Premessa

L’approvazione dell’indulto rappresenta un’occasione storica, unica e irripetibile per una radicale riforma del carcere, per ripensare il senso della pena, per una giustizia fondata sul diritto e sulle garanzie.

L’indulto era una misura dovuta, non solo per ragioni di giustizia, umanità ed equità ma soprattutto perché nelle carceri regnava un regime di illegalità con la violazione costante del Regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario che dal 2000 restava (e resta) inapplicato, calpestando così i diritti dei detenuti. Il 2006 era iniziato con l’approvazione della legge 21 febbraio 2006 n. 49, contenente profonde modifiche al Dpr. 309 del 1990 sulla disciplina degli stupefacenti, nota come legge Fini-Giovanardi e dal carattere fortemente repressivo e proibizionista.

L’applicazione di questa legge assieme alla legge sull’immigrazione, la Bossi-Fini, faceva prevedere un aumento del numero dei detenuti oltre ogni limite di sopportabilità.

A fine luglio invece il Parlamento ha votato con l’80% dei voti favorevoli un provvedimento di indulto, determinando l’uscita immediata dalle carceri di 23.580 detenuti, portando le presenze da 62.000 ospiti a circa 38.000.

L’ultimo provvedimento di clemenza risaliva al 1990 e pochi avrebbero scommesso su una decisione positiva del Parlamento soprattutto tenendo conto della maggioranza qualificata prevista dalla Costituzione, dopo tanti accorati e autorevoli appelli che avevano diffuso nelle carceri italiane, prima speranze ed entusiasmi, a cui erano subentrate disillusioni e frustrazioni.

Purtroppo una ondata violenta di falsità e di disinformazione ha accompagnato la decisione del Parlamento e la campagna mediatica in nome della sicurezza e della certezza della pena ha per mesi impedito un ragionamento sulle misure indispensabili e urgenti perché l’indulto non si risolvesse in un sogno di mezza estate. Così invece di riflettere sulle molte questioni che l’indulto ha disvelato, si insiste ad attribuire a una misura che pare orfana di padri e madri, la responsabilità di tragedie tremende: l’ esempio più eclatante è stato offerto dalla strage di Erba attribuita a un “immigrato, tunisino, uscito grazie all’indulto”. Così, senza vergogna, strillavano i titoli dei giornali e delle televisioni.

Che cosa ci ha detto l’indulto?

Prima di tutto ha messo in luce una applicazione ridotta delle misure alternative da parte di una magistratura di sorveglianza troppo accorta e prudente: infatti molti dei detenuti definitivi usciti grazie all’indulto erano nei termini per usufruire di programmi di accompagnamento al ritorno in società, ma stavano a marcire ammassati negli istituti di pena. Troppe lacrime di coccodrillo sono state versate per l’abbandono in cui si sarebbero trovati d’improvviso i detenuti!

In secondo luogo l’indulto ha reso evidente che chi esce dal carcere è solo con il suo sacco di plastica nera dell’immondizia perché il welfare non ha risorse per gli ultimi o ha altre priorità.

Infine l’indulto ha denunciato la presenza  di una detenzione sociale di massa costituita da immigrati colpevoli solo di non essersi allontanati dall’Italia, da tossicodipendenti che non dovrebbero né entrare né stare in carcere, da poveri che la società opulenta riduce ad avanzi di galera.

Quante riflessioni avrebbe dovuto produrre questa vicenda invece del tormentone sulla sicurezza delle nostre città! Tema che certo esiste ed ha uno spessore pieno di sofferenza, di paura per troppi cittadini, soprattutto i più deboli, ma che deriva dallo stato delle periferie urbane, dalla esclusione sociale, dalla violenza diffusa, dalla volgarità massiccia e da un imbarbarimento della società, insomma da condizioni della convivenza delle nostre città che non può essere semplicisticamente attribuita al ritorno nella società dei “sani”, anticipato di sei mesi o di un anno, di alcune migliaia di “devianti”.

E per finire:  i numeri dei rientri in carcere per recidiva immediata, in alcuni casi per pura disperazione, dimostrano che pur in condizioni di difficoltà estrema, la generosità dello stato è stata compresa e non è stata tradita, infatti la percentuale dei recidivi si  è stabilizzata intorno al 10% dei fruitori dell’indulto e  pari a  poco più di duemila persone. Il fatto che ancora oggi i detenuti non abbiano superato la cifra dei quarantamila, può fare sperare ancora che la partita non sia ineluttabilmente perduta.

