Dare la parola a tutti

Ciò che impedisce ai disabili di comunicare e di apprendere è una varietà estrema di impedimenti: ognuno di loro è un caso a se stante – E’ dunque necessaria una programmazione personale dei rimedi – Di qui le possibilità offerte dalle tecnologie più avanzate – L’esempio di uno specialista svizzero inventore di macchine destinate a restituire l’autonomia perduta, permettendo ai disabili di sentirsi “un po’ meno diversi” dai loro compagni più fortunati

 

Leggo su Azione, settimanale di Lugano, che nel Canton Ticino ci sono 170 disabili in età scolastica, lo 0.5 per cento della popolazione che frequenta le scuole. Leggo ancora che in Svizzera, esattamente come in Italia, i gruppi che non fanno numero subiscono quella certa legge della democrazia rappresentativa che li vuole privi di voce, o almeno dotati di una voce assai poco percepibile. Se non fosse così fuori moda parafrasare Stalin (“quante divisioni ha il papa?”) ci si potrebbe chiedere: “quanti voti portano i disabili?” Certamente pochi: tanto pochi che una lobby che li rappresenti sarebbe davvero impensabile. Ma per fortuna ci sono persone, in Svizzera e in Italia, che usano metri diversi per misurare i fenomeni sociali. Come Gabriele Scascighini, che insegna pedagogia informatica all’università di Friburgo e alla Cattolica di Milano, mentre dirige a Lugano la scuola speciale cantonale. Al disinteresse ufficiale, sia pure ammantato di buone parole, per le sorti di coloro che non possono disporre di normali risorse fisiche e si trovano dunque gravemente svantaggiati nella vita e nella scuola, il professore contrappone la buona volontà dei privati. Ecco sorgere per sua iniziativa una Fondazione per la promozione della persona disabile, che a sua volta esprime un Centro informatica disabilità. Eccolo alle prese con i singoli casi, eccolo progettare le sue macchine impossibili, afferrare il minimo appiglio offerto dalla natura, la possibilità di un movimento, di un soffio, per immaginare una soluzione ancorata alle tecnologie più aggiornate. Eccolo trasformare la persona-isola in un soggetto in grado di comunicare informazioni, percezioni, sentimenti, in un individuo capace di apprendere e di giocare, in una parola di vivere. Eccolo registrare con meritatissima soddisfazione “le gratificazioni che vengono dai bambini, dalla profonda riconoscenza espressa con un sorriso, dalla felicità di essere riusciti a dire, a fare, a farsi capire”. Ricorda Scascighini che i prodigi dell’informatica possono applicarsi non soltanto ai portatori di handicap congeniti, ma anche a coloro che vivono la disabilità come conseguenza di malattia, o di incidente. Viene in mente un caso illustre, quello di Stephen Hawking, il cosmologo inglese che una grave malattia neurologica condannò alla paralisi e al mutismo. Pareva perduto, alla vita e alla scienza, ma la macchina fece il miracolo: con la possibilità di premere un paio di tasti, dalla sua sedia a rotelle Hawking ha potuto continuare a fissare l’universo, a studiarne i grandiosi meccanismi. A svolgere una intensa attività di ricerca e pubblicarne i risultati, a garantirsi un posto di rilievo fra i maestri del pensiero scientifico in questo scorcio di millennio. Ora la domanda è questa: vogliamo negare al piccolo disabile quello che fu concesso allo scienziato illustre? La vicenda personale di Hawking e la quotidiana battaglia del professore ticinese dimostrano che in presenza della vita, qualunque ne sia la qualità fisiologica, la capacità di comunicare può essere sempre recuperata. Così come non c’è barriera architettonica che non possa essere demolita: solo che lo si voglia. Il punto è proprio questo: lo si vuole o no? Prendiamo il caso degli scolari portatori di handicap, che la giusta aspirazione a non separarli dal resto del mondo ha inserito nelle classi normali. Sono spesso in difficoltà, e la loro difficoltà può essere ridotta da macchine programmate sui singoli. Si tratta di soluzioni costose e i bilanci pubblici languono. Ci sono disabili che dovrebbero frequentare la scuola ma ne sono di fatto impediti? Triste, ma non altereranno più di tanto le cifre sulla dispersione… Certo non è questo il modo ufficiale di pensare. Ma quello pratico, temiamo di sì. E allora bisogna dire le cose come stanno: così come la profondità di una democrazia si misura dal trattamento delle minoranze, la qualità di una organizzazione sociale si può valutare andando a vedere come quella società si occupa dei disabili, in particolare dei piccoli disabili. Bisogna anche dire che c’è un solo modo di occuparsene: riducendo la limitazione della loro autonomia personale al minimo consentito dallo stato della tecnica. E’ una sfida civile che non si può ignorare: non aggiungiamo allo schiaffo della sorte quello del disinteresse. Cerchiamo di dare la parola a tutti, anche a chi non fa numero.

 

                                                                                                Alfredo Venturi

 

Per i piccoli kosovari

Potevamo forse rimanere indifferenti di fronte a una tragedia, come quella dei Balcani, che coinvolge migliaia di bambini? D’intesa con il Centro per lo sviluppo creativo “Danilo Dolci”, la Lapis si è fatta promotrice dell’invio nel campo-profughi di Bari-Palese di gruppi di animatori destinati a intrattenere i bambini. A supporto dell’iniziativa, parte per il campo una ludoteca raccolta nella città di Arezzo, sede nazionale della Lapis. Chiunque, magari con esperienza di teatro o di arte di strada, o anche solo con il supporto della buona volontà, intenda partecipare ai programmi di animazione è pregato di contattarci.

