Di diritti umani, nella nostra epoca, si parla molto.

I capi di Stato e di governo li ricordano continuamente e ad essi si fa richiamo per giudicare la qualità politica delle Nazioni, distinguendole fra buone e cattive.

Negli Stati Uniti d’America – dove già nel 1917 il Presidente Wilson aveva menzionato i diritti umani violati per giustificare l’intervento in guerra – su di essi si è progressivamente accentrata l’attenzione popolare e dei politici al punto da indurre il Congresso a richiedere al Dipartimento di Stato una relazione annuale, estesa e completa (a full and complete report) sullo stato e le pratiche dei diritti umani nel mondo.

La prima relazione, che è stata presentata al Congresso nel 1977, includeva 82 Stati, mentre le relazioni successive al 2000 coprono, praticamente, tutto il pianeta.

Sulla base di questi resoconti il Congresso decide se offrire o negare aiuti economici e preferenze commerciali.

Anche nelle valutazioni politiche dell’Europa Unita l’argomento non è certo secondario, come dimostra l’attenzione ad esso rivolta durante le procedure di accesso dei Paesi terzi.

Che il tema sia divenuto di primaria importanza agli occhi del mondo lo dimostrano gli apparati di monitoraggio e di controllo che sono stati creati a livello della Organizzazione delle Nazioni Unite e delle associazioni regionali di Stati.

La concentrazione di così vasti interessi ha, inevitabilmente, suscitato riflessioni che vanno oltre gli aspetti meramente giuridici per estendersi all’etica e alla politica.

Questo spiega, in parte, perché il relativo approfondimento giuridico, alla ricerca di una appropriata definizione, non ha avuto grande spazio, trovandosi il diritto inserito in un concerto a più voci dove, frequentemente, esso viene surclassato da altri importanti valori.

Una esplorazione fra le definizioni correnti conferma la loro vaghezza concettuale. A titolo di esempio, se ne riportano, di seguito, alcune fra le più accreditate..

Secondo l’ ‘Human Rights Resource Center’ “i diritti umani sono quegli standard basilari senza dei quali le persone non possono vivere con dignità. Violare i diritti umani di un individuo vuol dire trattare quella persona come se non fosse un essere umano. Affermare i diritti umani significa richiedere che la dignità della persona sia rispettata.”

Nell’ ‘American Heritage Dictionary’ si legge “diritti e libertà fondamentali spettanti a tutti gli esseri umani fra i quali, spesso, si includono il diritto alla vita e alla libertà, la libertà di pensiero e di espressione e l’uguaglianza di fronte alla legge.”.

L’ ‘Enciclopedia Britannica’ afferma: “diritti che appartengono all’individuo come conseguenza di essere umano…secondo l’odierno intendimento essi attengono a una vasta varietà di valori e capacità che riflettono la diversità delle circostanze e della storia umane.”

L’ ‘Enciclopedia della Storia Americana’ afferma: “ il concetto di diritti umani si è evoluto nel tempo e i vari Paesi hanno sottolineato differenti aspetti dei loro principi e della loro politica.”

Per l’ ‘Utopic Onlus’.” Dal punto di vista giuridico essi sono un insieme dei diritti che consuetudini e trattati internazionali attribuiscono, in linea di principio, ad ogni persona.”

La Chiesa Cattolica, pur avendo sostenuto da sempre il rispetto della dignità umana, ha fatto riferimento al concetto di ‘diritti umani’ solo di recente per sottolinearne i valori etici e politici.

Ne parla per la prima volta nel 1963 Giovanni XXIII nell’Enciclica ‘Pacem in terris’ dove, testualmente, è scritto: “non ci può essere pace senza giustizia e, quindi, un discorso sulle regole deve, necessariamente, muovere dalla cultura dei diritti umani”.

Dopo di lui Giovanni Paolo II  fa continuo appello a questi valori. Li ricorda nel messaggio del 2 dicembre 1978 affermando che “la dignità della persona trova ‘diretta sorgente’ nei diritti umani”. Ne parla nel messaggio dell’ottobre 1979 alla Corte e alla Commissione Europea per i Diritti dell’Uomo dove si legge che è sulla “nozione di dignità della persona che poggia il fondamento delle diverse categorie dei diritti dell’uomo”.

Nell’allocuzione alla 34° Assemblea Generale dell’ONU del 2 ottobre 1979 accenna alla “minaccia sistematica contro i diritti dell’uomo”.

Nel messaggio del 21 dicembre 1981 ribadisce: “una società politica non può effettivamente collaborare alla costruzione della pace internazionale se essa non è pacificata, cioè se al proprio interno essa non prende sul serio la promozione dei diritti umani”.

Nell’Enciclica ‘Sollicitudo rei socialis’ del 1987 sottolinea “ la necessità di uno sviluppo che rispetti e promuova i diritti umani personali, sociali, economici e politici”.