L’agenda degli obiettivi riformatori da perseguire è scritta e condivisa: per un esame coerente e non frammentario occorrerebbe una sessione parlamentare ad hoc. Ovviamente si tratterebbe di  una via razionale e proprio per questo risulta impraticabile.

Il nuovo codice penale che sostituisca il codice Rocco del 1930 deve essere assunto come priorità assoluta; se è vero che a fine aprile la commissione Pisapia consegnerà al ministro Mastella il proprio progetto, occorrerà richiedere una legge delega per un esame del Parlamento che porti a una svolta di civiltà.

Purtroppo dopo un anno della nuova legislatura, le leggi criminogene sulla recidiva, sull’immigrazione e sulle droghe non sono state abrogate e continuano a produrre effetti nefasti che in ultima analisi ricadono sul carcere e sulla composizione della popolazione detenuta, realizzando una forma non casuale di detenzione sociale.

Il sistema penitenziario richiederebbe alcune misure che sono già elaborate e in discussione da anni: il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, uno specifico ordinamento penitenziario per i minori, l’approvazione della legge istitutiva del garante nazionale delle persone private della libertà, il riconoscimento del diritto di voto per le persone in esecuzione penale e per gli ex detenuti, il riconoscimento dell’affettività come diritto per le persone detenute.

Vi è poi il campo sterminato della piena applicazione delle norme e leggi esistenti a partire dalla salute in carcere, dal lavoro, alla esclusione dal circuito carcerario dei bambini figli di madri detenute, alla applicazione più estesa possibile delle misure alternative. Infine occorrerebbe un Piano per la realizzazione integrale del Regolamento del 2000 e contestualmente almeno iniziare la discussione della proposta Margara di un nuovo testo dell’Ordinamento Penitenziario. L’unica notizia confortante è la prospettiva dell’istituzione della figura del Garante a livello nazionale. Infatti la Camera dei Deputati ha approvato il 4 aprile il testo unificato delle proposte presentate da diversi gruppi parlamentari.

La mole del lavoro è tale che il pessimismo della ragione può sovrastare l’ottimismo della volontà eppure vi sono momenti nella storia in cui si chiede la consapevolezza della discontinuità. Oggi è il tempo della politica, delle scelte e non solo della buona amministrazione. Non c’è da conservare ma da cambiare.

L’obiettivo è rovesciare l’imbarbarimento della cultura politica che si è affermato in questi anni producendo un incattivimento della società.

 

Le parole sono stanche

 

Nel dicembre del 2004 con la Fondazione Michelucci l’Ufficio del Garante di Firenze organizzò un convegno dal titolo: “Del carcere: solo questo sappiamo, ciò che non è, ciò che non vogliamo”. Poteva apparire una sorta di denuncia di impotenza, di fragilità, di resa alla dura replica dei fatti rispetto al sogno, all’utopia del cambiamento.

Così non era. L’allusione del titolo ai versi di Eugenio Montale voleva certo esplicitare la consunzione che tante parole utilizzate per descrivere la realtà del carcere hanno subito: discarica sociale, deposito di corpi, contenitore di ferite sociali, imbuto classista dell’amministrazione della giustizia. La consapevolezza del fallimento di tante ipotesi di cambiare radicalmente un’istituzione totale che quasi naturalmente si caratterizza come luogo di potere e in cui il detenuto è il soggetto più debole, impone la necessità di una riflessione teorica che incida sul senso profondo della pena.

Il carcere malato ha bisogno cioè di un progetto complessivo che faccia i conti con le tendenze, i valori, le paure e le speranze della società. La lettura disincantata del carcere come è, ci può far capire meglio di tanti saggi, le pulsioni che emergono nel corpo della società, la voglia di vendetta, le risposte orientate alla tolleranza zero. L’aumento del numero dei detenuti non risponde a un aumento della criminalità e dei delitti, ma a un atteggiamento che forse inconsapevolmente vuole ridefinire i confini delle due città, quella dei sani da quella dei malati, quella dei giusti e dei normali da quella dei criminali e dei devianti.

 

Chi è destinato al carcere

 

Basta un’analisi anche superficiale della composizione sociale dei detenuti presenti in un giorno dell’anno per avere la rappresentazione plastica, o meglio in carne e ossa, dei rifiuti umani della nostra società.

