FOGLIO LAPIS - APRILE 2004

 
 

Il caso di un asilo piemontese, dal quale una maestra musulmana è stata cacciata perché secondo alcuni genitori il suo velo poteva spaventare i bambini - Alla fine l'ha avuta vinta, ma soltanto in parte: potrà infatti insegnare, ma in un'altra scuola - E il caso di un istituto tecnico napoletano, dove nei corridoi dopo la rissa  a pugni sono spuntate le lame: un ragazzo ferito, cinque denunciati - Da una parte una intolleranza con venature razziste, dall'altra la violenza del bullismo

 

Che cosa c'è di spaventevole in un foulard che copre il collo della maestra e le fascia il collo? É quanto si domanda Fatima Mouayche, una donna originaria del Marocco che dopo avere seguito con successo un corso per educatrici della prima infanzia si è presentata per il tirocinio in un asilo nido di Samone, una piccola località nei pressi di Ivrea. Immediata la protesta di alcuni genitori: Fatima, che è di fede musulmana, si presenta in pubblico con il velo tradizionale. E quel velo, sentenziano i padri e le madri di Samone, potrebbe spaventare i bambini, o almeno farli sentire a disagio. I responsabili della scuola, un istituto privato, hanno preso atto di queste riserve e le hanno fatte proprie. E così Fatima si è vista negare il posto di tirocinante.

Non è finita qui, per fortuna. La maestra infatti si è data da fare per far valere i suoi diritti e si è rivolta all'amministrazione municipale di Ivrea. Sindaco e consiglio comunale le hanno dato ragione, con la sola eccezione dei rappresentanti leghisti, e mentre il caso esplodeva sulla stampa nazionale altra solidarietà le è venuta da Roma: dai ministri dell'Istruzione e dell'Interno, da esponenti dei partiti di opposizione di maggioranza, tranne la Lega Nord. Intervistata dai giornali, Fatima ha dato prova di pacata flessibilità: potrei anche togliermi il velo, ha detto, ma non mi sembra giusto. E poi, non lo portavano forse anche le vostre nonne? Spaventavano i bambini, le vostre nonne? Finalmente la maestra di origine marocchina è potuta entrare in classe: ma non nell'asilo nido di Samone, in un altro istituto a Ivrea.

Negli stessi giorni in cui un piccola frazione del Nord proponeva questa fiammata di intolleranza, in una grande città del Sud una rissa fra studenti nei corridoi di un istituto tecnico finiva a coltellate. Un ragazzo ferito, cinque compagni denunciati. É accaduto a Napoli, nell'istituto tecnico "Alessandro Volta". C'è stata prima una rissa a suon di pugni fra gruppi di ragazzi. Poi uno di questi, Massimiliano, quello che le aveva buscate di più, ha deciso la sua vendetta a freddo. Ha affrontato di nuovo il gruppo dei rivali, e stavolta è spuntato il coltello. Massimiliano ha colpito Giovanni, il ragazzo che a pugni lo aveva umiliato. Ecco Giovanni a terra in mezzo al suo sangue, l'ambulanza che lo porta via a sirene spiegate: fortunatamente non è grave, se la caverà in una decina di giorni.

Intanto la polizia cerca il responsabile. Nessuno sa o vuole dire chi è abbia vibrato il colpo. La presidenza dell'istituto fa notare che un ragazzo, subito dopo l'episodio, ha chiesto di potere rincasare per un improvviso malessere. Era proprio Massimiliano: gli agenti lo sono andati a cercare a casa e hanno rapidamente accertato la sua responsabilità. Assieme a lui, hanno denunciato altri quattro ragazzi coinvolti nella rissa. Intanto nella scuola si ricorda che non è stata una primizia: altre volte c'erano state risse e pestaggi, altre volte lo scintillio delle lame ha fatto compiere al diverbio un minaccioso salto di qualità. E non soltanto all'istituto tecnico "Volta", del resto, quanto è accaduto conferma una realtà fra le più inquietanti: non sono pochi i ragazzi che girano armati, per strada e a scuola. Persino alle elementari.

Lo fanno a volte, come rivela Anna La Rocca, coordinatrice a Napoli di un progetto di educazione alla legalità, per affermarsi come capi, per dare di sé un'immagine di forza e spregiudicatezza; altre volte perché sono attanagliati dalla paura, e con un coltello in tasca si sentono più sicuri. Non è un fenomeno soltanto italiano, del resto: da tempo il bullismo è considerato in molti paesi una delle manifestazioni più allarmanti del disagio minorile. Come venire a capo del problema? Con il dialogo, rispondono gli esperti, con l'applicazione di una tenace strategia destinata a farli ragionare, a smontare i loro miti fondati sull'arroganza e sulla legge del più forte. Ma non è facile, così come non è facile convincere certa gente che non sarà certo il capo velato di una maestra a mettere in pericolo i loro valori, e tanto meno a insidiare i loro figli.

Di fronte a questa duplice sfida, il bullismo anticamera della criminalità minorile e l'intolleranza preludio alla xenofobia, non sarà certo la Lapis a tirarsi indietro. Da sempre puntiamo infatti verso due obiettivi che consideriamo prioritari. Da una parte l'educazione alla legalità, basata sul rilancio nell'universo giovanile dell'immagine fin troppo sbiadita dello stato. Dall'altra l'offensiva contro i pregiudizi a carico dei "diversi", siano essi ragazzi disabili o alunni (e insegnanti, come nel caso di Fatima) stranieri: nella prospettiva di una scuola radicata nei valori della solidarietà. Un miraggio? No, una necessità, tanto più evidente se si pensa all'evoluzione, in corso nella nostra struttura sociale, verso un inarrestabile pluralismo di culture

 

                                                                                  a.v.

 

 

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