Nel discorso al Congresso Mondiale sulla Pastorale dei Diritti Umani del luglio 1998 lamenta le”‘disuguaglianze economiche come autentico scandalo che ostacola in modo molto grave il pieno esercizio dei diritti umani”.

Ancora ai membri della ‘Fondazione Centesimus Annus’, il 19 maggio 1998, indica la “necessità di lavorare per una cultura delle regole, che non guardi soltanto agli aspetti commerciali, ma si faccia carico della difesa dei diritti umani in tutto il mondo”.

Infine, nel messaggio del dicembre 1998, ammonisce che “nessun diritto umano è sicuro se non ci si impegna a tutelarli tutti”.

Con assoluta continuità Benedetto XVI, il primo gennaio di quest’anno, durante la celebrazione della Giornata della Pace, esorta la comunità internazionale a “congiungere i propri sforzi perché, in nome di Dio, si costruisca un mondo in cui gli essenziali diritti dell’uomo siano da tutti rispettati”, e osserva che una vera e stabile pace presuppone il rispetto dei diritti umani”.

Molte altre citazioni di autorità politiche e religiose si potrebbero aggiungere ma quanto fin qui esposto sembra sufficiente per concludere che il rispetto dei diritti umani è ritenuto, da coloro che nel mondo democratico guidano gli uomini e le coscienze, una esigenza assoluta.

Tutti quelli che ne parlano convengono sulla loro importanza, ne intuiscono l’oggetto senza, però, riferirsi ad una identificazione dalle precise connotazioni giuridiche.

Ci troviamo di fronte a uno di quei casi di concezione ad oggetto sfumato, di cui si avverte il valore positivo e sulla quale, quindi, si concorda anche se manca una precisa definizione.

Ciò non preoccupa fino a quando si fa uso politico del termine, poichè la politica vive di approssimazione se non di ambiguità.

Non è lo stesso, invece, quando si tratta di questioni giuridiche perché anche se è vero che “omnis definitio in jure pericolosa, parum est enim ut subverti non posset (nel campo del diritto ogni definizione è pericolosa perché è difficile che non possa essere sovvertita), come avverte Giovaleno (D.50.17.102)- non può dubitarsi che il diritto richiede la chiarezza della cosa di cui si discute.

Occorre, quindi, pervenire a una definizione perché solo dopo aver definito chiaramente di quali diritti si tratti è possibile verificare se essi siano adeguatamente tutelati.

Questo intervento ambisce a fornire un contributo all’impegno definitorio di questo oggetto grave e sfuggente senza pretendere, tuttavia,  di giungere a un risultato finale e incontestabile. Esso potrà, in ogni modo, rappresentare un parametro di riferimento, un elemento dialettico, con cui confrontarsi.

Nell’intraprendere il compito va, preliminarmente, osservato che la lingua italiana e le sue consorelle neo-latine non ne agevolano l’adempimento.

Nella nostra lingua il termine ‘diritto’ indica sia un potere attribuito a un soggetto, sia il sistema di norme da cui detto potere discende. Pertanto si parla ugualmente, per fare un esempio, di diritto di proprietà, per indicare la potestà di un soggetto su un bene, come di diritto pubblico per significare l’intero ordinamento giuridico attinente alla cosa pubblica (quod ad statum rei publicae pertinet).

Ugualmente in latino il vocabolo ‘jus’ vale per indicare ambedue gli oggetti.

Non è così, invece, in altre lingue, come in inglese, dove ‘right’ sta per diritto individuale e ‘law’ sta per sistema normativo.

La promiscuità terminologica della lingua italiana agevola errate opinioni, almeno fra i non specialisti, come quella che fa derivare i diritti umani dal diritto naturale (quod natura omnia animalia docuit) affermando che essi sono già in natura configurati come precetti normativi operanti nell’ordinamento degli Stati. 

Il collegamento fra i diritti umani e il diritto naturale certamente esiste ma non nel senso che il diritto naturale già possegga in se stesso precetti vincolanti, propri del diritto positivo, ma che esistono nell’ordine della natura e, quindi, nel momento pre-giuridico, esigenze non disconoscibili, le quali, secondo i diversi orientamenti culturali e religiosi, si ritengono espressione di determinati valori.

Queste esigenze si atteggiano come un imperativo morale dettato ai legislatori e ai detentori del potere perché li rivestano con l’autorità della legge e li facciano rispettare coattivamente.

E’ corretto, quindi, affermare che il diritto naturale non è diritto, tanto nell’accezione della locuzione inglese ‘law’ quanto in quella di ‘right’, ma è solo il fondamento di esso.

A questa corretta concezione ha aderito il Papa Benedetto XVI quando, nel citato discorso ha accennato al ‘fondamento naturale dei diritti umani.

L’aggettivo ‘umani’ non va inteso come indicativo di diritti pertinenti all’uomo per differenziarli da diritti attribuiti ad altre entità.