Vi aspettiamo

 

                                                                                                Marilena Farruggia Venturi
                                                                                                presidente della Lapis

 

Fare scuola a Lampedusa

La testimonianza di Salvatore Barbera, preside dell’istituto comprensivo che nell’isola ospita novecento allievi fra materna, elementare e media – Il problema dei collegamenti e quello degli sbocchi: che fare dopo la media? Non tutti possono mandare i figli alle superiori in Sicilia – E come fare con l’anno di obbligo in più?

Novecento allievi divisi fra le classi della scuola materna, dell’elementare e della media, più un corso per studenti lavoratori. E’ davvero una scuola particolare l’istituto comprensivo del preside Salvatore Barbera. Si trova infatti nell’isola di Lampedusa, provincia di Agrigento, un’estrema propaggine dell’Italia sullo zoccolo continentale africano, con una sezione staccata a Linosa, l’altra delle due isole principali del piccolo arcipelago delle Pelagie.

Problemi? Abbiamo – dice Barbera – i problemi di tutte le scuole d’Italia, a cominciare dalla dispersione scolastica, che qui è per così dire un fatto di cultura, discende cioè da un certo atteggiamento di certi isolani nei confronti della scuola. Bisogna considerare che a Lampedusa ci sono alcune famiglie non agiate, e alcune con numerosissimi figli, fino a sette, otto o nove in età di obbligo scolastico”.

Che cosa fate per combattere la dispersione?

“Ci siamo dati da fare, recuperando fra il 70 e l’80 per cento dei casi attraverso l’attività di un gruppo denominato ‘disco’ (dispersione scolastica), che ha contattato personalmente le famiglie convincendone la maggior parte a mandare i bambini a scuola. Abbiamo cominciato dalla materna, anche se non c’è obbligo a quel livello di età, per cominciare a scolarizzarli il più presto possibile. Così, incrociando i nostri dati con quelli anagrafici forniti dal comune, abbiamo rintracciato tutti i dispersi: erano una ventina su 700 in età di obbligo e ne abbiamo recuperati 18. gli altri due, ho dovuto denunciarli all’autorità competente”.

Ma che facevano quei bambini prima di essere portati a scuola?

“Stavano in mezzo alla strada, o in casa, facevano parte di famiglie numerosissime, con i genitori che non avevano il tempo materiale di vestirli, né di accompagnarli a scuola”.

Immagino che la collocazione, diciamo così, marginale della sua scuola incida sul rapporto con le autorità provinciali e nazionali. Pensa che le nuove norme sull’autonomia possano applicarsi positivamente al suo caso?

“L’autonomia è una bellissima cosa se funziona: ma non basta se non è accompagnata dall’autonomia finanziaria. Vede, noi abbiamo difficoltà immense per i collegamenti, noi siamo a 180 chilometri da Tunisi, siamo in piena Africa. Dunque difficoltà di collegamenti con la Sicilia, con il provveditore, con il ministero. Io sto cercando di collegarmi via Internet per avere le circolari, sto mettendo in subbuglio la scuola proprio per agganciare il mio istituto a quella che dovrebbe essere la normalità. Poi ci sono difficoltà di carattere igienico-sanitario”.

Come si possono sormontare queste difficoltà?

“Stiamo facendo alcune ipotesi per creare delle strutture, anche perché a Lampedusa la scuola rappresenta l’unico centro aggregante della comunità, e noi la pensiamo come scuola aperta. L’autonomia ci porterebbe a risolvere nella scuola la mancanza di cinema, di centri ricreativi, di strutture in cui i ragazzi possano ritrovarsi: ma se ci negano la possibilità di avere un minimo di bilancio, allora l’autonomia è solo sulla carta. Che cosa possiamo fare se ci impediscono di superare il 104 per cento il bilancio consuntivo del ’97?”

Non potete pensare a progetti che si possano inserire per esempio nei piani dell’Unione Europea?

“Di progetti ne abbiamo una ventina approvati dagli organi collegiali dell’istituto. Mi sto movendo per avere finanziamenti dal Comune, dal Provveditorato, dalla Regione, ma fino ad oggi ne ho visto approvato uno solo, quello appunto sull’autonomia. C’è anche un altro problema. Vede, qui il gruppo docente è sempre di passaggio, io non ho un gruppo stabile, di ruolo, con cui poter lavorare su progetti a lunga scadenza. Qui praticamente sono tutti incaricati annuali. Nella scuola media, per esempio, ho due soli titolari. All’elementare la situazione è migliore perché l’ottanta per cento è titolare e residente a Lampedusa. Alla media lei capisce che devo lavorare con dei supplenti che non vedono l’ora di andarsene, e il loro interesse ai progetti è sempre relativo”.

Anche perché immagino che siano tutti novellini…

“Sono spesso addirittura al primo anno d’insegnamento. Ho avuto grandi difficoltà, per esempio per far partire l’informatica, questo argomento dell’informatizzazione era completamente sconosciuto. Ora siamo riusciti a realizzare un’aula di informatica e abbiamo un altro computer alla scuola elementare. Uno lo abbiamo in presidenza e lo mettiamo a disposizione di chi lo voglia usare”.

Lampedusa è uno degli approdi dell’immigrazione clandestina. Come si ripercuote questo fenomeno sull’attività scolastica? Ci sono reazioni di insofferenza, di rigetto, o al contrario iniziative di solidarietà?

“Guardi, il problema qui è sentito in modo molto marginale, perché quelli che sbarcano a Lampedusa vengono poi trasferiti, per cui i residenti non vivono questo problema. Nel periodo scolastico, il numero di stranieri che si vede in giro è irrisorio. A scuola abbiamo alcuni stranieri, ma sono figli di inglesi o francesi della base aerea che c’è sull’isola. Di extracomunitari ne abbiamo soltanto un paio, di famiglie regolarmente residenti, e del resto perfettamente inseriti fra i compagni”.

