FOGLIO LAPIS - APRILE - 2005

 
 

Le classi multietniche sono una sfida per tutti – Il carattere multiforme della popolazione scolastica è una risorsa ma anche una fonte di problemi – In Francia per esempio si parla di “razzismo alla rovescia”, bollando in questo modo il preoccupante fenomeno degli scontri a base etnica – Si tratta in realtà di una riedizione del tradizionale conflitto fra le periferie disagiate e la città opulenta – La scuola non può ignorare questi nodi: deve scioglierli 

    

 Nos ancêtres les Gaulois: i Galli nostri antenati. Così s’intitolava nella Francia di una volta uno dei primi capitoli dei testi scolastici di storia. E quando quei libri capitavano in mano a un nerissimo scolaretto delle colonie africane, è facile immaginarlo piuttosto perplesso di fronte all’immagine del biondo guerriero celtico, che gli veniva imposto come antenato. Oggi molte cose sono cambiate dai tempi coloniali, e dagli ex possedimenti oltremare una folla di nuovi abitanti si è riversata nella madrepatria trasformando la vecchia società francese in un crogiolo di genti diverse. Specchio fedele della società, la scuola ne ripropone al suo interno il carattere multiforme, e questo contatto insieme la arricchisce e la carica di problemi.

Uno di questi problemi è stato di recente riproposto da alcuni fatti di cronaca. Nel corso delle agitazioni studentesche contro la riforma scolastica, in un quartiere periferico di Parigi gruppi di giovani immigrati hanno aggredito i loro compagni bianchi. Scontri, pestaggi, contusi, intervento in forze della polizia. Qualcuno è andato a sfogliare gli archivi, scoprendo episodi analoghi un po’ in tutto il paese: si assiste insomma a una contrapposizione a volte violenta fra i giovani immigrati, in particolare i maghrebini di fede islamica, e i ragazzi francesi. Un connotato preoccupante di questo fenomeno è il fatto che i francesi e gli ebrei vengono accomunati nella contestazione e nel rifiuto. Per questo intellettuali come Alain Finkielkraut e politici come Bernard Kouchner hanno lanciato l’allarme parlando di “razzismo alla rovescia”, di un misto di “francofobia” e antisemitismo, di “guerriglia etnica”, e invocando pronte misure d’intervento.

Varie circostanze hanno approfondito il solco fra le comunità. Per esempio la legge recente sulla laicità nella scuola, che vieta di portare nelle aule appariscenti simboli religiosi come il velo delle ragazze islamiche, pena l’espulsione. Ma anche la guerra irachena e la questione mediorientale, che nonostante le equidistanti scelte diplomatiche francesi hanno polarizzato l’opinione secondo lo spartiacque etnico-religioso: arabi e musulmani da una parte, ebrei e cristiani dall’altra. Benzina sul fuoco poi è stata gettata da certi isterici teorizzatori dello “scontro di civiltà”: quelli che parlano di Eurabia e di invasione islamica, negano la possibilità di una convivenza pacifica fra le culture (in questo modo rendendola di fatto più difficile), e predicano la riscossa dell’Occidente nello spirito di una vera e propria crociata.

Tutti questi elementi hanno esacerbato una crisi che era latente nella società francese, così come in tutte le società occidentali e in particolare in quelle più massicciamente investite dal fenomeno dell’immigrazione. È il conflitto tradizionale che nasce dagli squilibri sociali. Non sono soltanto l’origine è la religione a differenziare la massa degli studenti francesi da quella dei loro compagni maghrebini: sono anche la collocazione sociale, il livello di ricchezza, il tenore di vita. I ragazzi provenienti dal Nordafrica, i beurs come li chiamano i francesi, alimentano le bande frustrate delle banlieues, quelle stesse desolate periferie che alimentano piccole o grandi deviazioni criminali. Nel dibattito in corso a Parigi si fa notare come vi siano licei di serie A e di serie B: i primi sono quelli storici, frequentati dai figli della borghesia benestante, con una scarsa presenza di immigrati. Gli altri sono le scuole della banlieue, dove invece la presenza beur è massiccia.

Quando le due comunità entrano in contatto sui banchi di scuola si registra un fenomeno che aggrava la situazione d’insieme: il rendimento dei ragazzi francesi è mediamente superiore a quello dei compagni di origine straniera. Il confronto induce frustrazione nei secondi e senso di superiorità nei primi: due sentimenti simmetricamente esplosivi. È questa una situazione che si registra un po’ dappertutto nel mondo, e che in Gran Bretagna ha portato a una proposta ai limiti del paradosso. Si è infatti suggerito di dividere le scolaresche, di creare classi per soli bianchi, classi per soli neri. La proposta non è priva di motivazioni didattiche: è noto a tutti che il rendimento complessivo di un gruppo è tanto più alto quanto più il gruppo è compatto. Lo dimostrano fra l’altro le statistiche comparate internazionali Pisa, che vedono emergere nettamente le scuole dei paesi (Corea, Finlandia, Giappone) nei quali la società, e di conseguenza la scuola, è maggiormente omogenea.

I propugnatori delle classi monoetniche si prefiggono anche di prevenire le due parallele derive psicologiche, i complessi di inferiorità e superiorità. Ma questo non basta a giustificare una proposta non soltanto politicamente ma anche moralmente scorretta. Creare ghetti, introdurre l’apartheid educativo significa in pratica non risolvere il problema, ma restituirlo irrisolto alla società. Tocca invece proprio alla scuola sciogliere quel nodo: troppo comodo aspirare alla via maestra del gruppo compatto, l’istituzione educativa deve piuttosto misurarsi, nella società di oggi, con la sfida multiculturale, multietnica, multireligiosa. Deve discutere al suo interno, adeguare le didattiche all’eterogeneità dei soggetti, promuovere una convivenza serena non nascondendo il capo nella sabbia o con generiche enunciazioni di principio, ma facendo oggetto di studio e di confronto le grandi questioni all’origine del malessere: le differenze sociali, la povertà, la coesistenza delle fedi, le crisi internazionali. Altrimenti, è come se fossero passati invano gli anni che ci separano da quel piccolo africano che si vedeva affibbiare improbabili antenati gallici. 

 

                                                                                                                                                               Alfredo Venturi

 
 

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