Con la chiarezza tipica dei giuristi latini Giustiniano ci tramanda nel Digesto (1.5.2.) la massima: “hominum causa omne jus constitutum est” per significare che il destinatario delle norme giuridiche è sempre l’uomo anche quando esse sono dirette, per esempio, alla tutela degli animali o dei defunti.

Quindi l’aggettivo ‘umani’, che preso alla lettera sarebbe un pleonasmo, ha una funzione rafforzativa che qualifica la primaria importanza dell’oggetto.

Qualche volta si confonde l’espressione ‘diritti umani’ con quella di ‘diritto umanitario’. Si tratta di un equivoco: il diritto umanitario attiene alle leggi e alle consuetudini della guerra, tanto che esso è conosciuto anche come ‘legge della guerra’ o ‘legge dei conflitti armati’ in quanto definisce le condotte e le responsabilità della Nazioni belligeranti e neutrali nonché degli individui che combattono. Tale diritto si è basato, originariamente, sulle Convenzioni di Ginevra del 1864 e dell’Aja del 1907 a cui sono seguiti vari altri trattati, poi incorporati nelle’ Quattro Convenzioni di Ginevra’ del 12 agosto 1949, che sono state successivamente arricchite da vari protocolli.

Vero è che alcune disposizioni di queste Convenzioni riguardano il trattamento e la protezione dei prigionieri di guerra e, come tali, possono entrare nella definizione di ‘diritti umani’. E’’ quindi, appropriato sostenere che nell’ambito del diritto umanitario sono contemplati anche diritti umani ma non è altrettanto corretto confondere le due sfere giuridiche.

 

I precedenti storici.

 

Dalla storia dei diritti umani, o meglio, dalle opinioni correnti su questa storia, si ricavano elementi utili alla definizione.

Ne faccio rapido cenno.

Alcuni ne fanno risalire l’origine a Ur-Nammu, re di Ur, che nel 2050 a.C. emanò quello che si conosce come il primo testo di leggi scritte. Altri risalgono al codice di Hammurabi, datato a circa il 1780 a.C.. Altri, ancora, fanno riferimento al Cilindro di Ciro- scoperto nel 1879- che fu scolpito nel 539 a.C.

Anche se in uno di questi, e cioè nel Cilindro di Ciro, si rinvengono alcune norme che, secondo la definizione a cui perverrò, possono qualificarsi diritti umani, propendo per ritenere che le su accennate opinioni riflettano la concezione di chi ritiene che la legge scritta, quindi, la garanzia della certezza del diritto positivo, sia da identificarsi con la salvaguardia dei diritti umani.

L’esistenza del diritto positivo e le garanzie offerte dalla legge scritta si atteggiano come un ‘genere’ rispetto alla ‘specie’ diritti umani, pertanto non vi é coincidenza fra essi ma solo il rapporto che esiste fra contenitore e contenuto.

Secondo la definizione a cui si perverrà, come vedremo,si può parlare di diritti umani solo quando i beni tutelati sono offesi dall’autorità.

Nella rassegna che segue ci si limita, pertanto, a ricordare quei precedenti che hanno questa componente.

Nel 1215, sotto la pressione del Papa e dei baroni inglesi, che chiedevano al sovrano di rinunciare a certi diritti, rispettare certe procedure legali e accettare che il suo volere fosse condizionato dalla legge, il re Giovanni Senza Terra emanò la ‘Magna Carta’ che, a ragione, può essere considerata un antecedente storico dei diritti umani. Essa conteneva norme regolatrici del potere sovrano e di rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini. La ‘Magna Carta’ è una vera e propria legge positiva che avrebbe potuto segnare uno straordinario progresso sulla via della democratizzazione se fosse stata rispettata come, purtroppo, non avvenne. Tuttavia essa ha costituito un precedente che ha avuto influenza anche a distanza di secoli.

Bisogna guardare ancora all’Inghilterra per trovare un altro evento di grande significato nella storia dei diritti umani.

Il 7 giugno del 1628 i membri puritani del Parlamento, fra i quali sedeva il giovane Oliver Cromwell, si accordarono per presentare una petizione al re Carlo I perché si impegnasse a far cessare gli abusi del potere reale.

Seguirono molte turbolente vicende che sfociarono nella guerra civile.

Nel 1649 il re fu giustiziato e Cromwell fondò la Repubblica assumendo il titolo di Lord Protettore.

Quando fu ristabilita la monarchia sia Carlo II che Giacomo II tornarono agli antichi abusi, fino a che, nel 1689, il Parlamento prevalse riuscendo ad adottare la prima legge inglese, redatta dai rappresentanti del popolo, che garantiva il rispetto dei diritti umani contro l’abuso del potere.

La legge, a cui fu dato il lungo titolo ‘An act declaring the rights and liberties of the subject and settling the succession of the Crown’, viene ricordata come ‘The Bill of Rights’:

Questo evento fu l’epilogo della lunga lotta che si svolse nel secolo XVII fra la dinastia degli Stuart e il Parlamento.