Come passano le loro giornate, al di fuori dell’orario scolastico, i ragazzi di Lampedusa?

“Sull’isola le attrezzature sportive sono quasi inesistenti, a parte alcune palestre private. Per fortuna qui l’estate comincia presto, in aprile si cominciano a fare i bagni, i ragazzi stanno all’aperto, fanno passeggiate, vanno in bicicletta. Di pomeriggio noi facciamo dei corsi di recupero per alcuni bisognosi di altri interventi didattici. Sono corsi gratuiti, li facciamo per evitare che quei bambini siano costretti a ricorrere alla ripetizione privata a pagamento. Attività culturali non ce ne sono. Noi stiamo pensando di istituire un corso per la ceramica. Vede quest’isola vive esclusivamente di pesca e di turismo, dunque gli sbocchi professionali sono collegati a queste due attività. Ci vorrebbe una sezione staccata di un istituto alberghiero, oppure di un istituto industriale che formi dei macchinisti per i motori delle barche. Sa, non tutti hanno la possibilità di mandare i figli nelle scuole di Agrigento o di Sciacca”.

Dunque quali sono le scelte dopo la scuola media?

“Solo il 10-12 per cento va alle superiori. La stragrande maggioranza rinuncia perché i genitori non possono mantenerli nelle scuole in Sicilia. Se questo si chiama dispersione io non lo so, da questo punto di vista sono impotente. Lo stesso innalzamento dell’obbligo scolastico crea problemi non indifferenti. Come posso dire a un genitore: lei adesso deve mandare suo figlio per un anno in un istituto superiore. Nell’isola non ci sono istituti superiori”.

Avete anche un problema di dispersione silenziosa. Ragazzi che frequentano passivamente fino al raggiungimento dell’età in cui finisce l’obbligo?

“Certo che l’abbiamo, venti o trenta casi. Ci creano problemi di difficilissima soluzione perché il nostro organico ridotto all’osso non ci permette di affrontarli adeguatamente”.

Che rapporto intrattiene la sua scuola con i genitori?

“Le famiglie sono generalmente interessate alla scuola, desiderano che funzioni bene, che i ragazzi la frequentino, ma la collaborazione che possono dare all’istituto è evidentemente proporzionale alle loro condizioni socio-culturali. Un pescatore che ha nove figli, e se va la mattina a pescare, lei capisce che non può dare alla scuola un grande contributo. I professionisti, gli impiegati, danno una partecipazione più attiva. Di cui c’è davvero bisogno, in una scuola afflitta dalla mancanza delle risorse finanziarie, delle risorse umane e delle risorse strutturali”.

C’è tossicodipendenza, microcriminalità nell’isola?

“Tossicodipendenza no, almeno nell’età dell’obbligo se non qualche sporadico caso emulativo. Quanto alla microcriminalità, direi che al massimo si può parlare di vandalismi. Rompere una pianta, rompere un vetro, imprese considerate come giochi. Noi cerchiamo di fare qualcosa, ma non è facile. Per esempio un bambino, al quale avevo chiesto perché mai buttasse la carta per terra, mi ha risposto: e dove la metto? Perché non c’erano i cestini, ho dovuto lottare con il comune perché ne installassero cinque”.

 

La conquista della Quinta C

 

Nella letteratura e nel cinema la scuola ha un ruolo prevalentemente folcloristico – O magari propagandistico, come è il caso del celeberrimo Cuore – Ma non manca la denuncia, in Italia come in Australia