Tossicodipendenti e immigrati costituiscono la grande maggioranza degli ospiti delle patrie galere. Addirittura si può stimare che per reati direttamente o indirettamente riconducibili alla legge sugli stupefacenti sia coinvolta la metà dei detenuti. Ecco il primo di una lunga serie di paradossi: una sola legge delle almeno cinquantamila in vigore nel nostro ordinamento determina la gran parte delle carcerazioni e una detenzione fuori misura e spropositata, oltre che inutile e iniqua. Per un esame dettagliato dei dati, rinvio alla mia Introduzione al volume Marijuana I miti e i fatti di Zimmer e Morgan edito da Vallecchi.

A parole tutti si dicono d’accordo con il principio che il carcere debba essere l’extrema ratio, ma per alcuni se ne propone una vera overdose.

La scommessa di un carcere trasparente e come luogo di sperimentazione sociale va giocata senza fermarsi alle differenziazioni di regime giuridico e trattamentale previste per le aree di massima e alta sicurezza, e soprattutto rifiutando la logica del contenitore della devianza e dell’emarginazione.

L’istituzione della figura del Garante per i diritti delle persone private della libertà personale, uno specifico Ombudsman, deve avere il segno non certamente della normalizzazione, ma della felice ambiguità.

Non è fuoriluogo cercare di inserire la discussione sul ruolo del Garante dei diritti dei detenuti in un quadro concettuale chiaro e non equivoco.

 

Il carcere ipertrofico e criminogeno

 

Lavorare per garantire i diritti presuppone la contestazione esplicita dell’ipertrofia del sistema penale e il rifiuto del dominio dello “stato penale” rispetto allo “stato sociale”. Deve ad esempio essere chiaro cioè che la denuncia del sovraffollamento ha un valore politico-culturale e che deve tendere a un minore ricorso alla detenzione e non alla costruzione di nuove carceri, magari privatizzate.

Non si può dare neppure per un momento l’impressione di essere disponibili a farsi rinchiudere nel recinto della buona amministrazione, delle compatibilità o delle buone intenzioni: il carcere deve accettare la sfida di essere un laboratorio di sperimentazione di forme inedite di Stato sociale. Il lavoro positivo di tanti operatori e del volontariato non reggerebbe senza affondare in una visione complessiva del mondo. Risulterebbe davvero impraticabile un riformismo senza riforme.

In tempi di guerra e di terrorismo, di conflitti di civiltà e di opposti fondamentalismi, di limitazioni di libertà e di maggiori controlli sulla vita dei cittadini, può apparire paradossale invocare e agire per i diritti dei detenuti. Ma la Storia per fortuna non ha sempre direzioni univoche e permette strade alternative e sentieri impervi.

 

Diritti e loro esigibilità

 

Quali sono dunque i diritti di cui parliamo? Norberto Bobbio nel suo libro “L’età dei diritti” ricorda che Kant aveva ridotti i diritti innati a uno solo: la libertà. Come si può allora parlare di diritti per persone private proprio della libertà?

Credo che l’affermazione dei diritti dell’uomo non possa escludere nessuno, pena la sua intima contraddizione. Quindi quando parliamo di diritti dei detenuti ci riferiamo sicuramente ai diritti che vanno declinati in ordine alla specificità della condizione (così come sono state approvate Convenzioni internazionali per i diritti del fanciullo, delle persone handicappate, del minorato mentale, degli anziani). In primo luogo vanno affermati i diritti classici, di voto, di espressione, di religione, ecc., ma a maggior ragione vanno previsti i diritti sociali: diritto allo studio, al lavoro e alla salute. Sono previsti dalla nostra Costituzione come norme programmatiche per il divario che esiste tra la norma e la sua effettiva applicazione. I diritti sono tali perché esigibili, ciò richiede da parte dello Stato (sociale) una attivazione particolare; verso i detenuti si tratta di un intervento che richiede una priorità assoluta perché sono alla base della condizione di effettiva cittadinanza. Inoltre l’articolo 27 della Costituzione laddove prescrive il carattere delle pene come tendenti alla rieducazione del condannato, obbliga lo Stato a garantire azioni positive per il reinserimento sociale a vantaggio del singolo e della società.

Esistono infine diritti specifici alla condizione di vita in carcere e a titolo meramente esemplificativo e in ordine casuale ne cito alcuni, la socialità, l’esercizio della propria confessione religiosa, l’alimentazione, l’igiene personale, le misure alternative, i colloqui e i permessi.