La conquista ebbe immediata risonanza e seguito tanto che subito dopo il Regno separato di Scozia emanò il ‘Claim of Rights’ il quale, sia pure con diversa formulazione, provvedeva ugualmente a controllare gli abusi di potere e a garantire i diritti dei cittadini di fronte ad esso.

A distanza di quasi un secolo, nel 1776, gli Stati Uniti d’America, nel sottrarsi al dominio inglese, proclamarono la ‘Dichiarazione di Indipendenza’ in cui era scritto:”Tutti gli uomini sono creati uguali e sono dotati dal loro Creatore di certi diritti inalienabili fra i quali la vita, la libertà e il perseguimento della felicità”.

La Dichiarazione di Indipendenza, che ben a ragione è considerata la più avanzata manifestazione di progresso democratico del tempo, mostra, tuttavia, i limiti del livello di civilizzazione e di sensibilità dell’epoca. Mentre, infatti, si proclamava che “tutti gli uomini sono creati uguali” si manteneva la schiavitù e non sin riconosceva uguaglianza di diritti alle donne.

Trascorreranno altri undici anni prima che il nuovo Stato indipendente si desse una Costituzione. Ciò avvenne in Filadelfia il 17 settembre 1787.

All’entusiasmo per l’adottata Costituzione seguì, subito, un ripensamento suscitato da quei politici che constatarono come nella legge primaria dello Stato mancassero previsioni dirette ad affermare e garantire i diritti fondamentali dei cittadini.

Fu così che, meno di due anni dopo la promulgazione della Costituzione, il 25 settembre del 1789, si ebbe il primo emendamento che modificò gli articoli da 3 a 12 introducendo le volute garanzie. Questi dieci nuovi articoli presero anch’essi il nome di ‘Bill of Rights’.

Nello stesso anno, in Francia, l’Assemblea Nazionale Costituente, formata nella prima fase del movimento rivoluzionario, varò il testo della ‘Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino’ che conteneva l’elenco dei diritti fondamentali inviolabili.

Dopo aver proclamato l’eguaglianza fra tutti gli esseri umani, la Dichiarazione prosegue elencando i predetti diritti e, nel regolare i rapporti fra i cittadini e lo Stato, introduce il principio basilare della legalità in materia penale

Come è noto, la ‘Dichiarazione dei diritti dell’uomo’ è divenuta il testo di riferimento per i vari movimenti nazionali a sostegno della democrazia e dello Stato di diritto.

 

L’età contemporanea.

 

Ricordati i momenti salienti della storia antica e moderna si può, ora, volgere lo sguardo all’età contemporanea.

Nella prima metà del secolo XX l’umanità ha conosciuto oltre a due guerre mondiali le spietate persecuzioni dei regimi totalitari contro individui inermi colpevoli soltanto di esistere.

La cultura e i valori anche di quei popoli che una storia millenaria aveva guidato verso mete avanzate di civiltà sono stati travolti nel nome di aberranti ideologie che hanno aperto la strada ad efferati eccidi e alla violazione di tutti i diritti che afferiscono alla dignità dell’uomo.

Quando, finalmente, è cessato il fragore delle armi il mondo intero ha guardato, sgomento, al disastro che la bestiale follia aveva cagionato con la sua violenza devastante e ha giurato di vigilare perché un simile scempio non dovesse più ripetersi.

La formalizzazione solenne di questo impegno è stata celebrata il 26 giugno del 1945 quando i rappresentanti dei Paesi dei quattro continenti, riuniti a San Francisco, hanno adottato la ‘Carta delle Nazioni Unite’ proclamando l’impegno di ‘salvare le future generazioni dal flagello della guerra’ e riaffermando ‘la fede nei diritti umani fondamentali, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza di diritti degli uomini e delle donne e delle Nazioni grandi e piccole..’

E’ apparso, così, per la prima volta in un documento internazionale il richiamo ai diritti umani.

Successivamente, il 10 dicembre 1948, essa assume grande risalto poiché la più solenne Dichiarazione delle Nazioni Unite viene intitolata:’Universal Declaration of Human Rights’. Questo atto, non avendo forma di Convenzione, è un documento privo di forza giuridica ma il suo valore morale è tale che ad esso si sono ispirati e si sono riferiti gli strumenti pattizi internazionali, anche regionali,  da cui discendono le obbligazioni degli Stati Parte nella materia.

I principi esaltati nella Dichiarazione sono stati, nel dicembre 1966, ribaditi in due Convenzioni internazionali adottate dall’Assemblea Generale e di cui sono divenuti parte, praticamente, tutti i Paesi del mondo: la ‘Convenzione Internazionale sui diritti civili e politici’ e la ‘Convenzione internazionale sui diritti economici, sociali e culturali’.

L’insieme dei tre documenti ONU viene indicato come ‘The International Bill of Rights’.