Una volta era di rigore in ogni antologia di scuola media. Il racconto autobiografico di Giovanni Mosca (Ricordi di scuola) conteneva un episodio di grande efficacia narrativa. Ecco il giovane maestro elementare, in una scuola di tanti anni fa, alle prese con la sua prima supplenza. E’ una prova da far tremare le vene e i polsi: gli hanno infatti affibbiato la mitica V C, una classe letteralmente ingovernabile, che ha già avuto ragione di insegnanti ben più sperimentati di lui. Il maestro Mosca entra in aula e osserva quei diavoli scatenati ai quali non par vero di dare una lezione ai pivellino salito in cattedra. Finalmente il lampo di genio. C’è un moscone che ronza rumoroso nell’aula e Mosca ricorda che a suo tempo ci sapeva fare, con la fionda. Si fa consegnare l’arma da un ragazzino che ora lo fissa con aria di sfida. Tende l’elastico, prende la mira. Sa che tutto dipende da quel colpo, la classe ammutolita segue l’evento. Scatta la fionda, l’insetto cade stecchito, la V C è conquistata. La scuola dei Ricordi di Mosca è tutt’altra cosa rispetto a quella di Cuore, la celeberrima e celebratissima opera di Edmondo De Amicis. Ve la immaginate la maestria dalla penna rossa che affronta un moscone a colpi di fionda? Qui, nella scuola sabauda simbolo di un’Italia austera e poco “prussiana”, il problema di affermare l’autorità dell’insegnante non si pone nemmeno: persino Franti la riconosce, il terribile Franti cui tocca di impersonare ogni possibile modello negativo. Il libro di De Amicis ha funzionato per anni come manifesto propagandistico, come strumento di trasmissione da un lato dei valori risorgimentali assunti come base di una identità nazionale ancora tutta da costruire, dall’altro dei valori civici di fedeltà alle istituzioni, disciplina, obbedienza. Verrà più tardi il fascismo e di tutti questi valori sarà fatta la caricatura: con tanto di scolari in camicia nera e patetici moschetti di legno. Bisognerà aspettare gli anni Sessanta perché veda finalmente la luce il testo che più di ogni altro ha posto in discussione il sistema scolastico italiano. La Lettera a una professoressa di Don Lorenzo Dilani, nonostante la sordità iniziale con cui fu accolta, è un’opera che ha fatto epoca, fino a approdare di recente a una versione cinematografica lanciata dagli schermi televisivi. Dilani non indulge a velleità letterarie, la sua è una lucida denuncia della scuola che sancisce e perpetua le differenze sociali, che si sbarazza bocciandoli di coloro che pretendono di sovrapporre alla cultura ufficiale il loro patrimonio di esperienza familiare e locale, che istituisce una barriera fra i gruppi sociali invece di amalgamarli attraverso la ricchezza dello scambio. Ma questo libro denso e esemplare esula dal tema che stiamo trattando, che riguarda l’immagine della scuola non già nell’analisi saggistica ma nel romanzo di parole o di immagini. Ci vorrà un maestro napoletano, Marcello D’Orta, perché la narrativa dedicata alla scuola ne accomuni la tradizionale valenza folcloristica al ruolo problematico che ha nella realtà. Il suo libro, Io speriamo che me la cavo, è assai controverso fra gli addetti ai lavori, ma non c’è dubbio che un merito gli va riconosciuto: quello di avere finalmente rappresentato la scuola di un’area urbana degradata quale essa effettivamente è. Nell’opera di D’Orta, e nel film che ne è stato tratto, abbiamo finalmente la scuola del disagio e della dispersione, degli alunni-lavoratori che si addormentano sul banco o dei piccoli camerieri che il maestro deve andare a raccattare nei bar dove servono il caffè, locali affollati di clienti che il sopruso di cui sono complici semplicemente preferiscono ignorare. Scuola italiana carica di problemi, come ben sappiamo. Ma anche all’estero gli autori letterari e cinematografici che chiamano in causa l’istituzione educativa affrontano spesso con toni fortemente critici una realtà lungi dall’essere ideale. Basti pensare al film recentemente scritto da Tom Schulman per il regista australiano Peter Weir, Dead Poets’ Society, distribuito in Italia con il titolo L’attimo fuggente. Vi si parla di un insegnante che cerca di abituare i ragazzi a pensare con la loro testa, a uscire dalle strettoie manualistiche e dai lacci di una disciplina ottusa, a percorrere da soli i fascinosi territori della poesia. Il maestro bene intenzionato scatena una furibonda reazione dei tradizionalisti benpensanti, che finisce con il trasformare in tragedia quel tentativo di umanizzazione della scuola. A conferma che continuiamo a vivere tempi duri per l’approccio maieutico, da Socrate in poi…

 

a.v.

 

Per chi suona il campanello

La scuola, sostiene Mario Nasone responsabile del Centro Agape di Reggio Calabria, dovrebbe interessarsi di più a quello che succede oltre l’orario delle lezioni – Attenzione al Sud nella riforma dell’istruzione – D’accordo sulle virtù manageriali, purché l’efficienza non sacrifichi le priorità sociali

Una scuola di manager al posto della scuola dei provveditori? Suscita molto interesse e fa molto discutere l’ipotesi avanzata in una recente intervista al Corriere della Sera dal ministro della PI Luigi Berlinguer. Secondo Mario Nasone, responsabile a Reggio Calabria del Centro comunitario Agape, il rischio è da una parte la riduzione del discorso al solo criterio efficientistico, dall’altra esiti disastrosi come quelli registrati, in presenza di un’analoga ottica riformatrice, nell’organizzazione sanitaria. “Sono d’accordo che non ci devono essere sprechi, ma accanto al bilancio economico bisogna considerare il bilancio sociale”. Nasone enuncia un’altra ragione di perplessità: “ma non era la figura del preside quella sulla quale si voleva investire? Il discorso del provveditore è una cosa nuova, almeno per me”.

In un suo contributo al primo numero del Foglio Lapis, quasi un anno fa, lei lamentava l’immobilismo, la mancanza di iniziative. Ora sembra che qualcosa si muova…

“Sì, vedo che c’è, diciamo, la voglia di lanciare la scuola, l’ultimo contratto mi sembra buono, giusti gli incentivi al merito. Ma c’è un problema, secondo me: bisogna stare attenti al discorso del Sud. Qui nel Sud abbiamo una situazione di grande debolezza. Non vorrei che certe leggi venissero fatte senza tener conto del fatto che i vestiti poi devono essere indossati. Penso all’edilizia scolastica. Quando venne qui Berlinguer un ragazzino della Piana lo fece sedere al suo banco, da dove non si vedeva la lavagna. Abbiamo strutture affittate, locali fatiscenti: insomma il Sud ha bisogno di maggiore investimento non solo sulle persone ma anche sulle strutture”.

E la burocratizzazione dei provveditorati?

“Una buona cosa. Almeno da noi il provveditorato è sempre stato un luogo di malaffare: imbrogli, corruttele, nessun provveditore ha avuto vita facile qui, sono andati via quasi tutti con l’eco degli scandali, perché ci sono molti interessi in gioco. D’altra parte bisogna considerare non solo il ruolo del provveditore in sé, ma anche in rapporto alla riforma nel suo insieme. In definitiva, io parlo non da esperto, sono un operatore sociale e un genitore dunque un utente della scuola: posso comunque dire che la buona volontà c’è, vedo un risveglio di progettualità, il ministro cerca un adeguamento scolastico all’Europa, persegue obiettivi importanti. Per esempio elevare l’età dell’obbligo: perché in determinate aree come la nostra mettere un ragazzino sulla strada a 14 anni significa esporlo a rischi devastanti. Però ci vuole un progetto complessivo di supporto perché le cifre parlano chiaro: negli istituti minorili, nei centri d’accoglienza, nelle carceri la maggior parte sono ragazzi che non hanno completato l’obbligo, molti nemmeno le elementari. Questo vuol dire che la scuola esclude i più deboli. Altro discorso importante quello delle sedi soppresse. Si chiude una scuola che ha solo cinquanta bambini in nome dell’efficienza, d’accordo: ma per molti di loro questo significa istruzione negata, perché magari la scuola più vicina è a venti chilometri e non ci sono servizi di trasporto”.