Questi diritti sono scritti nelle leggi specifiche, nell’Ordinamento Penitenziario e nel Regolamento approvato nel 2000; il problema è che questo complesso di norme non rimanga chiuso nei cassetti, inapplicato per inerzia burocratica o per colpevole boicottaggio.

Il Garante, un profeta disarmato, può ridare speranza di futuro a un mondo senza parola e senza voce, troppo spesso illuso e deluso?

 

L’importanza del Garante nazionale dei detenuti

 

Il testo approvato dalla Camera dei Deputati, pur con alcuni limiti e alcune reticenze, pone le basi di un potere reale attraverso la visita senza autorizzazione degli istituti, la visione dei fascicoli personali, la verifica della idoneità delle strutture edilizie alla salvaguardia della dignità e al rispetto dei diritti fondamentali, e infine, in concorso con il magistrato di sorveglianza, vigila che la custodia sia attuata in conformità delle norme e dei principi stabiliti dalla Costituzione, dalle Convenzioni internazionali sui diritti umani ratificate dall’Italia, dalle leggi dello Stato e dai regolamenti.

Sono convinto che la figura del difensore civico non dovrà limitarsi a un ruolo di controllo e di denuncia ma anche di promozione, gettando un fascio di luce su quanto accade ma soprattutto su quanto non accade nei penitenziari, troppo spesso luoghi, desolatamente, del “non fare”.

E’ sotto gli occhi di tutti la diffusione di una cultura securitaria e di un clima di imbarbarimento della convivenza civile, e anche per questo l’istituzione della figura di un Ombusdsman, apparirebbe in controtendenza, assolutamente positiva.

L’intollerabile numero di suicidi in carcere dimostra una tragica insostenibilità della situazione e, al di là dell’aspetto non irrilevante dei poteri di questa nuova figura, la sua presenza di per sé potrà costituire un segno di sensibilizzazione della cosiddetta società civile per un progetto di inclusione sociale che sconfigga la logica della recidiva.

In attesa dell’approvazione della legge istitutiva nazionale, si sono diffuse le nomine di garanti cittadini e regionali. Questo processo dal basso ha una valenza fondamentale di legame con il territorio respingendo quella visione che vuole cancellare il carcere dalla vita della città.

L’accoglienza, la solidarietà, l’umanizzazione della pena devono essere affermate non come istanze buoniste, ma come diritti esigibili nella consapevolezza che la legalità anche in carcere è un valore da affermare con ancora maggiore intransigenza.

Il carcere, luogo di rimozione per eccellenza, subisce spesso il peso della cappa dell’indifferenza: il dolore, le urla, il sangue che innumerevoli atti di autolesionismo testimoniano, rimangono confinati al di là dei muri, gli ultimi esistenti, insuperabili e non destinati a un abbattimento liberatorio.

Ad affrontare il problema, scriveva Sofri, occorrerebbe un pazzo, o un santo: un santo pazzo, piuttosto, capace di metterci la propria vita, e di restare solo, senza rispetti umani e senza partiti presi.

In questi anni, i rapporti del Comitato europeo contro la tortura, i rapporti di Antigone, l’Annuario Sociale e il Rapporto annuale sui diritti globali hanno gettato una qualche luce fornendo molti dati sulle carceri italiane, ma ancora ritengo sarebbe utile riprendere la proposta del Ministero della Giustizia, poi incomprensibilmente abbandonata, di un’indagine sullo stato delle prigioni italiane e del sistema penitenziario. “Un’inchiesta sulle carceri potrebbe dire sullo stato presente e futuro dell’Italia cose terribili e preziose”, così commentava Adriano Sofri nella prefazione a Giustizia senza fine, per poi concludere:  “Si capisce che metter mano a un sistema giunto a questo, sia impresa che fa tremare; e che vinca la Normale Amministrazione. Anche chiudere i Giardini Zoologici sembrava sbagliato a molti, impossibile a quasi tutti. Dove li mettiamo poi i coccodrilli, e i tossicodipendenti?”