Si è aggiunto, poi, il secondo Protocollo Addizionale alla Convenzione sui diritti civili e politici che prevede l’abolizione della pena di morte e che è entrato in vigore l’11 luglio 1991.

Dall’ International Bill of Rights hanno tratto ispirazione, oltre alla Convenzione Europea sui Diritti Umani, altre Convenzioni regionali quali la ‘American Convention on Human Rights’, adottata dall’’Organization of American States’, entrata in vigore il 1° gennaio 1980, e l’ ‘African Charter of Human Rights’, adottata dall’’Organization of African Unity’, entrata in vigore il 27 giugno 1981. Analoga ispirazione ha avuto la ‘Universal Islamic Declaration of Human Rights’, adottata dall’Islamic Council il 19 settembre del 1981.

Per trasformare in norme imperative i principi della Dichiarazione Universale l’Assemblea Generale dell’ONU ha impiegato ben diciotto anni a causa della difficoltà di mettere d’accordo Paesi appartenenti a culture diverse

L’omogeneità culturale fra gli Stati europei ha reso, invece, possibile al Consiglio d’Europa di agire con grande celerità sopravanzando le Nazioni Unite. Infatti la ‘Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali’ è stata aperta alla firma a Roma il 4 novembre 1950.

L’ispirazione tratta dalla ‘Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo’ delle Nazioni Unite è esplicitamente affermata nel preambolo.

Alla Convenzione Europea hanno fatto seguito alcuni Protocolli addizionali fra i quali, quelli che qui interessano, il I° del 20 marzo 1952, il IV° del 16 settembre 1963, il VI° del 28 aprile 1983 e il VII° del 22 novembre 1984.

La sequenza temporale di questi strumenti europei, così come la sequenza degli strumenti ONU in tema di diritti umani, offrono spunti interessanti nella ricerca di una definizione che vada oltre le generiche affermazioni sulla loro importanza

 

La definizione: l’autore della violazione.

 

Premesso che vi è accordo nell’includere fra i diritti umani beni essenziali, quali la vita e la libertà, possiamo affermare che i reati comuni di omicidio e di sequestro di persona, che il nostro codice colloca sotto il titolo dedicato ai reati contro la persona e che possono essere commessi da chiunque, sono, di per sé, violazione di diritti umani?

Commettono violazione di diritti umani i delinquenti per passione o per finalità di lucro che uccidono o sequestrano?

Certamente no e la storia dei diritti umani ce lo insegna.

La storia dei difensori dei diritti umani, la storia dei movimenti che li hanno sostenuti e affermati, la storia delle leggi che li hanno contemplati e da cui si sono generati gli strumenti internazionali, prima citati, indicano chiaramente che si parla di diritti umani quando la violazione dei beni fondamentali, a cui fanno riferimento le auliche definizioni, di cui ho riportato una selezione, è attribuita al comportamento dell’autorità.

Gli omicidi voluti dal dittatore, l’arbitraria privazione della libertà da parte di chi esercita il potere, la condanna senza le regole del giudizio, la tortura degli arrestati sono fra le fattispecie criminose che ha in mente chi parla di violazione di diritti umani.

Quando si accusa uno Stato di questa responsabilità non ci si riferisce al numero di reati comuni gravi, come quelli contro la persona, che avvengono nel suo territorio, ma alla responsabilità del potere per la violazione di diritti che, come tutte le definizioni affermano, ineriscono alla dignità dell’uomo.

In altre parole può dirsi che non è solo la qualità del bene protetto a definire un diritto umano ma anche la provenienza della sua violazione.

Una autorevole conferma formale di questo assunto è data dalla Convenzione Europea che, nel prevedere la facoltà di ricorso alla Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo, precisa che può rivolgersi ad essa chi lamenta  “di essere vittima di una violazione da parte di una delle Alte Parti Contraenti (leggi:Stato) dei diritti riconosciuti dalla presente Convenzione”. Il che significa che la Convenzione non stata voluta per tutelare i cittadini d’Europa nei confronti di chiunque commetta omicidio, sequestro di persona, violazione della privacy o di qualsiasi altro interesse protetto internazionalmente. La tutela offerta dal Trattato riguarda esclusivamente le violazioni commesse dallo Stato e, quindi, da qualsiasi autorità che eserciti pubblici poteri.

Analogamente il primo Protocollo Addizionale alla Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici, adottato e entrato in vigore insieme alla Convenzione, e che, evidentemente, si ispira alla Convenzione Europea, nel prevedere il ricorso individuale al ‘Comitato dei Diritti dell’Uomo dell’ONU, così specifica nell’articolo 1: “Uno Stato Parte della Convenzione,  che diviene anche parte del presente Protocollo, riconosce la Competenza del Comitato a ricevere e considerare reclami di individui, soggetti alla sua giurisdizione, i quali lamentano di essere vittime di violazioni, da parte di questo Stato, di alcuno dei diritti previsti dalla Convenzione”

Ulteriori conferme si traggono da altri documenti prodotti dall’ONU.