E l’autonomia scolastica, che giudizio se ne può dare?

“L’idea è buona, ma dev’essere contestuale rispetto ad altre esigenze, prima di tutto quella finanziaria, quella delle strutture adeguate. Se tu dai autonomia a una scuola che sta magari in locali fatiscenti o privi di impianti di riscaldamento, perché da noi non è previsto che possa fare freddo e così capita che ci sono genitori che tengono a casa i bambini una o due settimane perché in classe si gela. Ci sono istituti scientifici senza laboratori attrezzati… Ci sono scuole in comuni privi di assistenti sociali: se un insegnante ha un ragazzo difficile a chi deve rivolgersi? Poi c’è il problema del tempo libero, parzialmente risolto soltanto dove c’è qualche parrocchia che funziona. Le strutture sportive sono pochissime: e pensa che abbiamo tanti ragazzi con il padre in carcere, o magari senza madre: dopo l’orario di scuola sono completamente abbandonati a se stessi. Alcuni comuni cercano di fare qualcosa, ma i finanziamenti dei centri sociali sono a termine, e poi mancano i fondi e quindi bisogna chiudere. L’autonomia prevede che si possano attrezzare le scuole per aprirle anche di pomeriggio e funzionare così da centri di aggregazione, ma se non ci sono i soldi per pagare il bidello che deve aprire la scuola il discorso rimane velleitario. Da noi l’autonomia è importante perché servirà a far partire la progettualità dal basso: il Su non è abituato a progettare, soltanto a chiedere senza proporre un progetto completo. Ma poi ci vuole un sostegno alle idee che salgono dal basso. In materia di sezioni soppresse, di trasporti, di refezione…”

Trasporti e refezione gratuiti, o devono pagarseli i genitori?

“Sarebbe un problema serio, qui da noi. Vede, in Calabria abbiamo due famiglie su cinque sotto la soglia della povertà. Quante volte mi sono sentito dire: io ho lasciato la scuola alla quinta elementare perché non avevamo possibilità economiche, perché mio padre era in carcere, dunque sono dovuto andare a lavorare nei campi, oppure emigrare, oppure… Bisogna anche considerare che la scuola è inadeguata rispetto a certi bisogni formativi di ragazzi che crescono in contesti mafiosi. Educare da queste parti non è come educare a Trento o a Bolzano, ci vuole un progetto educativo adeguato a questa realtà. Se un ragazzino che cresce in un contesto di mafia non trova a scuola un’aria nuova da respirare, è finita, capisce?”.

Come si potrebbe immaginare la scuola dell’obbligo ideale?

“Per me dovrebbe essere soprattutto un luogo di partecipazione, di democrazia, e anche un luogo in cui i ragazzi stiano bene, siano felici, perché la scuola diventa pesante quando la si vive con disagio. Diventa pesante perché il ragazzo si porta dietro le fatiche della sua famiglia, mentre proprio a scuola dovrebbe spogliarsene per essere visto nella sua originalità, nella sua soggettività. La scuola ideale è attenta al singolo, non massificante, è ricca di animazione e di stimoli, di insegnanti motivati e competenti, che non arrivino in classe, come a volte succede, già stanchi dopo lunghi viaggi da pendolari. La scuola ideale è Barbina: però Don Dilani era un educatore che viveva con i ragazzi…”.

Vorrei ora qualche informazione sull’attività del Centro Agape.

“Stiamo rilanciando la figura del tutore per i minori, che va anche questa burocratizzata e resa più attiva e presente. E’ essenziale per i tanti ragazzi che vivono in istituto, senza nessuno che li rappresenti e li difenda. Un’altra questione che vogliamo lanciare è quella dell’affido diurno, una forma di affido più leggera che dia sostegno scolastico, ma anche sociale, a famiglie in difficoltà, per esempio ragazze madri che devono lavorare. Accanto a una famiglia in difficoltà ce n’è un’altra che tiene il bambino alcune ore al giorno, gli fa il doposcuola, li segue nei compiti. Credo che la scuola dovrebbe occuparsi un poco più di quello che succede dopo che è suonato il campanello dell’una”.  

                                                                                               

Il panciullo

Una creatura con cui sarebbe auspicabile fare amiciccia prima che finisca in qualche inferneria non proprio raccomandabile – Ecco come una quartina costruita per gioco può addirittura produrre una morale

