convegno, facciamo un cenno alla fase esecutiva, post-processuale.

Vi è da dire che la Società di Difesa Sociale aveva previsto che la Commissione giudicatrice già nella prima fase potesse applicare delle misure chiamate alternative, che ora invece con la legge 25/7/1975 n. 354 sono applicate solo dopo la condanna definitiva.

Vi è però da dire subito che se la sanzione del carcere viene abolita, le sanzioni che oggi chiamiamo alternative (affidamento in prova al Servizio Sociale, semilibertà) diventeranno sanzioni principali e non alternative.

Ciò premesso, diamo uno sguardo alla legge penitenziaria vigente.

L’art. 1 della legge 354/1975 prevede che il trattamento penitenziario debba essere conforme ad umanità e deve osservare il rispetto della dignità delle persone, quindi a prima vista sembrerebbe destinata a tutti coloro che sono detenuti (anche a coloro che si trovano sottoposti a misure cautelari).

Tuttavia gli artt. 47 e segg. della stessa legge che prevedono le misure alternative consentono l’applicazione solo per coloro che sono definitivi.

Tali norme prendono in considerazione anche situazioni “particolari” (donne incinte o madri di figli, persone anziane o ammalate, tossico o alcool dipendenti, persone affette da HIV), per esimerli dalla custodia in carcere.

Effettivamente per i tossicodipendenti o alcooldipendenti dall’art. 89 della legge 9 ottobre 1990 n.309, nonché l’art. 4 della legge 21/272006 n. 49 è prevista l’applicazione immediata di misure alternative, per coloro che presentino un programma terapeutico da seguire fuori da carcere (e sono assistiti dal SERT).

Ciò dimostra che il programma ideato dal movimento di Difesa Sociale non è così utopistico, come sembrerebbe  a prima vista; oggi si cerca di evitare il carcere.

Infatti per una condanna non superiore ai tre anni non è consentito l’arresto, ma viene invitato il condannato a richiedere entro trenta giorni la sanzione alternativa.

Per realizzare i principi ai quali ci richiamiamo necessiterebbe un forte impegno, tanta comprensione e dovrebbero essere elargiti maggiori fondi per provvedere all’esecuzione delle condanne.

Pochi anni orsono è stata inibita al Giudice di Pace la possibilità di infliggere la misura detentiva del carcere.

Non si comprende perché la stessa norma non sia stata applicata quanto meno al Tribunale per i Minorenni, che giudica i minori tra i 14 e i 18 anni, che pur avendo un collegio simile al Tribunale di Sorveglianza (accanto ai magistrati vi sono psicologi, psichiatri, assistenti sociali) e trattando giovani immaturi applica di sovente la misura del carcere presso gli istituti IPM (e cioè Istituti “Penali” per minorenni).

Viviamo in un periodo in cui la scienza e la tecnica hanno superato le altre discipline: l’attuale ordinamento penale giuridico (Codice Rocco del 1930) è in crisi ed in maggiore crisi è il processo, anche se il nuovo Codice di Procedura Penale è del 1979 ( Codice Vassalli).

La ragione forse è dovuta al fatto che le leggi dovrebbero rispondere ad un unico criterio ispiratore, basato sugli stessi valori.

Basti pensare che la legislazione anglosassone si richiama ancora ai principi  della Magna Charta.

Oggi abbiamo l’ergastolo che sussiste nonostante l’art. 27 della Costituzione; molti casi di responsabilità obbiettiva (omicidio preterintenzionale, evento diverso da quello voluto ed altri); e rientrando nel nostro tema si deve osservare che le misure cautelari in carcere sono “sempre” applicate per certi reati gravi (art. 275 comma 3 C.P.P.) tipo quelli di associazione mafiosa,  senza una possibile discrezione, né il rispetto del “favor rei” e della presunzione di non colpevolezza.

Anche l’art. 58 quater della legge 25/7/1975 n.354 pone il divieto assoluto di concedere i benefici ai detenuti per i gravi reati ed ai condannati per evasione ed in tal modo viene irrimediabilmente sbarrata la strada al recupero.

Vi sono dunque molte cose da rivedere, ma soprattutto stabilire su quali valori dobbiamo credere.

Quando Dante Alighieri si trovava in Lunigiana a Mulazzo, ospite dei Malaspina, nelle nuove rime disse che “la giustizia è amore”.

Ritengo che solo con questo sentimento, unito alla solidarietà ed alla comprensione, potranno essere decisi molti problemi odierni.

Confido che l’antica Etruria possa essere anche fonte di ispirazione.

                                      Giovanni Battista Gramatica 
                                         

    


                                                  

 
 

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