Fra i tanti atti che ribadiscono questa verità si fa, qui di seguito, riferimento solamente a due che hanno valore emblematico.

Nel dicembre del 1975 l’Assemblea Generale ha adottato la ‘Dichiarazione sulla Protezione di Tutte le Persone Soggette a Tortura o a Trattamenti e Punizioni Crudeli, Inumani e Degradanti’.

La Dichiarazione, come si legge nel suo preambolo,  è stata voluta per dare interpretazione autentica e rafforzamento ai precetti contenuti nell’art.5 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e nell’art.7 della Convenzione Internazionale sui Diritti civili e Politici, dove è stabilita la proibizione di tali comportamenti.

Nell’art.1 dell’Atto in questione viene data la definizione di tortura precisando che per essa “si intende qualsiasi atto a mezzo del quale vengono intenzionalmente inflitti forte dolore e sofferenza da parte o per istigazione di un pubblico ufficiale…”

Nel maggio del 1989 il Consiglio Economico e Sociale dell’ONU ha adottato la Risoluzione sui ‘Principi per le Effettive Prevenzione e Investigazione delle Esecuzioni Extra-legali, Arbitrarie e Sommarie’.Anche in questo caso viene specificato, nel preambolo, che la Risoluzione intende dare forza alle previsioni degli Strumenti internazionali sui diritti umani e, in particolare, si richiama l’art.3 della Dichiarazione Universale e il paragrafo 1 dell’art.6 della Convenzione sui Diritti Civili e Politici, dove è affermata la inviolabilità del diritto alla vita.

Nel testo dei principi, annesso alla Risoluzione, si stabilisce (art:2) che “al fine di prevenire le esecuzioni extra-legali, arbitrarie e sommarie, i Governi devono effettuare rigorosi controlli, inclusa una chiara catena di comando, su tutti i pubblici funzionari autorizzati dalla legge a fare uso della forza e delle armi”.

Viene, così, autorevolmente confermato che la violazione dei diritti umani ricorre quando i beni protetti dalle Convenzioni internazionali in materia sono lesi da pubbliche autorità.

A tal proposito va ricordata una gloria italiana: Nicola Spedalieri, sacerdote filosofo, nato a Bronte nel 1740. Anche se la sua memoria è stata onorata da una statua che lo raffigura, in piazza Cesarini Sforza a Roma, pochi lo ricordano.

Eppure egli è stato un antesignano. A quanto risulta egli è stato il primo a parlare di diritti umani nel senso di beni fondamentali dell’individuo violati dall’arroganza del potere.

Fu Spedalieri a denunciare, nel suo libro ‘De’Diritti dell’Uomo’, gli abusi dei regimi assoluti e il diritto del popolo di abbattere la tirannia.

Egli affermò la sacralità dei principi di uguaglianza e di libertà basati sui diritti naturali.

Sulla facciata della casa ove nacque è stata posta, nel 1878, una lapide che ne esalta l’opera ricordando che “rivendicando da Roma, con eroismo senza esempio, il diritto umano e la sovranità del popolo, abbatteva la radice delle vecchie tirannie”.

I poteri di allora, civili ed ecclesiastici, reagirono con preoccupazione alla denuncia della Spedalieri tanto che il suo libro fu bandito da tutte le Corti europee e tornò in circolazione solo nel 1860.

 

5- La definizione: l’atto normativo.

 

Ma il collegamento fra la violazione e il suo autore non basta per una completa definizione.

Un diritto in tanto sussiste in quanto è così definito dalla legge.

In mancanza della legge si può parlare di un interesse da difendere, di esistenza di un ‘fondamento naturale’che impone l’obbligo di prevedere un diritto, come ha sostenuto Benedetto XVI, di un diritto naturale, ma non di un diritto nel senso del termine inglese ‘right’.

La prima volta che determinati beni sono stati indicati come diritti umani a livello internazionale è avvenuto, come si è avanti detto, nel 1948, con la Dichiarazione Universale dell’ONU.

Anche se la Dichiarazione non lo afferma esplicitamente da essa si deduce che la comunità internazionale ha voluto, con quell’atto, denunciare l’uso scorretto del potere e mobilitare tutti i Paesi a proibirne e punirne l’eventualità.

Sono particolarmente significativi al riguardo due paragrafi del preambolo che così recitano: “Ritenuto che è essenziale, affinché l’uomo non sia costretto a fare ricorso, come estremo rimedio, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione, che i diritti umani siano protetti dalla forza della legge..”.

E ancora: “Ritenuto che gli Stati Membri si sono essi stessi impegnati a provvedere, in cooperazione con le Nazioni Unite, alla promozione del rispetto universale e alla protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali”.