“Sono le nove. Sta nevicando di giovedì 18 marzo. Sono le nove cose? O le vecchie maliarde? Più che fiocchi, oggi questi di neve, sono coriandoli di mandorlo pruno e biancospino. Fiocchi del fiore. Pare che la casa davanti, in via Aurelio Saffi, stia ferma infreddolita dietro una siepe di fiori bianchi agitati bene prima dell’uso. Il verde delle persiane è quello delle primavere precedenti, mentre il biancospino appartiene alla primavera che arriva. Il mandorlo pruno ha le radici parcheggiate in piazza della Fioraia ed è rimosso dal vento. In vita mia, non avevo mai visto un mandorlo pruno e biancospino con tanto movimento: coi fiori così trafficati!”… Sto vaneggiando? O sto pigionando la Fantasia come farebbe un panciullo? Stando nella pancia, al calduccio, in questa cosuccia d’in cima via de Pecori d’Arezzo, che è la stessa via che Benigni fa in bicicletta all’insù ne “La via è bella”? L’altra via, donde sta la casa di fronte dietro al biancospino in agitazione, si chiama via Aurelio Saffi. E’ la stessa via in fondo alla quale Benigni cade di bicicletta e resta “di burattino”, come senz’ossa, di cencio, posato ai piedi dell’ultima casa, che resta di sasso… Perché “la via è bella”. E questo sì, sarebbe stato un bel film! Ora sono le dieci. E’ tornato un po’ di sole: una “spera di sole”. E comincia la Sicilia sul set… “Ciac! Si gira!”. E’ la nostra Cecilia, al di là dello Stretto necessario. La cecilia ha conosciuto il panciullo, suo fratello Giovanni, mentre lui cresceva in pancia alla mamma. L’ha sentito dal fetore, da quando era un feto… da subito. Disse: “Ho fatto amiciccia con un panciullo”. Per lei, Giovanni ora esiste quando la neve nel biancospino… proprio perché era stato un  panciullo. I  giuristi della nuova nazione dovranno tener conto di questa parola che non s’era mai sentita, perché non porta più il fetore d’una cosa innominevole. Durante le scorse primavere, c’è stata una vera strage di panciulli, che venivano sterminati come le foche. Ora basta!… Attenti, perché i panciulli hanno lo stesso diritto alla vita dei fanciulli, dal primo istante fetale! L’esempio con lo sterminio dei cuccioli di foca, è il più calzante che mi viene da dire mentre nevica di nuovo. Si sono ritrovati panciulli nelle situazioni più orribili: dalle latrine alle discariche, lungo tutte le spiagge della cattività umana. La Fantastica di Cecilia è iniziata con il panciullo, facendoci amiciccia… Che parola straordinaria! E’ la più bella che la Fantasia possa suggerire. E può suggerirci l’unico modo di fare Fantastica. Che poi è lo stesso modo praticato da Pinocchio, che era di legno, quando doveva apparire di ciccia. L’ amiciccia è una parola profonda: è l’amicizia fatta con la ciccia; l’incarnazione del verbo in Toscana. L’altro giorno, quando padre Fulvio e la mamma hanno portato Giovanni in infermeria per ragioni di salute, la Cecilia ha chiamato quel posto “infermeria”… Proprio così! Cos’è l’inferneria? Proviamo a considerare questo luogo della Fantasia come un nuovo lemma da introdurre in un dizionario di lingua amicicciana. Infermeria, s. f. – 1.In ospedali, collegi, prigioni, conventi, navi, aeroporti, ecc., locale o insieme di locali adibiti alla visita delle panciulle e alla soppressione dei panciulli. – 2. Infermità: “cominciò una grandissima infermità di panciulli” (Boccaccio, Dec. g. X n. 9). Deriv. Di inferno…Siamo a l’inferno perché è ancora inverno e fa un freddo bussone?… Eppure, il Paradiso terrestre è lì! a portata di fiocco, azzurro o rosa. Una volta fatta vera amiciccia con un panciullo, quando poi si ha sotto gli occhi, che ci si parla veramente, si può dire: “Melo mangerei!”… Questo è il melo autentico, quello vero, che sta al centro del Paradiso terrestre… E’ più al vero panciullo o panciulla? Paiono un’identica cos. Ma non vanno confusi. Sono due significati distinti dello stesso significante? Il Manzoni, quando vide muoversi il panciullo nella panciulla, non seppe farci amiciccia. Se dico “panciulla”, vedo una pancia gonfia sotto una cannuccia come anticamente, e non so bene se è gonfia per la ciccia o per i panni. La Fantastica m’insegna che si comprensione per compenetrazione di una parola nell’altra. Però la panciulla non è il contenitore (vas spiritualis) del panciullo: è molto di più!… Cos’è? cos’è?… Per ora, vi posso solo mostrare la foto di un panciullo rimasto tale. Eccola qua. Generalmente, la gente non fa amiciccia con i panciulli. Nessuno dice mai: “Melo mangerei!”… E tutto il resto del mondo è da ridere!…

Ho conosciuto un tale

un tale di Arezzo

che mangiava sua nonna

e provava ribrezzo…

Diceva Gianni Rodari: “Un modo di cominciare poesie per ridere, da me sperimentato sempre con successo, è il seguente. Attacca uno e dice: “Ho conosciuto un tale”. Il secondo prosegue, nominando le origini geografiche del personaggio: “Un tale di Spilamberto”. Il terzo deve riassumere in due versi la caratteristica principale del personaggio. Per esempio: “Che dormiva con un occhio chiuso e con l’altro aperto”. Ecco la quartina completa:

Ho conosciuto un tale

un tale di Spilamberto

che dormiva con un occhio chiuso

e quell’altro aperto.

Per continuare, basta domandarsi perché quel tale abbia contratto la curiosa abitudine. Per timore dei ladri? Per sorvegliare il suo tesoro? O la moglie? O per non cessare di leggere trattati di patafisica nemmeno durante il sonno? Il seguito, insomma, non è che lo sviluppo logico della proposizione iniziale. Nell’insieme, l’invenzione ha pressappoco la forma del limerick inglese, ma con un più ampio respiro narrativo. L’interesse dei presenti è di solito stimolato dalla scelta di nomi di località vicine; o di nomi curiosi: Bagnacavallo, Massalombarda, Canicattì… Esempio:

Ho conosciuto un tale

un tale di Bagnacavallo

che mangiava gli spaghetti

a passo di ballo…

Qualche volta, indipendentemente dalle intenzioni degli inventori, queste storie riescono perfino a produrre una morale”. Ci dev’essere un mandorlo con le teste fra le nuvole!    