 

Occorre ripensare i fondamenti stessi della reclusione

 

A conclusione di questa analisi, vorrei proporre questa riflessione: “I modelli sanzionatori non devono ritenere scontate le modalità di risposta al reato fondate semplicemente sulla ritorsione, sulla pena fine a se stessa, sull’emarginazione. E’ il tema del superamento della centralità del carcere nell’ambito penale. Bisogna fare di tutto perché il carcere sia luogo di forte e austera risocializzazione, con programmi chiari e controllati, con l’impegno di persone motivate e con incentivi atti a promuovere tali processi. Appare oggi più evidente l’inadeguatezza di misure repressive o punitive che un tempo la società non poneva in questione. E’ quindi necessario ripensare la stessa situazione carceraria nei suoi fondamenti e nelle sue finalità, proprio a partire dalle attuali contraddizioni”. Sono parole scritte dal cardinale Martini nel suo libro Sulla Giustizia: parole quasi rivoluzionarie per questo Paese, in cui, nella pratica se non nella teoria, si continua ad attribuire una centralità - spesso impropria, sovente nefasta - alla pena reclusiva. All’opposto, il nostro sistema dovrà articolare un metodo delle pene che non abbia solo la pena della privazione della libertà per un certo tempo, ma delle pene, o meglio alternative alle pene, che mettano immediatamente, nel momento del giudizio, la persona in rapporto alla società. Una previsione cioè di attività e comportamenti credibili, efficaci, di riparazione del danno in funzione di reintegrazione sociale, di rapporto con la vittima dal punto di vista della possibile riconciliazione.

Perché sia possibile una forte e austera risocializzazione, come la definisce il cardinale Martini, essa dovrebbe far leva sulla responsabilità personale dei detenuti. Invece, come denuncia Sofri nel volumetto A doppia mandata, “Il carcere mira, con una metodicità accanita, al contrario. Ogni piccolo gesto dell’esistenza quotidiana è espropriato di senso e di libertà, tallonato da riti assurdi e umilianti, regolato da norme che suonerebbero infantili in un asilo infantile”. L’infantilizzazione deriva anche dalla composizione della popolazione detenuta; la maggior parte dei detenuti si trova in galera per fatti che riguardano la droga. A questo proposito impietosamente Sofri così descrive la situazione: “Ed è per antonomasia una ragione di irresponsabilità, di vittimismo e di autodistruzione, di disposizione furbesca e lamentosa a usare gli altri come strumenti. L’ovvietà che descrive la tossicodipendenza come una malattia offre ai tossicodipendenti un pretesto all’auto commiserazione e alla deresponsabilizzazione”. Il primo compito è quindi quello di esaltare la responsabilità, la stima di sé, del proprio sapere e della propria esperienza, insomma della vita passata e futura, a cominciare anche dalla riscrittura del vocabolario carcerario stretto tra gergo burocratico e parole insopportabilmente infantili e offensivamente servili (il riferimento alla “domandina” è di per sé eloquente).

Può apparire un paradosso che il carcere da luogo della separazione dalla società dei condannati, riacquisti il senso della sfida per il reinserimento sociale, per abbattere l’esclusione sociale. In questi ultimi tempi si è risvegliato uno spirito forcaiolo che, strumentalizzando il dolore delle vittime  e delle famiglie, ha proposto una sorta di riduzione al silenzio per gli ex terroristi e un destino di morte civile per colpe ritenute non espiabili. Siamo di fronte a un imbarbarimento che risulta incomprensibile dopo venti anni dalla legge Gozzini e dalla legge sulla dissociazione. Questa ventata giustizialista riduce lo spazio della politica e del dialogo. Proprio per questo, contro “il fine pena mai”, occorre trovare un filo di umanità. Per farlo occorre, certo, cambiare il senso comune, con tutta la pazienza che ciò comporta. Ma anche sollecitare le istituzioni e la politica a fare la loro parte, a rinunciare al pericoloso gioco di alimentare derive giustizialiste. Ad esempio, abbiamo recentemente proposto una sessione parlamentare sui problemi dei carcere e della giustizia, come presa d’atto dell’urgenza di una serie di problematiche, come segnale di presa in carico, di una volontà di cambio di rotta, di affrontamento strutturale e di una doverosa attenzione. All’opposto, abbiamo trovato perlopiù distrazione e indifferenza. Un segno dei tempi e, al tempo stesso, un preoccupante segnale dell’assoluta mancanza di un progetto sulla giustizia, di una politica che ha perso l’anima. E senza anima e senza progetto si può al massimo navigare a vista. Col rischio, però, di portare la nave sugli scogli.

                                                         Franco Corleone 
                                         

    


                                                  

 
 

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