Dopo queste premesse la Dichiarazione elenca quelli che le Nazioni del mondo devono considerare ‘diritti umani’ allorché la responsabilità della loro violazione, sia per omissione, quando non si provveda a proteggerli con la legislazione domestica, sia per commissione, quando la legge viene infranta, risale ai pubblici poteri.

E’ la Dichiarazione, quindi, che determina l’effetto di elevare alla categoria di diritti umani quelli che essa menziona come tali. Al riguardo deve sottolinearsi che il valore dichiarativo di questo Atto è di portata atemporale, perchè la qualifica che esso attribuisce a determinati diritti vale per il futuro come per il passato .

Se oggi possiamo ritenere come leggi a tutela dei diritti umani strumenti quali la Magna Carta, il Bill of Rights del 1689, la Dichiarazione di Indipendenza, la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino, lo dobbiamo alla Risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

A questo punto possiamo tentare una più articolata definizione affermando che alla base della nozione vi sono diritti comuni i quali, generalmente, sono riconosciuti e tutelati dagli ordinamenti interni dei Paesi civilizzati. Tali diritti assumono la qualità di ‘diritti umani’ quando sono sanciti da Convenzioni internazionali che impongono la loro protezione nei confronti del potere.

Da questa particolare origine derivano conseguenze peculiari come l’estensione della definizione anche alle violazioni commesse da autorità di Paesi che non sono Parte delle Convenzioni in materia.

Altra notevole conseguenza riguarda la tipologia dei diritti in questione. Poiché, come si è detto, essi traggono origine da una particolare fonte normativa, cioè dalle Convenzioni internazionali, sono cioè creati per legge, la loro tipologia, e anche il loro numero, possono variare con il variare della fonte normativa.

 

Diritti umani e carcere.

 

La situazione in cui l’autorità può, abusando del suo potere, ledere i diritti del cittadino sono numerose ma è indubbio che il carcere è il luogo dove tali abusi possono più facilmente compiersi. Nel carcere l’individuo è posto in una condizione di assoluta dipendenza dall’autorità che regola ogni momento della sua quotidianità.

Il prosieguo di questo mio intervento è dedicato a questa sola situazione.

Comincio con il constatare che la Convenzione europea accenna al sistema penitenziario unicamente per affermare che ‘il lavoro imposto a una persona detenuta’ non rientra nel divieto del lavoro forzato.

La stessa Convenzione contiene, tuttavia, nell’art.3, la proibizione ‘della tortura, delle pene e trattamenti inumani e degradanti’, che, avendo portata generale, trova applicazione anche nel carcere.

Viceversa la Convenzione ONU, che pur contiene analoga previsione sotto l’art.7, si occupa anche del sistema penitenziario nell’art. 10, là dove è sancito che:

  1.”Tutte le persone private della libertà devono essere trattate con umanità e con rispetto per la inerente dignità della persona umana.”

  2.(a)”Gli imputati devono, salvo eccezionali circostanze, essere separati dai condannati e devono ricevere un trattamento diverso appropriato al loro stato di persone non condannate.”

     (b)”Gli imputati minorenni devono essere separati dagli adulti ed essere giudicati il prima possibile.”

  3.”Il sistema penitenziario deve includere il trattamento dei detenuti il cui fine essenziale deve essere la loro rieducazione e riabilitazione sociale.

I detenuti minorenni devono essere separati dagli adulti e ricevere un trattamento che tenga conto della loro età e del loro status”.

Nel riconoscere il merito delle Nazioni Unite si deve, però, dare atto che esse avevano ereditato un patrimonio di valori, a sostegno dell’umanizzazione del carcere, accumulato nel corso del secolo precedente ad opera dei capi dei sistemi penitenziari di molti importanti Stati, fra cui l’Italia.

Il testo base delle ‘Regole Minime’ era stato elaborato da una organizzazione internazionale voluta e formata dai predetti nel 1872, per iniziativa della Russia e dell’America.

L’organizzazione si chiamò prima ‘International Penal Commission’ per divenire, poi, ‘International Penal and Prison Commission’ e, infine, ‘International Penal and Penitentiary Commission’.

Questa, quando constatò che l’ONU si era assunto il compito di trattare la materia penitenziaria, trasferì ad esso le sue competenze  e una vasta biblioteca specializzata, che è, oggi, in Italia, presso l’UNICRI, e si trasformò in ‘Fondazione Internazionale Penale e Penitenziaria’.

E’ importante ricordare questa storia non solo per attribuire il merito a chi di dovere ma anche per sottolineare che, come sempre è avvenuto, le iniziative per migliorare le condizioni dei detenuti muovono dagli stessi operatori penitenziari.

Tornando all’Europa dobbiamo domandarci come mai la ‘Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali’ non si occupi dell’esecuzione delle misure detentive e, quindi, della difesa dei diritti umani dei detenuti.

Le risposte a questa domanda possono essere diverse perché è possibile fare varie ipotesi.