 

                                                                                                Filippo Nibbi

                                                                                                (6- continua)

 

Tutte quelle domande senza risposta

Prigioniera della sua tradizione, la scuola reprime la curiosità naturale imponendo la cultura del manuale, cioè una serie di risposte preconfezionate – Ma istruire non significa riempire un sacco vuoto – Il prof. Antonino Mangano individua nell’insegnare ad apprendere il senso profondo di una didattica efficace – Va dunque superata una trasmissione del sapere essenzialmente fondata sul contatto generazionale e sulle direttive del Centro

Proseguiamo la pubblicazione delle relazioni svolte al convegno di studi sul tema L’evasione scolastica, una sfida per la società, organizzato ad Arezzo il 25 e 26 ottobre 1997. In questo numero la parte conclusiva dell’intervento del prof. Antonino Mangano, all’epoca direttore dell’istituto di pedagogia dell’università di Messina

Io sostengo che l’insegnare sia, prima di tutto, insegnare ad apprendere, fare in modo che i ragazzi e le ragazze apprendano ad apprendere. Ritengo che proprio in questo sia da ravvisare l’autenticità dell’apprendimento: l’apprendere senza dimenticare, l’apprendere e capire. Ciò significa pure che ragazzi e ragazze per apprendere devono partecipare, devono trasformare l’apprendimento in ricerca: ricerca del senso, impegno per capire. Anche i metodi di “insegnamento” possono erroneamente prescindere dal contesto vitale, biologico. Il progresso dell’istruzione si sposta quindi sui problemi metodologici generali. C’è tutta una ricerca – che comincia da Socrate se vogliamo (allorché egli parla di maieutica), procede nel Medioevo fino a tutta l’epoca moderna – per cui si chiarisce che l’apprendimento è condizionato al soggetto che apprende. Il soggetto deve partecipare nella costruzione dell’apprendimento, che è impegno per la costruzione del senso, impegno per capire. C’è una interazione fra il docente e il discente, allorché entrambi sono impegnati in un processo di ricerca comune. Il docente non può insegnare ad apprendere se egli stesso non conosce il metodo di ricerca, se la sua personalità è “chiusa”, incapace di autoapprendimento permanente. Si è detto da parte di chi mi ha preceduto a questa tribuna che noi abbiamo bisogno di scuole per tutta la vita e per il tempo libero. Bene, abbiamo bisogno di scuole, ma prima di tutto abbiamo bisogno di capacità di autoapprendimento, e fra l’altro l’impulso ad apprendere, il bisogno di apprendere, il senso costante dell’incompiutezza, è insito in tutti noi. Il bambino quando nasce e comincia a giocare con le cose, esprime in quel gioco il bisogno di conoscere la realtà. Il gioco non è altro, a mio avviso – forse non lo abbiamo sufficientemente capito, non lo abbiamo neanche scientificamente studiato – che l’importanza (biologica) di entrare in rapporto con la realtà e di conoscerla, per regolarvisi. E c’è un metodo in questo gioco del bambino, il metodo per prove ed errori. La natura (l’evoluzione) ha dotato l’essere umano di questo bisogno geneticamente codificato, che inizialmente si esprime appunto nel gioco, attraverso un metodo. Ma c’è ancora dell’altro: il bambino, come la bambina, ha fame di cultura, fame di sapere e vuole entrare in rapporto non solo col mondo fisico e della natura, ma anche col mondo culturale. Fa delle domande, il bambino! Devo dire chiaramente, nei riguardi di me stesso, che quando sono nati i miei figli e ho dovuto pensare ad istruirli e farli istruire, ho sottovalutato l’importanza di quell’interrogazione pressante che loro rivolgono alle cose e alle persone. E’ per questo che qui ne parlo! Avevo tanto da fare, ero molto impegnato, ma nel fondo c’era una incomprensione profonda del loro bisogno di base: incomprensione che fa parte della coscienza collettiva, storicamente consolidata. Dopo continue frustrazioni, come succede complessivamente sul piano biologico (pure nell’animale, com’è noto), i bambini si scoraggiano e smettono di chiedere. Ritengo che ciò accada a molti genitori, che hanno tante cose da fare e scoraggiano le domande dei bambini. Sono divenuto nonno. Un bambino, a tre mesi di vita, è divenuto orfano di madre ed io sono divenuto nonno e padre nello stesso tempo; mia moglie è divenuta nonna e madre, perché abbiamo preso noi, dall’incubatrice, quel bambino. Questa volta ho cercato di subordinarmi un poco alle esigenze del piccolo, di sottomettermi un po’ di più alle sue richieste, di non frustrarle, di dedicargli più tempo in termini di ascolto. Bene, sapete che cosa succede ora al bambino, seguendo il filo delle sue domande? Ha certo sperimentato il rifiuto della scuola, come tanti altri bambini, ma ha – io dico scherzosamente – un “laboratorio vegetale” in casa, nei vasi della terrazza, che svolgono una funzione diversa da quella originaria. Egli vuole veder crescere il grano, vuole (ha ora sei anni e va in prima classe) vuole vedere come si sviluppa e fiorisce una pianta, come cresce una cipolla, che cosa succede della patata nella terra. Vuole piantare la pianta grassa; mi chiede perché la pianta grassa ha le spine. Io gli ho risposto giorni fa che ha le spine forse per difendersi dai predatori, per non farsi divorare. Ed egli di rimando: “ma la pianta capisce?”