E’ molto probabile che il Consiglio d’Europa, nel cui seno una Direzione degli Affari Penali seguiva da vicino la gestione delle amministrazioni penitenziarie, abbia ritenuto, al momento, non necessario imporre regole giuridiche internazionali in un contesto dove la tutela dei diritti umani dei detenuti trovava già rispetto nelle leggi costituzionali e ordinarie dei Paesi aderenti.

Successivamente, però, l’opportunità di adottare norme europee per i sistemi penitenziari è stata avvertita, anche se ad essa si è provveduto solo a mezzo di Raccomandazione, come dimostra la Risoluzione del Comitato dei Ministri d’Europa del 19 gennaio 1973, contenente il testo delle’Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisoners’.

Il collegamento fra queste regole e quelle precedenti dell’ONU, che già risalta nel titolo, è esplicitamente affermato nel testo dove, pur riconoscendo l’importanza della normativa ONU, si osserva che dopo la sua emanazione erano avvenuti notevoli progressi nella concezione della politica penale e che, pertanto, fosse necessario mettersi al passo con le idee più avanzate correnti fra gli Stati  Membri.

La Risoluzione del 1973 ha contribuito a dar forza ai movimenti di riforma dei sistemi penitenziari. Noi ricordiamo il vivace dibattito, nel contesto italiano,che ha accompagnato il percorso della riforma culminato nella legge 26 luglio 1975 n°354.

Nelle relazioni sui testi che, via via, si sottoponevano all’attenzione del Parlamento, e nei relativi dibattiti il richiamo alle Regole Minime dell’ONU e del Consiglio d’Europa era frequente.

In questo continuo progredire i concetti di umanizzazione della pena e di trattamento penitenziario hann acquistato sempre maggiore chiarezza e ricchezza di contenuti tanto da superare le mete fissate dalle esistenti Regole Minime.

Di tanto si è reso conto il Consiglio d’Europa che è tornato sull’argomento adottando, il 12 febbraio 1987, un testo revisionato delle Regole a cui ha dato il titolo di ‘European Prison Rules’:

Nella presentazione del testo si dà atto che nel Continente si sono manifestate significative nuove percezioni sociali e cambiamenti nella concezione del trattamento penitenziario e che, quindi, si è ravvisata l’opportunità di”sostenere e incoraggiare il meglio di questi sviluppi e di aprire l’orizzonte a futuri progressi”.

Nel preambolo si sintetizza che la finalità della normativa consiste nel dare “rinnovata enfasi…ai precetti di dignità umana e di impegno delle amministrazioni penitenziarie per un trattamento umano positivo”, si sottolinea, poi, l’importanza dei ruoli del personale e di efficienti e moderni approcci di gestione.

Ma pur riconoscendo la notevole influenza che questi atti internazionali, non giuridicamente vincolanti ma carichi di forza morale, hanno esercitato sui sistemi europei, non possiamo non constatare che il detenuto europeo può richiedere la tutela giuridica sopranazionale, offerta dalla Convenzione Europea, solo se la violazione che egli denuncia rientra nella definizione di ‘tortura o trattamenti inumani e degradanti’.

Viceversa lo stesso detenuto ha la possibilità di richiedere la tutela offerta dalle Nazioni Unite (che, purtroppo, consiste solo in un riconoscimento verbale della sua ragione) a mezzo del Protocollo Addizionale alla Convenzione sui Diritti Civili e Politici, anche quando ricorra alcuna delle violazioni previste dal citato art. 10

A questo punto c’è da domandarsi se è giusto che dopo tanto parlare di diritti umani, quando, ormai, è condivisa l’opinione che rispetto dei diritti umani, democrazia e Stato di diritto sono valori coincidenti, che l’Europa non disponga di un sistema internazionale di norme che garantiscano la salvaguardia di tali diritti in carcere.

Non si comprende perché l’Europa, che ha voluto sopravanzare le stesse Nazioni Unite nell’adozione di norme patrizie vincolanti gli Stati al rispetto della dignità dei loro cittadini, sia rimasta indietro proprio in questo settore che più di ogni altro è esposto alla possibilità di abusi di potere.

E ciò appare tanto più incomprensibile in un contesto in cui è prevista la possibilità di trasferimento di detenuti e di esecuzione di condanne detentive da uno Stato all’altro.

A mio giudizio chi si rende conto di questa carenza dovrebbe adoperarsi a prendere iniziative di riparazione .

Occorrerebbe sollecitare il Comitato Europeo per gli Affari Criminali, che ho avuto l’onore di dirigere e che oggi, dopo molti anni, è nuovamente presieduto da un italiano, ad istituire un sotto-comitato con il mandato di preparare uno schema di Convenzione sulla materia.

Sono convinto che, dopo il lavoro dei tecnici,quello dei politici completerà l’opera.

                                                   Giuseppe Di Gennaro 
                                         

    


                                                  

 
 

Clicca qui per iscriverti alla nostra newsletter!

 

Torna agli Atti del Convegno

 

Mandaci un' E-mail!