. Se io registrassi tutte le sue richieste, come questa sull’”intelligenza vegetale”, vi potrei assicurare che sono interrogativi a cui sovente la scienza non ha dato ancora delle risposte. Dedico talora del tempo (pochissimo, purtroppo!) a qualche passeggiata fuori casa, con lui, e l’osservazione dei fenomeni biologici (ad es. i semi “piumati” che si lasciano trasportare dal vento nei luoghi più impervi, e la conseguente diffusione spontanea della vita vegetale) l’osservazione dei fenomeni biologici, ripeto, sempre sul filo delle sue domande, acquista un senso più ampio che in casa. Insisto sul rapporto col contesto (naturale, culturale, bio-psicologico), cioè sulla percezione di nessi, di relazioni, in questo apprendimento, che smette di essere noioso come di solito succede. Insisto pure sulle astrazioni, separazioni, decontestualizzazioni che la scuola opera. La domanda, d’altro canto, non è alla base dello sviluppo intellettuale in genere, compreso il progresso della scienza? Come mai, a scuola, le domande vengono represse, e si ironizza perfino su di esse? Se noi non partiamo dalle domande, dalla “ricerca” che è naturale nei bambini, che è un bisogno di crescita normale e di autoaffermazione creativa, noi non riusciamo a “insegnare”. Quell’insegnare, quel riempire il sacco vuoto, quel fare segni (“insegnare”, appunto) su una tabula rasa, è decisamente sbagliato, ed ideologiche (nel senso marxiano di falsa coscienza) sono le spiegazioni che si presume di dare della sua inefficienza, del rifiuto che esso riscontra presso docenti e studenti. La ricerca scientifica, nei diversi ambiti, può e deve impegnarsi per fare chiarezza in proposito. E’ un problema di civiltà. Tutto ciò che è stato sottolineato finora – circa i pre-giudizi motivazionali, il nesso dei fenomeni scolastico-educativi con la didattica, lo spreco di cultura e il monoculturalismo, il condizionamento personale dell’apprendimento e i metodi didattici, la contestualizzazione dell’apprendere sulla base di un nuovo “paradigma” scientifico – ha attinenza con una nuova formazione degli educatori. Il progresso dell’istruzione internazionale, in Italia, è attualmente condannato a segnare il passo poiché i docenti, salvo pochissime eccezioni, non dispongono prima di tutto delle competenze scientifiche necessarie a promuovere l’innovazione. Durkheim, nell’Ottocento, diceva che l’insegnante ha appreso ad insegnare frequentando la scuola da scolaro, ha appreso dal suo maestro; questi, a sua volta, dal suo maestro ancora, e così via andando a ritroso, in una etero-dipendenza – incontrollata - dalla tradizione. La scuola non riesce ancora a liberarsi consapevolmente, appunto, dalla sua secolare soggiacenza alla tradizione; alle direttive del Centro, a una didattica tramandata nei secoli per contatto generazionale, alla cultura esclusiva del manuale e alla prescrizione della cultura del manuale a coloro che apprendono. I disagi degli studenti – sistematicamente inascoltati nel tempo – sono lì a testimoniarlo. Mentre il cambiamento, nel bene e nel male, è divenuto ormai una costante forse irreversibile della vita sociale, soprattutto nel settore scientifico e tecnologico, il sistema scolastico non riesce ad accedere criticamente, come dovrebbe, a questa dimensione dell’esistenza, divenendo in conseguenza, ogni giorno di più, un settore gravemente isolato e marginale della vita associata. I fenomeni interconnessi della dispersione scolastica, del disagio minorile e della devianza, della disaffezione alla vita di scuola da parte di discenti e docenti, e altri ancora, si svolgono secondo un corso che presume di essere estraneo all’organizzazione della didattica. I docenti, salvo eccezioni, non riescono, ad esempio, ad accedere alla cultura del progetto individuale e collegiale, partendo dai problemi e dalle difficoltà che riscontrano nel loro lavoro. Le difficoltà di rivedere criticamente e scientificamente la tradizione didattica (che è anche portatrice di pre-giudizi, come si è visto), di divenire essi stessi soggetto di ricerca e di crescita permanente (di auto-educazione permanente, di accedere in via ordinaria alla cultura della problematizzazione del progetto, di superare l’individualismo per inserire l’Altro come elemento imprescindibile della progettualità, della comunicazione, della crescita continua della persona, questa ed altre contraddizioni della vita attuale degli insegnanti (che producono solo malessere in loro e non soltanto in loro) non potranno essere rimosse a prescindere da una nuova, seria formazione scientifica ed operativa, che mi pare stenti a decollare, per svariati motivi. Non ci troviamo però soltanto di fronte a carenze della formazione scientifica. Manca ampiamente – in docenti, dirigenti scolastici, amministratori a vari livelli, e così via – la percezione dell’interesse pubblico che è connesso al progresso quantitativo e qualitativo dell’istruzione. Che la dispersione scolastica abbia ad es. a che fare con lo sviluppo di un “territorio”, con la vita comunitaria a vari livelli (vedi mafia, devianza, difficoltà della democrazia) è qualcosa che non sembra preoccupare molto spesso i pubblici responsabili dell’istruzione. E ciò in coerenza con una “cultura” moderna più attenta alla chiusura individualistica e competitiva che al senso della cooperazione e della reciprocità comunitaria, in un mondo che divenuto ormai uno, con parti organicamente interdipendenti. Ho cercato inoltre di dimostrare, soprattutto negli scritti degli anni Novanta, che vi è un nesso fra educazione e politica, fra paideia e libertà, con tutte le conseguenze che ciò comporta nella vita individuale e associata.

 

                                                                                    ( 11 – continua )

                                                                                                        

 

 

                                                                                                     

 

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